«Il Festival di Umbria Jazz – Una ricostruzione storica» di Francesco Rondolini. Un libro-documentario sulla kermesse perugina (Morlacchi Editore, 2024)

Anni di antagonismo e contestazione, ma anche di meraviglia, che il libro di Rondolini, tra testimonianze, ritagli giornalistici e curiosità, descrive con dovizia di particolari. Un lavoro certosino e ben organizzato, quasi come un plot narrativo di tipo cinematografico.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Umbria Jazz, ha una lunga storia, ma quello che mancava era sicuramente «una ricostruzione storica» ed organica dei momenti peculiari che hanno caratterizzato quella che per lunghi anni è stata una delle kermesse jazzistiche più importanti del mondo. «Il Festival di Umbria Jazz» di Francesco Rondolini, saggista, studioso, musicista ed esperto di comunicazione, ha questo e molti altri meriti. L’opera di Rondolini, che si srotola come una pellicola cinematografica sull’asse di quattrocentocinquanta pagine, è una sorta di libro-documentario, un film cartaceo che attraversa la memoria storica di una regione, ma soprattutto di una città come Perugia, assurta agli onori della cronaca mondiale grazie a quanto ci potesse essere di più lontano dalla cultura del luogo e dalla tradizione italiana in generale, ossia il jazz.
Tutto ciò grazie all’impegno di alcuni appassionati cultori del genere che riuscirono a trasformare Perugia ed altre località dell’Umbria in una sorta di Woodstock calata in un contesto tardo-medievale con una partecipazione inattesa ed un flusso umano non facilmente gestibile, proprio a causa delle struttura urbanistica delle città umbre. Tra difficoltà e polemiche, i primi anni di Umbria Jazz costituirono un unicum a livello planetario, mentre la nomenclatura più prestigiosa del jazz mondiale arrivava a Perugia e dintorni, attirando migliaia di giovani provenienti da tutta Europa. Alberto Alberti, uno dei primi organizzatori di Umbria Jazz, insieme a Carlo Pagnotta, in un’intervista radiofonica, che mi rilasciò negli anni Ottanta, sottolineava proprio la capacità di attrazione di Perugia rispetto ad altre manifestazioni simili che si svolgevano all’interno di spazi aperti, immensi ed extra moenia. Il capoluogo umbro, per via della su struttura chiusa e medievale, consentiva agli artisti stranieri, che ne subivano il fascino, di potersi muovere fra la gente, avendo a portata di mano negozi, bar, teatri, club e ristoranti. Anni di antagonismo e contestazione, ma anche di meraviglia, che il libro di Rondolini, tra testimonianze, ritagli giornalistici e curiosità, descrive nella prima parte con dovizia di particolari. Un lavoro certosino e ben organizzato, quasi come un plot narrativo di tipo cinematografico, che offre non solo stimoli alla nostalgia ed al ricordo, ma innumerevoli spunti di riflessione a quelli della mia generazione, i quali hanno vissuto quei momenti – talvolta da inconsapevoli spettatori – di una storia irripetibile, dove era possibile trovarsi a pochi metri di distanza da alcune figure mitiche del jazz mondiale: Thad Jones And Mel Lewis, Charles Mingus, Keith Jarrett, Sun Ra, Art Blakey, Chet Baker, Count Basie, Weather Report, Horace Silver, Bob Berg, Dizzy Gillespie, McCoy Tyner, Buddy Rich, Stan Getz e tanti altri. Per questo e altri motivi, il libro di Rondolini andrebbe studiato nelle scuole superiori umbre, quale appendice ai programmi di storia ufficiale.
Dopo l’interruzione di quella «primordiale» Umbria Jazz – oggi si direbbe per motivi logistici – vissuta nel segno della condivisione, del libertarismo e dell’amore fraterno, la ripresa nel 1982 con i concerti a pagamento viene tracciata, anno per anno, in maniera dettagliata, attraverso i protagonisti, il parere degli addetti ai lavori, il punto di vista degli organizzatori e le immancabili polemiche. Tante le foto ufficiali a corredo del libro, insieme alle locandine e agli articoli di giornali dell’epoca che sottolineavano l’affermazione crescente della kermesse perugina. Un vera miniera di informazioni non solo per gli storici, gli studiosi, ma perfino per il semplice appassionato di jazz e per quanti in quel periodo si sono trovati a passare in Umbria per assistere a qualche concerto. Sono gli anni della fusion e delle prime commistioni con gli artisti brasiliani, gli anni di Miles Davis, Al Jarreau, George Benson, Steve Ray Vaughan, Herbie Hancock, Steps Ahead, Ahmad Jamal, Lionel Hampton, Manhattan Transfer fino ad arrivare alle suggestive notti di San Francesco al Prato con la Gil Evans Orchestra. Il libro descrive la magia del festival umbro, in cui il jazz era l’elemento cardine e dominante, fermandosi al 1987, momento dell’arrivo di Sting accompagnato dall’orchestra di Gil Evans, forse un preludio agli anni a venire, nei quali la presenza di artisti pop e rock diverrà sempre più ampia e frequente, fino all’abbandono dei Giardini del Frontone e all’istituzione dell’Arena Santa Giuliana vero teatro di eventi para-jazzistici. Sicuramente uno dei contrassegni salienti del libro è stata la ricostruzione accurata, per quanto possibile, di tutti gli ensemble e dei line-up che hanno preso parte al festival, un vero archivio storico, un prontuario a disposizioni di quanti vogliano verificare, passo dopo passo, l’evoluzione musicale di Umbria Jazz, da pochi eventi ad un ricco ventaglio di proposte sempre più variegate. Del resto, lo stesso autore mi diceva telefonicamente che tale operazione non è stata per nulla agevole, a causa della frammentarietà delle fonti, e che una simile schedulazione delle band e dei solisti partecipanti alle varie annate del festival, sia pure con qualche veniale inesattezza, non è reperibile da nessun’altra parte, se non su questo libro.
Francesco Rondolini nelle conclusioni scrive: «Questa è la sfida che (Umbria Jazz) ha vinto negli anni Novanta e Duemila, ma la competizione più ardua è sempre quella del domani. Riconfermarsi al vertice. Dopo cinquanta edizioni non è una cosa da poco, ma noi amiamo il jazz, amiamo la musica ed amiamo Umbria Jazz». Al netto della validità del libro che non dovrebbe mancare nella biblioteca di qualunque appassionato di jazz, va detto che oggi Umbria Jazz ha perso molto del suo fascino iniziale, vuoi per la reiterata esibizione di una ristretta cerchia di nomi che detengono il potere nell’ambito del jazz italiano e vuoi perché accerchiata da una pletora di manifestazioni simili che si svolgono in ogni contrada del nostro Paese e che propongono gli stessi artisti, i quali calano in Italia come le orde barbariche, pretendendo un minimo di serate in lungo e largo per tutta la Penisola. Forse il miglior augurio che si potrebbe fare ad Umbria Jazz, sarebbe quello di una ridimensionamento quantitativo a vantaggio della qualità e di una varietà della proposta in senso precipuamente jazzistico, soprattutto un abbandono dell’elefantiasi spettacolare di tipo poppish. Da questo forse dipenderà la sua stessa sopravvivenza.
