Jazz e hip hop generati dalla stessa sostanza del padre

Makaya McCraven
Molti artisti di colore, appartenenti alla street culture ed al rap sono cresciuti sotto l’influenza dei dischi jazz dei loro genitori.
// di Cinico Bertallot //
Generati dalla stessa sostanza del padre, il jazz e l’hip hop si somigliano più di quanto si possa immaginare, almeno a livello di fenomeno metropolitano e di coinvolgimento trans-generazionale, Entrambi si sono sviluppati su i rami dello stesso albero genealogico, coltivato dalla musica e dalla cultura africano-americana. L’hip hop viene considerato la musica pop di oggi, parallelamente al jazz degli anni Trenta e Cinquanta. Entrambi i generi sono riconosciuti e storicizzati come due forme d’arte di matrice black, nate quale sfogo da parte degli artisti, al fine di condividere ed evidenziare le molte gioie e i tanti dolori determinati dall’essere «neri» in America, e relative discriminazioni razziali e sociali.
Come il jazz allignò nel crogiolo di culture della prima New Orleans, decenni dopo, l’hip hop nacque dal mélange culturale di New York, quando negli anni ’70 la Grande Mela era al collasso economico. La stessa città in cui i giovani neri, portoricani e caraibici trasformarono la disperazione e le barriere razziali in sbocchi creativi, attraverso l’hip hop la breakdance e l’aerosol-art (i graffiti), oggi inglobati di diritto nel concetto di BAM, Black American Music, insieme al jazz, al funk, al blues, al soul e all’R&B.
I pionieri e le figure eminenti dell’hip hop furono: Kool Herc, il quale utilizzava sezioni percussive attraverso una coppia di giradischi, suonando due copie dello stesso disco e passando dall’una all’altra: la sezione estesa sarebbe poi stata identificata come break-beat; Grandmaster Flash, abile e di innovativo DJ, che insieme alla sua crew manifestava uno stile unico, consistente nello scambiare i testi tra quattro rapper e fonderli con le sue prodezze dietro la consolle, proprio sul modello dei musicisti jazz che si passavano la staffetta scambiandosi le battute durante i loro assoli; La Sugar Hill Gang ha portato l’hip hop alla ribalta. Famosa soprattutto per il primo singolo di successo del 1979, entrò nella Top 40 di Billboard con «Rapper’s Delight», un logorroico speech imperniato sul break-beat di «Good Times» degli Chic.
Molti artisti, appartenenti alla street culture ed al rap sono cresciuti sotto l’influenza dei dischi jazz dei loro genitori. Anche alcuni jazzisti iniziarono a mescolare l’hip hop al loro sound, come il trombettista Tom Browne. Nel 1979, un suo brano, «Funkin’ For Jamaica», catturò l’atmosfera ludica del primo hip hop, mentre nel 1983 il pianista-tastierista Herbie Hancock pubblicò «Rock-it» nell’album «Future Shock», dando un’impronta completamente nuova al suo groove, grazie all’uso di scratch e break ricavati attraverso l’uso di un giradischi, solo per fare qualche esempio.
Agli inizi del terzo millennio, quando la Blue Note apri i suoi archivi ai rapper e ai DJs, spalancò anche la porta alla legittimazione del campionamento, offrendo a produttori moderni come Madlib e Makaya McCraven la possibilità di esplorare i meandri del jazz. Nel 2003, Madlib ha pubblicato «Shades Of Blue», contenente una rivisitazione di «Montara» di Bobby Hutcherson. Dagli inizi, sino alla recente evoluzione dell’hip hop, il jazz sembra essere in buone mani, come dimostra l’album del batterista Makaya McCraven, «Deciphering The Message», in cui viene coverizzata «Autumn In New York» di Kenny Burrell.
