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// di Gianluca Giorgi //

Joe McPhee, Nation time (1971 ristampa w/insert 2019)
Originariamente pubblicato nel 1971 dalla CJR negli USA, il primo album di Joe McPhee, precedente alla collaborazione con Harold E. Smith e Mike Kull ”Trinity” (1972). Registrato dal vivo nel dicembre del 1970 da Joe McPhee (sax tenore, tromba), Mike Kull (pianoforte, piano elettrico), Tyrone Crabb (contrabbasso, basso elettrico, tromba), Bruce Thompson (percussioni) ed Ernest Bostic (percussioni), ”Nation time” offre tre lunghissimi brani nei quali il quintetto elabora un originale jazz d’avanguardia, miscelando il jazz coltraniano con il funk ed il blues, il risultato è una musica che, mantenendo un fortissimo groove funk (mai però ripetitivo), si apre ad esplorazioni e ad improvvisazioni. Era il dicembre 1970 quando McPhee, ispirato dalla poesia di Amiri Baraka It’s Nation Time, ha riunito un gruppo di musicisti per eseguire i concerti del fine settimana per gli studenti del Vassar College che sarebbero poi diventati questo “Nation Time”. Per l’occasione sono state schierate due band, una di impronta più funky con chitarra e organo, l’altra costituita da una formazione jazz più standard, con due batteristi e il brillante Mike Kull al pianoforte. Il gruppo mantiene un’attitudine collettiva, a tratti quasi tribale e passa dall’intreccio fra jazz melodico e blues di ”Nation Time”, al trascinante jazz funk di ”Shakey Jake”, per arrivare ai toni più sfuggenti e rarefatti di ”Scorpio’s Dance”. Originario di Miami, Joe McPhee è emerso negli anni ’60 e ’70 come un jazzista capace di esprimere una musica fortemente emotiva ed al tempo stesso originale e sperimentale, dimostrando una capacità unica di integrare suoni non convenzionali e tecniche estese con puro melodicismo. Fu cofondatore alla fine degli anni ’60 della label CJR, sulla quale uscirono i suoi primi lavori, poi da metà anni ’70 incise per la Hat Hut dello svizzero Werner X. Uehlinger, suo grande estimatore. Sempre aperto a nuove influenze e possibilità, negli anni McPhee ha arricchito la sua concezione musicale con ispirazioni che vanno dalla compositrice Pauline Oliveiros allo scrittore e medico Edward De Bono ed è ancora creativamente attivo. Bella ristampa, l’originale molto raro e costoso, con copertina in cartoncino pesante, pressoché identica alla rara prima tiratura e corredata di esclusivo inserto con foto e note, suono ottimo.

Soren Skov Orbit, Adrift (2024)
L’album di debutto dei Soren Skov Orbit, “Adrift”, è un disco molto interessante di difficile classificazione pur rimanendo nell’ambito del nuovo jazz (nu-jazz). Il sassofonista tenore e soprano Søren Skov (Debre Damo Dining Orchestra) e il tastierista Peder Vind hanno co-fondato il quintetto “trippy” Søren Skov Orbit nel 2016 con l’intento di esplorare nuove “idee di jazz”, come dice lo stesso sassofonista. Per raggiungere questo obbiettivo si sono dotati di una sezione ritmica che unisce improvvisazione contemporanea e psichedelia; il bassista Casper Nyvang Rask, il batterista Rune Lohse e il percussionista Ayi Solomon della leggendaria band di origini ghanesi degli anni ’80/highlife Classique Vibes, il gruppo riesce così a creare un jazz moderno di ispirazione africana all’interno di un contesto “nebbioso”. Skov è un sassofonista con una robusta fraseologia ed espressività che si rifà ai grandi del passato: Albert Ayler, Archie Shepp, J.R. Monterose, l’olandese Hans Dulfer, come ai multi-reedisti John Gilmore, Yusef Lateef e Bilal Abdurahman, non disdegnando richiami a sassofonisti più recenti, Nat Birchall, Nubya Garcia, Shabaka Hutchings. La registrazione è stata effettuata dal vivo, allo stesso tempo e nella stessa stanza, in modo da poter cogliere le dinamiche e l’autenticità della musica suonata, il tutto rimanda ad alcune sessioni Ethio-jazz e del Mystic Revelations of Rastafari, nonché alla magia creata in studio di Alton Abraham con il Sun Ra Arkestra, grazie alla presenza in tutto il disco di una sana dose di riverbero. Nel disco, inoltre, si può sentire l’influenza di Fela-Kuti senza essere, comunque, impregnato di afro-beat, grazie all’ottimo lavoro di Solomon e Lohse, Ayi conoscitore dei tanti tamburi regionali nonché super reattivo, che insieme a Rune crea una grande energia, con delle dinamiche incredibili, backbeat, loop funky. Bel disco da approfondire.

Christer Bothen/Bolon Bata, Trancedance (40th anniversary edition) (1984 ristampa 2024)
La prima ristampa in vinile, grazie alla Black Truffle Records di Oren Ambarchi, di questo disco di selvaggia Afro-fusion dello svedese Christer Bothén, figura importante nel jazz svedese e nella musica improvvisata degli anni ’70, spesso impegnato al clarinetto basso e al sax tenore. Nei primi anni ‘70 in Mali, Bothen studiò doso n’koni (la grande “arpa del cacciatore” a sei corde del Wasulu), per poi passare, più tardi nel decennio a Marakesh, al guinbri (il liuto a tre corde del Gnawa/Gnauoua). In quegli anni Christer Bothén si è esibito anche con Don Cherry durante il suo periodo nella Organic Music Society, insegnandogli anche a suonare il doso n’koni. Alla fine degli anni ’70 e negli anni ’80 ha lavorato con le figure più importanti della scena fusion e jazz-rock-world svedese, unendosi agli Archimedes Badkar per il loro “Tre”, influenzato dall’Africa e partecipando alla leggendaria Bitter Funeral Beer Band di Bengt Berger. Trancedance del 1984, primo album a suo nome e composto interamente da sue composizioni tranne il tradizionale (Mimouna), vede la partecipazione per una sessione di molti dei musicisti che hanno suonato nel disco ECM della Bitter Funeral Beer Band (tra cui Berger alla batteria, Anita Livstrand alla voce e alle percussioni e Tord Bengssson al pianoforte, violino e alla chitarra). Un’altra sessione registrata con il suo gruppo di sette elementi Bolon Bata, si può ascoltare sulle seconde tracce di ogni lato del disco. Un album diviso tra esuberanza vibrante e introspezione ipnotica (la “danza” e la “trance” del titolo) con un tocco di freddo romanticismo nordico. Un must per i fan della scena svedese e di gruppi come Arbete och Fritid e Archimedes Badkar, così come per qualsiasi ascoltatore che sia stato sedotto da Spirits Rejoice!, The Brotherhood of Breath di Louis Moholo o, più recentemente, i groove guinbri dei Natural Information Society di Joshua Abrams, Trancedance è pezzo importante della poliedrica scena jazz svedese che andava riscoperto.

Immanuel Wilkins, Blues Blood (2lp 2024)
Immanuel Wilkins continua a stupire, nel suo nuovo album aggiunge cantanti al suo rodato quartetto. Il sassofonista e compositore Immanuel Wilkins, vincitore del German Jazz Prize 2024 nella categoria “Live Act of the Year International”, torna con questo terzo album per Blue Note Records, dopo che il suo debutto per l’etichetta, “Omega”, nominato album jazz numero 1 del 2020 dal New York Times, gli ha portato attenzione e riconoscimento in tutto il mondo. “Blues Blood” segna un cambiamento significativo nella sua direzione artistica, rivelando nuove dimensioni nelle sue capacità compositive già insolitamente complesse, attraverso una performance multimediale prevalentemente vocalizzata. L’album, commissionato dalla Roulette e prodotto da Meshell Ndegeocello, la cui influenza è evidente in diverse tracce, è ispirato in parte all’infanzia di Wilkins e ha come soggetto eredità e linee di sangue che collegano le generazioni. L’album è composto da nove originali in cui si possono trovare una ricca miscela di stili musicali e quattro cantanti. La più nota è Cecile McLorin Salvant che ha già una ottima carriera da solista, Ganavya, June McDoom e Yaw Agaymen che non sono così famose, ma esibiscono una performance di ottimo livello, fondendosi perfettamente con la band di Wilkins e con gli altri ospiti, il chitarrista Martin Sewell e il batterista Chris Dave. Nel disco Wilkins mette in evidenza il canto, attraverso le musiche globali, tra cui Ganavya dell’India meridionale/tamil e la star jazz/folk/classica Cécile McLorin Salvant, i cori vocali sognanti o i canti di bambini. “Blues Blood” è l’album più ambizioso di Wilkins fino ad oggi, è un disco arioso e celeste, un “balsamo” rilassante per tutti coloro che cercano la pace. Di solito non amo molto il jazz vocale attuale perché troppo ancorato alla tradizione della canzone standard, ma questo disco va oltre, è audace, anche se meno esplicitamente jazz, esplora, è innovativo ed è un gran bel sentire.

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