Joshua Redman, Brad Mehldau, Christian McBride, Brian Blade con «RoundAgain»: tutti per uno, uno per tutti (Nonesuch Record Inc. 2020)

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Brano dopo brano i quattro musicisti si passarono la staffetta, accogliendo le idee l’uno dell’altro senza soluzione di continuità, alla medesima stregua di conosceva il gioco di squadra a menadito. Per tutta la durata del disco essi anticipano, interagiscono, recedono e rispondono in maniera adeguata e mercuriale, mantenendo alto il livello della temperatura esecutiva.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Tutti di nuovo insieme, che notizia per gli appassionati di jazz mainstream! Fu l’evento del 2020, eravamo in piena pandemia, me se ne parlò a lungo. I membri dell’originale Joshua Redman Quartet: Joshua Redman (sassofono), Brad Mehldau (piano), Christian McBride (basso) e Brian Blade (batteria) si erano ritrovati insieme distillando un album di straordinaria bellezza, a circa 26 anni dalla loro ultima collaborazione, ossia l’album« Mood Swing». Negli ultimi decenni, ciascuno di essi aveva suonato in diverse occasioni con uno o più sodali del celebre quartetto, ma mai tutti e quattro insieme. Brano dopo brano i quattro musicisti si passarono la staffetta, accogliendo le idee l’uno dell’altro senza soluzione di continuità, alla medesima stregua di chi conosceva il gioco di squadra a menadito.

Nessuno dei musicisti coinvolti nel progetto «RoundAgain» aveva bisogno di incrementare il profilo pubblico della propria carriera o era alla ricerca di ulteriore visibilità, anche se le reunion producono sempre buoni effetti a livello mediatico ed ampliano, se non altro corroborano, la popolarità degli artisti coinvolti. I quattro vecchi commilitoni, Joshua Redman, Brad Mehldau, Christian McBride e Brian Blade potevano e possono contare su carriere consolidate in proprio attraverso molteplici altre collaborazioni sia sul palco e che in studio. Eppure in ognuno di loro, come in qualsiasi musicista sincero ed in costante divenire – perché vogliamo credere che questa sia stata un’operazione alquanto sorgiva e spontanea – deve essere scattata una molla, ossia una naturale curiosità su come sarebbe stato suonare di nuovo insieme in quartetto in quel momento, indipendentemente dai trascorsi e dalla storia condivisa in passato. Per contro, il progetto potrebbe essere considerato come un gesto di umiltà, nonostante la marcata visibilità internazionale da parte dei quattro sodali, nel voler vedere che cosa sarebbe accaduto, quali nuovi stimoli sarebbero emersi e che cosa ciascuno di essi, alla luce delle tante esperienze, avrebbe potuto apprendere dall’altro e viceversa. Lo sforzo unificato ha prodotto un progetto di notevole struttura musicale, espressiva e compositiva che non ha lasciato indifferente nessuno dei nuovi e vecchi cultori di Joshua Redman, Brad Mehldau, Christian McBride e Brian Blade, i quali per tutta la sessione anticipano, interagiscono, recedono e rispondono in maniera adeguata e mercuriale, mantenendo alto il livello della temperatura esecutiva. Così, «RoundAgain» si candida(va) ad essere, probabilmente, l’album «collaborativo» e all-stars più avvincente del 2020 ed una delle riunioni più importanti degli ultimi anni nel mondo del jazz.

Il quartetto aveva avuto oltre un quarto di secolo, dalla pubblicazione di «Mood Swing», uscito su Werner Bros nel 1994, per ponderare questa possibilità e valutare i pro e contro, legati alla crescita e dell’esplorazione delle rispettive tecniche sugli strumenti, all’arte della composizione, anche ai limiti imposti da una dimensione di gruppo inter pares, dove si acquista in collegialità, ma bisogna rinunciare a qualcosa sul piano personale. Per tutta la durata dell’album, infatti, si percepisce un’energia contagiosa che fa comprendere a chiare lettere che nessuno stia cercando di sopraffare l’altro. I quattro amici ritrovati suonano come un tutt’uno, perfino Blade, solitamente più euforico e disinibito, si distingue per un lavoro sul kit percussivo equilibrato e collaborativo. Tra i punti salienti segnaliamo «Silly Little Love Song», un amabile brano poppish i cui scossoni sono frutto esclusivamente dagli assoli, e «Right Back Round Again», entrambi a firma Redman, dove il quartetto beneficia anche della crescita e della versatilità dei singoli, innovando ed attingendo contestualmente alla tradizione jazz, ma anche in tale circostanza è difficile, se non impossibile, dire dove finisca la composizione ed inizi l’improvvisazione. Sebbene Redman abbia contribuito al maggior numero di brani, tre su sette, si percepisce un’evidente equanimità, tanto da far credere che ogni composizione sia stata scritta, o insieme agli altri o avendo in mente come gli altri l’avrebbero suonata. Ad esempio, l’arrangiamento circolare «Moe Honk», a firma Brad Mehldau, diventa non solo un veicolo per un vertiginoso assolo di pianoforte, ma anche una vetrina ideale per il dinamico virtuosismo tenorile di Redman, il quale si esprime in maniera concentrica, roteando intorno alla sezione ritmica. «Moe Honk», uno dei climax dell’album, è basato indubbiamente un lavoro di squadra. Sgusciando e saltellando con destrezza durante il tema e gli accordi, Mehldau diventa un superbo suggeritore per di Redman, ma a tutti viene offerta l’opportunità di allungarsi, mentre si possono percepire sottili influenze di Monk e Brubeck, reminiscenze eurodotte e persino atmosfere stride. L’opener, «Undertow», è un tema rilassato, ma leggermente increspato dall’agilità intervallare e dai cambi di passo. «Right Back Round Again» si caratterizza come un pezzo groovy dall’inclinazione R&B, la cui melodia rotonda e priva di asperità si conficca immediatamente nelle meningi del fruitore. «Floppy Diss» di McBride è un Eldorado post-bop che trova un compromesso vincente tra vibrazioni antiche e moderne, mentre Redman imbraccia il soprano e con una progressione netta imbecca le preziose circonvoluzioni di Mehldau, latore di una signorile dichiarazione ritmico-armonica. Uscita dal cilindro magico del batterista Brian Blade, «Your Part To Play» suggella l’album in una dimensione quasi meditativa, permettendo a ciascun sodale di permearne la struttura e di sviluppare in profondità l’intensità verticale del tema alla propria maniera, senza intaccare minimamente l’unità e la tensione di superficie o gli assunti basilari del componimento. Un lento soave ed un habitat confortevole, la cui energia proviene dall’interno, tanto che l’autore si abbandona ad un lavoro sui piatti e sul rullante, frutto di una sensibilità distintiva che tocca l’apice dell’intensità. La sessione ha prodotto un totale di sette brani inediti: tre sono stati scritti da Redman, due da Mehldau ed una creazione a testa per McBride e Blade. In sintesi, non è stato difficile ristabilire la stessa mistica ed il medesimo magnetismo di quando questo quartetto acefalo fece la sua prima apparizione discografica nel ’94 per volere di Joshua Redman. L’album esiste anche in vinile di eccellente qualità sonoro. A conti fatti, «RoundAgain» non è stato solo un disco jazz, ma un evento per il mondo del jazz.

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