Johnny Griffin con «Sextet», in fila per sei col resto del bop (Riverside, 1958)

Griffin fu uno dei pochi sassofonisti in grado di superare i mantra armonici imposti da Monk e, sebbene non avesse mai acquisito lo status di icona del jazz post-bellico, mostrava un livello di scioltezza, energia e arguzia a cavallo tra le complessità melodiche del bebop, la spettacolarità da «trapezio volante» della precedente Swing Era ed una spavalderia blues ascrivibile al metodo espressivo delle grandi orchestre.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Nato a Chicago, sin da bambino Johnny Griffin studia pianoforte e chitarra hawaiana, mentre a partire dalle scuole superiori si cimenta su oboe, corno inglese e sassofono contralto sotto la guida di Walter Dyatt, il quale aveva seguito anche ad altri giovani sassofonisti dal suono potente e distintivo come Gene Ammons e Von Freeman. Dal 1950 al 1951, Griffin è dapprima al fianco di Jo Jones, quindi al seguito del sassofonista tenore texano Arnett Cobb, mentre tra il 1951 e il 1953, entra in una banda dell’esercito. Tornato a Chicago, l’irrequieto Johnny si ferma per qualche tempo a suonare nella «città del vento», fino a quando non viene introdotto nel giro dei giovani pionieri dell’hard-bop newyorkese che orbitavano intorno ai Messaggeri di Art Blakey. Prima esordire come band-leder, fra il 1956 ed il 1957, Griffin agisce proprio al soldo dei Jazz Messengers; l’anno successivo per quattro mesi, con l’organico di Thelonious Monk prende parte ad alcune memorabili registrazioni dal vivo al Five Spot di New York, muovendosi con disinvoltura all’interno della presunta impenetrabilità monkiana. Un territorio assai difficile per quanti in quei giorni di fermento si avvicinavano alla sintassi del Monaco. Griffin fu uno dei pochi sassofonisti, insieme a John Coltrane e Sonny Rollins, in grado di superare i mantra armonici imposti da Monk e, sebbene non avesse mai acquisito lo status di icona del jazz post-bellico, mostrava un livello di scioltezza, energia e arguzia a cavallo tra le complessità melodiche del bebop, la spettacolarità da «trapezio volante» della precedente Swing Era ed una spavalderia blues spesso associata al metodo espressivo delle grandi orchestre.
Johnny Griffin spesso veniva definito «il piccolo maestro» e questo disco ne è la prova. Soprattutto la formula del sestetto con attacco a tre punte, spesso sgomitanti, crea quasi un’atmosfera da mini big-band. Registrato nel 1958, in «Johnny Griffin Sextet» il sassofonista si avvale di un superbo line-up composto da Donald Byrd alla tromba, Pepper Adams al sax baritono, Kenny Drew al piano, Wilbur Ware al basso e Philly Joe Jones alla batteria. Tutti i sodali appaiono in condizioni ottimali, con il leader che, forse, non era mai stato in una forma cosi smagliante, dando così vita ad un album di grana finissima, sia sotto il profilo esecutivo e strumentale che creativo. Non si dimentichi che Griffin, all’epoca, passava per essere uno dei sassofonisti più veloci; sfrecciava negli assoli come un giocatore di biliardo intento a sparecchiare il tavolo in solo colpo, disseminando le improvvisazioni di citazioni ironiche, corse frenetiche, rauche grida e clacsonate altisonanti; infuocava regolarmente perfino la più tenera delle ballate, sino a portarla ad una temperatura emozionale estrema, distillando un blues dal gusto terroso che attingeva alle crude tradizioni rhythm and blues della nativa Chicago.
Una volta promosso come «il sassofonista più veloce del mondo» e band-leader del set «A Blowin ‘Session« con Hank Mobley e John Coltrane, Griffin fece il suo debutto in grande stile alla Riverside con «Johnny Griffin Sextet». Il sassofonista si era creato una nomea per la destrezza e la rapidità di esecuzione, ma in questa occasione risultò assai convincente anche sul terreno del blues più dilatato e nelle ballate melodiche. Ottimi gli scambi sui tempi medi ma, perfino in overclocking, il sassofonista mostrò sempre il dono di apparire a suo agio e rilassato. Spesso Griffin venne sottovalutato, o non adeguatamente considerato, ma in realtà era uno dei sassofonisti più completi e convincenti. Dal canto suo, Pepper Adams aveva fama di essere un baritonista muscoloso e dai toni profondi, in grado di essere caldo e fluente al contempo. La spalla ideale nel sestetto, però, fu Donald Byrd che, spronato dall’ottima compagnia, sciolse le briglie alla tromba in puro stile Clifford Brown; dal canto suo Kenny Drew garantì un invidiabile comping di derivazione Bud Powell. La sezione ritmica fu superba, con Joe Jones a volte irregolare ma sospinto da una grazia divina e Ware che pizzicò il basso con un tocco morbido e, allo stesso tempo, sostenuto.
L’opener è affidato a «Stix Trix», con la linea frontale a tre fiati molto serrata e quasi all’unisono. «What’s New» inizia dolcemente, con Griffin che indica il tema e ottiene i primi onori della ribalta. La tromba di Byrd ottiene il secondo assolo, seguito dal baritono di Adams. Kenny Drew sfodera un assolo che ricorda le gocce di pioggia cadenti, prima che Griffin torni in trincea. La battuta quasi marziale di Philly Joe Jones introduce «Woody ‘N You» di Dizzy Gillespie; Griffin si unisce per un breve duetto prima che il resto della retroguardia si addensi per trasformare la melodia standard in un calypso. Quasi con la stessa rapidità, la ciurma si ritira si ritira per un assolo di basso di Wilbur Ware, che spiana il terreno ad una vivace progressione pianistica. Ancora una volta il line-up si allontana, lasciando Griffin in solitaria, mentre Ware detta i cambiamenti. A questo punto la batteria da Philly Joe inizia un piacevole scambio di quattro battute con il sax di Griffin, mentre il tutto sembra trasformarsi in una flessuosa bossa nova. Byrd e Adams tornano in prima linea con «Johnny G.G.», dove Griffin, durante il suo assolo, lancia alcuni riff imbevuti di blues come strali acuminati, supportato dagli altri due fiati, i quali lo assecondano con una serie di licks modello Count Basie Orchestra. Durante la fuga di Donald Byrd, Philly Joe raddoppia il tempo, mentre dopo l’assolo di basso di Ware, la batteria s’interrompe ed un altro duetto di basso e tenore aumenta lo score della performance, prima che il resto del gruppo torni al gioco di squadra. «Catharsis», a firma Griffin, offre a tutti la possibilità di mettersi in vetrina prima che «il negozio» chiuda i battenti. Come da copione, ad un certo punto, tre quarti della band va in stand-by per far posto ad un altro amorevole rendez-vous tra sax tenore-basso. L’espediente rende ancora più attrattivo il rientro dell’intera compagine. «Johnny Griffin Sextet» è una combinazione perfetta di affinato solismo e di affiatato gioco di gruppo, paragonabile solo a talune produzioni di Art Blakey & Jazz Messengers.
Griffin non ha certamente cambiato la storia jazz, ma ne ha messo in pratica le tecniche più consolidate sulla scorta di un inequivocabile aplomb; ha suonato al fianco di alcune delle menti più fertili e creative del jazz, perfezionando uno stile pieno e virtuosistico che, a detta di molti studiosi, avrebbe definito esattamente lo standard di quel suono tipico, potente, veloce e diretto, che ogni sassofonista bebop post-parkeriano dovrebbe (o avrebbe dovuto) avere. Con il passare degli anni, ha finito col diventare più sobrio ed incline a giocare con un mazzo di carte dai segni cangianti e mutevoli: un’affidabile inventiva, mai banale, la discesa sconnessa verso le note basse, un gorgheggio interrogativo a metà registro sul modello Dexter Gordon ed un vibrato soavemente svolazzante nelle ballate romantiche, trovando ampio consenso fino alla soglia dei settant’anni, quale rinomato interprete dalla personalità marcata ed evidente.
