Max Fuschetto? Avventuroso, appassionato, noncentrico

Max Fuschetto
// di Guido Michelone //
Si definisce così – avventuroso, appassionato, noncentrico – il pluristrimentista Max Fuschetto, che nel nuovo disco «Sniper Alley. To My Brother» suona oboe, sax soprano, chitarra elettrica, basso, piano Yamaha assieme a una band di tredici elementi. Si tratta di un album importantissimo, su cui lo stesso autore riflette non senza aver prima raccontato un po‘ della sua vita, della sua arte, delle sue idee sul mondo.
D Il tuo primo ricordo della musica da bambino?
R Immagina una giovane donna che in una notte estiva stenda il bucato appena lavato su una terrazza al primo piano di una vecchia casa che dà su un giardino che si apre su altri giardini. Tranne la luce della luna, che sembra arrivare dal cielo come una scala incantata ai piedi della ragazza, e l’intermittente traffico delle lucciole, il canto dei grilli, e i versi variegati di uccelli notturni, sono immersi in un buio misterioso e multifonico. Immagina anche che in una delle due ceste poggiate sul pavimento ci sia un bambino da tenere calmo, o da cullare con la voce. La nenia raccolta nella memoria della donna, che arriva dolcissima, è una scala musicale che gira e rigira su se stessa: al piccolo parla di una gatta con una macchia nera sul musetto, di una soffitta vicino al mare e di tante altre meraviglie come le stelle di quella notte in alto nel blu del cielo.
D Come definiresti la tua attività? Musicista, artista, sperimentatore o altro ancora?
Se vado indietro a riarrotolare la mia storia non ricordo ci sia stato un periodo in cui io non mi sia impegnato, e anche divertito, a combinare i suoni improvvisando su diversi strumenti, il pianoforte in primis. Ho scoperto che la difficoltà di tenere a mente la musica che mi piaceva era bilanciata dalla capacità, che per la verità non avrei saputo spiegarmi, di crearne altra che potesse avere caratteristiche simili: una melodia interessante, un’armonia insolita, un ritmo di qualche tipo. Col tempo il comporre è diventato il luogo in cui le esperienze che chiamiamo vita trovano nel suono, nella sua organizzazione, nei suoi rimandi ad altre forme di vita, artistiche e non, delle metafore. L’originalità di una metafora è data da una qualche sintesi dell’esistente (ognuno di noi si muove in uno o più domini stilistici) che tuttavia proponga una interpretazione che sia autentica.
D Possiamo parlare di te come di uno dei protagonisti della nuova musica mediterranea?
Il Mediterraneo è luogo di approdi e di partenze, di confluenze. Tre continenti qui vivono in maniera incredibilmente ravvicinata: Africa, Europa e Asia. Di fronte ad un continuo rimescolamento, accelerato oggi dall’ impennata della tecnologia, le tradizioni, anche sotto traccia, conservano una forza che conquista le nuove generazioni, anche quelle fortemente esposte all’omologazione del consumismo. Incontri fortunati, come quello con la cantante arberesh Antonella Pelilli o il percussionista e compositore Giulio Costanzo, fondatore delle Percussioni Ketoniche, ensemble con diciotto campane in scena direttamente realizzate dall’antica Fonderia Marinelli di Agnone per il quale ho lavorato come compositore; l’esperienza breve ma intensa con Enzo Avitabile in Lotto Infinito, brano in cui ha cantato anche Giovanna Marini, e poi la frequentazione con Gianni Lamagna della Nuova Compagnia di Canto Popolare, mi hanno confermato l’idea che, anche nella creazione di nuove estetiche, le fonti popolari possono avere un ruolo determinante. Il mio lavoro – che ha ricevuto più volte un’attenzione internazionale, come le diverse interviste per la WDR Funkhaus Europa grazie ad Anna-Bianca Krause e di Barbara Tartari per la RSI, le presentazioni di Radio France, della NDR Kultur Amburgo, di Radio Rai e di altre emittenti – si presenta come una sintesi, un ibrido, di chi, come me, la cui unica eredità è rappresentata da una natura profondamente cosmopolita e contemporanea che condivide alcune qualità e caratteristiche tipiche della musica e della cultura del Mediterraneo. La mia è una terra che sa ancora parlare con la voce delle volpi e dei lupi.
D Per te ha ancora un senso oggi la parola musica? Tu come la vivi?
R Se per musica s’intende un modo per eplorare il mondo, per vivere più intensamente lo scampolo d’esistenza che ci tocca, se è il perdurare di quel senso di avventura, scoperta e meraviglia che caratterizza l’infanzia e l’adolescenza, se è un modo originale per mettersi in contatto col mondo, creare dei fili invisibili di comunicazione, delle vibrazioni che muovendosi dalle menti attraversino i corpi, producano visioni, come solo il suono sa fare, se questo e anche altro, allora si: la musica è un complemento del mondo irrinunciabile che allarga l’esistenza e crea magnifici luoghi della mente in cui potersi ritrovare. Ritengo che comporre musica, ed evolvere in questa dimensione, è come svilupparsi in un’altra forma pur conservando la propria natura.
D Ti piace il jazz? E si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste per te qualcosa di definibile come jazz italiano?
R Oggi lo ascolto molto meno, ma sono legato ad alcune figure: Coltrane, Evans, Davis. “Africa/Brass” e “A Love Supreme“, con la forza selvaggia delle percussioni, la presenza di lunghi bordoni armonici, le acrobazie melodiche dei sassofoni di Coltrane e l’urlo degli altri ottoni, il tutto immerso in una concezione filosofica e compositiva raffinatissima, dimostrano lì, in quel suono unico una sintesi straordinaria fra il primitivo e le inquiete istanze del contemporaneo – politiche, razziali ed esistenziali. Nel precedente mio lavoro, Ritmico Non Ritmico, nel brano dedicato a Battisti, A Lucio B., ho coinvolto il trombettista e flicornista Luca Aquino, sannita come me, il cui suono intenso, morbido, la gamma espressiva ampia sono l’espressione di uno stile assolutamente personale che si può trovare anche in Italia. Il blues, che rappresenta le radici, e poi il jazz, hanno rappresentato nel Novecento un laboratorio unico di soluzioni espressive in parte ancora attuali ma, soprattutto, sono il simbolo di come può realizzarsi, attraverso un lungo ma inesorabile sincretismo culturale tra genti diverse, la nascita di un universo musicale totalmente nuovo e inatteso.
D Molti ormai gridano alla morte della musica impegnata e/o sperimentale: ma esiste ancora l’avanguardia nel suono contemporaneo?
R Esiste ed esisterà sempre. Ricordo un pensiero di Abraham Yehoshua, secondo il quale, a differenza delromanzo, limitato nella sperimentazione dall’uso della lingua, pittura e musica sono condannate all’innovazione . Per alcuni, dotarsi di nuovi strumenti espressivi è qualcosa di naturale e necessario per esprimenre la propria posizione di fronte al mondo che si trasforma. Se non fosse cambiato il modo di vedere non avremmo avuto i Cezanne e se non fosse cambiato il modo di ascoltare e vivere la musica non avremmo avuto i Led Zeppelin. I lavori di Morton Feldman si allungano in una dimensione interiore in espansione e propongono dimensioni percettive fuori del tempo e dello spazio. Negli studi di registrazione, dal 1965 in poi a partire da quelli di Abbey Road, si è sperimentato senza sosta imprimendo anche alla Popular Music un’accelerazione folle di novità. Mi piace citare Cervantes che fa dire, non a caso a Sancho Panza, che ‘ nessuno può sapere dove apparirà la lepre ‘. Chi pensa che l’innovazione, o la complessità, o anche una nuova sensibilità al suono, che può rimanere lo stesso mentre a cambiare sono gli uomini che lo usano, sia appannaggio di un dominio stilistico in particolare, si rivela piuttosto miope. Considero i dogmi in arte, come nella vita, poco interessanti, il caso non ne prevede, e mi piace avventurarmi verso mondi poco conosciuti. A Yehoshua aggiungo anche Baudelaire: ‘il segreto dell’artista contemporaneo è estrarre l’eterno dall’effimero’.
D Cosa distingue appunto l’approccio alla musica di americani da noi europei?
R L’ approccio degli americani è più immediato, primitivo e anche pragmatico. Per avere un’idea della differenza ci si può affidare, addentrandoci in uno dei domini stilistici, alla visione molto distante di compositori come Boulez, Berio e Stockhausen da un lato e La Monte Young, Cage, Riley, Reich, Feldman dall’altro. Quello che va sotto la voce di minimalismo, ma che in realtà racchiude universi stilistici ben più variegati, si è rivelato alla lunga distanza, tra l’altro, il movimento più in sintonia con ciò che è accaduto in altre aree della musica come il pop, il rock e il jazz. Steve Reich ha dimostrato vicinanza ai Radiohead, ricambiata, come un tempo l’interesse di Berio per i Beatles, e in Radio Rewrite si è ispirato a due brani del gruppo. Gyorgy Ligeti nel 1973, dopo aver scritto l’anno precedente un saggio sui nuovi compositori americani, ha composto quella meraviglia di Clocks and Clouds che si ispira alle ricerche di Riley e Reich. Per quanto mi riguarda l’esperienza di un gigante come Bartok ha trovato terreno molto più fertile negli Stati Uniti. Anche la diffusione, a partire dalla California già dagli anni ’50, del pensiero filosofico e delle pratiche di meditazione orientali ha influito, in alcuni ambiti anche insieme alle droghe, enormemente sullo sviluppo di nuovi modelli percettivi e, di conseguenza, anche compositivi.
D Parlaci ora del tuo album Sniper Alley; sei anzitutto contento del risultato?
R Sniper Alley racconta la storia di Džemil Hodžić e del suo progetto per preservare la memoria fotografica dell’assedio di Sarajevo (1992-1996). Attraverso la tragedia personale di Džemil, che assiste alla morte del fratello sedicenne Amel per mano di un cecchino, il film esplora l’infanzia interrotta dalla guerra. Questo lavoro, nato per caso, ha voluto sondare la capacità dell’arte di trasformare il dolore in memoria e resistenza. È un omaggio ad Amel, che sognava di diventare un artista, e a tutti i bambini che, nonostante la guerra, continuano a sognare. Nonostante avessi deciso che la partitura dovesse avere un tema portante, alla fine mi sono ritrovato a dover gestire molte idee per cui, nonstante la sua brevità, il disco presenta continui cambi di registro. Da compositore la dimensione su cui mi sono concentrato di più riguarda il suono complessivo, e per far questo ho immaginato qualcosa di nuovo anche utilizzando personalmente strumenti che non uso abitualmente come la chitarra elettrica e il basso. Come per gli altre incisioni, considero Sniper Alley-To My Brother un lavoro di transizione che mi ha consentito di pormi nuove domande, di acquisire nuovi mezzi espressivi, di abbandonarne altri e, soprattutto, di affacciarmi su qualcosa che ancora non ha contorni definiti, ma che sento attrarmi come un mondo posto al di là dello specchio.
D Come vivi tu la musica in Italia anche in rapporto alle tue esperienze sul territorio?
R Ci si incontra tra simili, artisti interessati all’arte. In Italia c’è un backgraund di grandi artisti per cui il loro lavoro nasce da una pura vocazione e i cui risultati sono spesso apprezzati di più nel panorama internazionale. Sono diversi anni che collaboro con il gruppo di danza degli Eko Dance Project di Pompea Santoro grazie al cantante, drammaturgo e compositore Cosimo Morleo e allo scenografo Paolo Mohovic. Insieme abbiamo realizzato numerosi spettacoli e quest’anno abbiamo portato in scena all’Astra di Torino, per la stagione di Palcoscenico Danza, Au Revoir Miroirs, un’azione di danza, teatro e musica che ci vedrà coinvolti prossimamente in alcuni dei più importanti teatri italiani. In Italia si può trovare un chitarrista elettrico come Pasquale Capobianco, dello storico gruppo degli Osanna, raffinatissimo inventore di un suono assolutamente inedito; un pianista come Enzo Oliva capace di trasformare il segno in partitura in pura poesia sonora; o il giovanissimo ed eccellente percussionista Roberto di Marzo con cui condivido diversi progetti in divenire.
D Cosa pensi tu dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana (di cui la musica ovviamente è una colonna portante)?
R Dalla letteratura alla musica ai media, dominano contenuti di puro intrattenimento . L’avvento delle tv commerciali e poi dei social ha relegato ai margini proposte più complesse. Dal dopo guerra alla metà degli anni ’60 il cinema italiano ha fatto scuola nel mondo, penso poi alla delusione di Fellini – il regista più vicino alla pittura che ha fatto del cinema il luogo onirico per eccellenza – per lo zapping che anticipa il modo di fruire i social. Oggi ha più seguito nella critica e nella segnalazione di nuove proposte l’influencer, che amplifica il già noto, piuttosto che l’ osservatore dallo sguardo più ampio, e spesso più selettivo, che attraverso un lavoro di ricerca porta all’attenzione di lettori o ascoltatori lavori sommersi dalle qualità spesso straordinarie di cui pochi sanno. In un mondo dominato dall’indicazione dei tempi medi di lettura che speranza c’è che ci si avventuri in opere che prevedono settimane o mesi di impegno ? Questo vale anche per la musica: Gyorgy Ligeti, un gigante del ‘900, i cui lavori sono stati presi integralmente da Kubrik per la colonna sonora di 2001 Odissea nello Spazio, su Spotify fa poche decine di migliaia di ascoltatori mensili. Non volendo essere né apocalittici, né integrati, direi che i tempi portano con sé la stupefacente contraddizione di un oceano di contenuti a disposizione, come mai prima, diabolicamente bilanciati, e ristretti, dalla predilizione di comfort zones dai confini limitati come si fa coi villaggi turistici. Per quanto mi riguarda preferisco un certo disordine spontaneo, come il crescere dell’erba e l’incresparsi del mare, a un ordine fittizio.

Max Fuschetto