Cover_Anatomy-of-a-Dream

// di Francesco Cataldo Verrina //

Lorenzo Iorio, chitarrista calabrese di talento, con «Anatomy Of A Dream», compie un gesto di sintesi e di apertura. Il terzo lavoro discografico in trio non si limita a proseguire un percorso, ma lo rifonda, lo espande e lo armonizza. L’album, pubblicato da Filibusta Records, si colloca in una zona liminale del jazz contemporaneo, dove la scrittura diviene paesaggio e l’improvvisazione assume la funzione di sismografo emotivo. Il riferimento a Bill Frisell non costituisce un’imitazione né un tributo, ma una postura estetica, tanto che la chitarra di Iorio non cerca il virtuosismo né la saturazione timbrica, ma lavora per sottrazione, per rarefazione e per evocazione. Il suono si distende, si lascia attraversare da silenzi significativi e da meditazioni che non sono vuoti ma attese.

Le sette tracce che compongono «Anatomy Of A Dream» non si dispongono secondo una logica narrativa lineare, bensì sulla scorta di una geografia interiore. Ogni titolo – da «Maria» a «Family» – rappresenta una soglia, un punto di accesso ad uno spazio condiviso e condivisibile che non si chiude mai su se stesso. La presenza del violino di Mateusz Smoczynski in «Vilnius Blues» introduce una dimensione ulteriore, ossia non un semplice cameo, ma un innesto che altera la temperatura del disco, lo spinge verso una malinconia obliqua, quanto meno in direzione di una memoria che non si dichiara ma suggerisce. Il blues non sembra una forma né una citazione, ma una radice che si manifesta come tensione, vibrazione sotterranea ed eco. La registrazione in presa diretta presso At The Place Studio di Alessandro Guido, in modalità analogica, non contempla un vezzo tecnico ma una scelta poetica, mentre il suono conserva le sue imperfezioni, le sue asperità e la sua carne. Il trio, completato da Alessio Iorio al contrabbasso e Maurizio Mirabelli alla batteria, agisce come un organismo unitario, dove ogni gesto strumentale risulta essere al servizio di un’idea condivisa di spazio e di tempo. Non esiste gerarchia, non c’è protagonismo, piuttosto si percepisce una tensione collettiva verso l’ascolto, in direzione di una possibilità di creare un habitat sonoro che non imponga ma accolga.

L’ascolto di «Anatomy Of A Dream» si delinea come un attraversamento, non di un repertorio, ma di una serie di ambienti emotivi e visivi, ciascuno con una propria grammatica timbrica ed una specifica tensione interna. Il trio di Lorenzo Iorio non costruisce temi ma ambienti audiotattili, dove ogni tassello si comporta come un quadro sonoro, un dispositivo percettivo che richiama tanto la pittura quanto il cinema, tanto la spazialità dell’installazione quanto la temporalità del racconto. «Maria» apre il disco con una delicatezza che non raffigura un’idea di fragilità ma di sospensione. La chitarra lavora su intervalli aperti, con una predilezione per quarte e settime che evocano un senso di attesa, come in certe tele di Edward Hopper, dove la luce non illumina ma interroga. Il contrabbasso di Alessio Iorio non accompagna, ma disegna contorni, mentre la batteria di Mirabelli suggerisce più che scandire. L’armonia si muove tra tonalità ambigue, con modulazioni che non cercano risoluzione immediata ma duratura permanenza, come una soglia, un uscio che invita ad entrare. «Big Joel» si presenta come una variazione sul tema dell’identità. il trio lavora su cellule ritmiche spezzate, con un uso del tempo che richiama il montaggio cinematografico di Michel Gondry, fatto di frammenti, accelerazioni e rallentamenti. L’armonia si costruisce su sovrapposizioni modali, con la chitarra che esplora territori tra il lydio e il dorico, creando una tensione che non esplode ma si sedimenta. Parliamo di un costrutto che potrebbe essere una scultura sonora, alla maniera di Anish Kapoor, a metà strada fra pieno e vuoto, superficie e profondità. «Vilnius Blues», con la presenza del violino di Mateusz Smoczynski, fissa il centro emotivo del disco. Il blues appare come una memoria e non una forma. Il violino introduce una dimensione lirica che si avvita con la chitarra in un dialogo che ricorda le atmosfere di «The Double Life Of Veronique» di Kieslowski: due voci, due mondi, una sola vibrazione. L’armonia si muove su progressioni discendenti, con accordi estesi che lasciano spazio all’ambiguità, in cui non esiste dominante, non c’è tonica, ma solo un flusso. Il contrabbasso diventa una linea narrativa, mentre la batteria lavora per sottrazione.

«Boris» è il brano più cinematico del disco. La struttura richiama il minimalismo di Michael Nyman, con ripetizioni che non sono iterazioni ma variazioni. La chitarra lavora su arpeggi spezzati, con un uso sapiente del delay che crea una spazialità quasi architettonica. L’armonia si costruisce su triadi sovrapposte, con una tensione tra maggiore e minore che richiama la pittura di Mark Rothko, nella quale i campi di colore non si oppongono ma si fondono. «Tree of Bells» assume le sembianze di una meditazione. Il titolo suggerisce una verticalità, la quale viene realizzata realizza attraverso una stratificazione timbrica che richiama le installazioni sonore di Janet Cardiff. La chitarra lavora su armonici naturali, il contrabbasso su glissati che sembrano respiri, la batteria su risonanze. L’armonia risulta statica e costruita su pedali che non cercano sviluppo ma immersione. È un componimento che non si ascolta, ma si abita. In «Your Hands» affiora il momento più intimo del disco. Il trio si ritrae, lasciando spazio al silenzio. La chitarra lavora su accordi aperti, con una predilezione per il re maggiore e le sue varianti modali. Il contrabbasso diventa voce e la batteria gesto, come in una fotografia di Francesca Woodman: fragile, intensa ed irripetibile. «Family» chiude il disco con una dichiarazione di appartenenza. L’armonia si apre, si distende, con progressioni che richiamano il gospel ma lo filtrano attraverso una sensibilità europea. La chitarra lavora su voicing estesi, con la nona e l’undicesima che diventano colore. Il trio diventa un corpo unico, quasi una comunità sonora, protesa verso un finale che non chiude, ma rilancia.

«Anatomy Of A Dream» sancisce l’idea di concept che si muove tra le arti e che non cerca di rappresentare ma di evocare. Ogni traccia sembra una stanza, ogni suono una luce, ogni silenzio una domanda, un disco che non si limita ad essere ascoltato, ma che chiede di essere vissuto. Non da decifrare, ma da abitare; non offre risposte, ma domande; non cerca di impressionare, ma di insinuarsi; un lavoro che si colloca fuori dalle retoriche del jazz italiano contemporaneo, evitando tanto l’accademismo quanto la spettacolarizzazione.

Lorenzo Iorio Trio
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