Intervista a Gennaro Fucile, lo sguardo di Giano tra passato e futuro sul jazz, la musica e le arti

Gennaro Fucile
// di Valentina Voto //
Gennaro Fucile è un giornalista e un critico, non solo di ambito musicale. Scrive da anni per Musica Jazz (sua la rubrica “Li salvi chi può”, dedicata ai dischi fuori catalogo) e vanta collaborazioni in passato anche con altre testate, quali Alias/Il Manifesto, Esquire, Il Tascabile, InSound, Linus, Snoopy, Cineforum, Alphaville, Linea d’ombra e Alfabeta. È autore con Claudio Bonomi del libro con cd allegato “Elastic Jazz” e da quasi vent’anni dirige la rivista online di dotta divulgazione Quaderni d’Altri Tempi.
D In tre parole chi è Gennaro Fucile?
R Un uomo del Novecento, melanconico, napoletano.
D Quali sono i tuoi primi ricordi della musica da bambino?
R La prima canzone di cui ho memoria è You Are My Destiny di Paul Anka. Non mi viene in mente quando la ascoltai la prima volta, era uscita da qualche anno, due o tre mi pare, quando mi capitò di sentirla. Mi ostinavo nel tentare di ripetere quel melodrammatico attacco, senza andare oltre perché il testo mi era ignoto. In casa c’erano anche dei 78 giri di Renato Carosone ma non ricordo altro, né se allora li ascoltassi né tantomeno le circostanze di quegli eventuali ascolti. Invece You Are My Destiny, di cui possedevo il 45 giri, la propinavo a tutto il parentado nella mia versione, altrettanto a squarciagola ma stonando a più non posso. Seguivo anche lo Zecchino d’oro, ma a parte Quarantaquattro gatti ho dimenticato tutte quelle canzoncine.
D Come sei arrivato al jazz? Come nasce il tuo amore per il jazz?
R Il mio primo appuntamento, dal momento che parliamo d’amore, fu con The Cat di Jimmy Smith, in onda nella prima edizione di Per voi giovani condotta da Renzo Arbore. Il brano mi catturò ma non al punto di far scoccare una scintilla. Ai tempi la trasmissione la seguivo per ascoltare nuove musiche, il beat e il pop angloamericano, al massimo un pizzico di soul e rhythm and blues, Aretha Franklin e Otis Redding, non certo Coltrane o Monk, quindi gli Small Faces e gli Who, ma niente Rollins o Duke Ellington. La svolta, l’interesse per il jazz nacque come effetto collaterale della nuova passione sopraggiunta qualche anno dopo, quella per il progressive rock. Per riassumere: senza King Crimson e Van der Graaf Generator al jazz non ci sarei arrivato, almeno non allora.
D Come definiresti la tua attività? Critico, giornalista, studioso, tutto questo insieme o altro ancora?
R Io sono un appassionato di musica (e non esclusivamente di jazz), mi è sempre piaciuto condividere i miei ascolti e recepire le dritte degli appassionati come me. Scrivere di musica è una continuazione di quello scambio con altri mezzi, dalla comunicazione orale a quella scritta. Questo se ci riferiamo alla musica e più in generale all’arte. Certo, scrivendo oggi regolarmente per Musica Jazz e prima ancora per Ultrasuoni su Alias/il Manifesto sono di fatto un critico musicale, ma il mio approccio è rimasto quello a cui accennavo poc’anzi. Altro invece sono le mie riflessioni circa l’impatto delle tecnologie sulla vita quotidiana, le modificazioni dell’immaginario collettivo, il peso della cultura dei consumi, la comunicazione, che provengono dalla mia formazione sociologica. Di questo mi sono occupato soprattutto qualche anno fa sulla rivista culturale online che dirigo, Quaderni d’Altri Tempi.
D Quali sono i motivi che ti hanno spinto a occuparti di critica, non solo in ambito musicale?
R Studiavo sociologia in quelli che poi sarebbero divenuti gli anni di piombo e venivo da una delle formazioni esistenti allora della sinistra extra parlamentare, dunque mi era impossibile non avere un atteggiamento critico nei confronti dell’esistente tout court. I miei primi articoli, che uscirono sulla storica rivista Alfabeta, si occupavano però di letteratura di genere e di massa, nello specifico la fantascienza, e di videoarte. Quello che mi interessava, siamo a cavallo tra il finire dei Settanta e la prima metà degli anni Ottanta, era riflettere sulle mutazioni in corso dell’immaginario tecnologico, assumendo queste forme d’arte come punto d’osservazione. Allora la musica continuavo semplicemente ad ascoltarla come facevo dal tempo di Paul Anka, sembrava il mio destino, appunto.
D Per te ha ancora un senso oggi la parola ‘jazz’?
R La fantascienza può aiutarci a capire come stanno le cose, perché è un genere che storicamente, per modalità di produzione e di fruizione, è genuinamente made in USA così come il jazz. Ha ancora senso parlare di fantascienza oggi, quando nel nostro quotidiano siamo immersi in un ambiente tecnologico che pochi decenni orsono avremmo chiamato proprio fantascientifico? Oggi la fantascienza è tendenzialmente dappertutto tranne che nella fantascienza, eppure di storie sci-fi ne nascono ogni giorno – e non parlo solo di letteratura – e poiché il genere non ha solo il vizio di avverarsi, come diceva William Burroughs, ma anche la predisposizione a mutare di continuo e a invadere tutti gli ambiti possibili, riesce a essere ancora vivo, anche se non è più certo quello di una volta. Ecco, al jazz accade di seguire la medesima traiettoria, perché ha la capacità che non possiede nessun’altra musica di contaminare e di contaminarsi, cosicché oggi accoglie, sempre tendenzialmente, ogni genere e forma musicale esistente, le musiche tradizionali di ogni continente, le lezioni della grande tradizione accademica occidentale, le nuove musiche pop, e al tempo stesso ciascuna di queste si è arricchita, rivitalizzata, assumendo un bel po’ di vitamine jazz. Per alcuni questo è un declino. Tra i miei coetanei in particolare è forte la tentazione di bocciare l’oggi e guardare nostalgicamente il passato; a volte cado anch’io in tentazione (è inevitabile vista la mia origine novecentesca) e in effetti non tutta la musica odierna mi piace. Però la mia melanconia è più che sufficiente, cosicché in quei frangenti ripasso alcune righe scritte da Walter Benjamin che negli anni per me sono diventate una massima di vita: si riferiscono allo straordinario coraggio di chi “si pronuncia senza riserve a favore dello stato di cose presente, ma non nutre alcuna illusione su di esso”. Poi, certo, c’è il mainstream eseguito con grande professionalità, la ripresa del grande repertorio storico e la scrittura di nuova musica nel solco della tradizione, che sia hard bop o cool jazz poco importa: ci si attiene a un canone, ma io trovo quest’aspetto di una noia mortale, tranne rare, pregevoli eccezioni.
D Si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste per te qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’ o ‘jazz europeo’?
R In misura diversa un jazz “territoriale” esiste, vale sia per l’Italia sia per il resto d’Europa. In questo però il jazz non è diverso da altre musiche sia contemporanee che del passato. Prendiamo il tardo romanticismo: quello boemo di Smetana presenta differenze con quello nordico (pensiamo a Grieg per esempio) o con la “versione” spagnola dei vari Albéniz e Granados. Eppure sono tutti romantici. Vale anche per il rock, perché è indubbio che i Doors e gli inglesi coevi, per esempio i Pink Floyd ai tempi di Syd Barrett, presentino differenze tangibili.
D Cosa distingue l’approccio al jazz di americani e afroamericani da quello di noi europei?
R Il blues e tutta la sua progenie che non appartiene agli europei, e questo fa sì che il senso del ritmo sia manifestamente differente. Non a caso, le forme genuine di jazz europeo maturate a partire dalla fine degli anni Sessanta si sono evolute nutrendosi di materiali della tradizione musicale locale, danze paesane, tanghi, musica da balera, cabaret, ballate. In Italia, per esempio, si è andati sul cavallo di battaglia della nostra musica, la melodia, riprendendo tanto brani d’opera quanto musica leggera.
D Molti ormai gridano alla morte della musica impegnata e/o sperimentale… ma esiste ancora la politica e/o l’avanguardia, nel jazz statunitense e in quello europeo?
R Anche questo aspetto riguarda il jazz come tutta l’arte al giorno d’oggi. Ci sono ancora confini da oltrepassare, regole da infrangere, forme da rivoluzionare? Un pubblico da provocare, lo storico épater le bourgeois? Forse la questione è mal posta. L’invenzione è ancora all’ordine del giorno, ma si dispone su un piano differente, direi più orizzontale che verticale. Dapprima si tendeva a rompere gli schemi per favorire l’incontro, la commistione, il meticciato; tutto questo avviene tuttora, ma direi che è più il frutto di una logica combinatoria tra le voci della grande enciclopedia della musica creata in secoli e secoli di storia. In questo la massima espressione – non l’apice musicale ma la figura emblematica – è quella del dj e con lui la sua arte, il turntablism. Puoi entrare e uscire da ogni angolo della musica qualsiasi essa sia e in qualsiasi tempo sia stata concepita. In fondo tutta la musica del XXI secolo mi sembra privilegiare la memoria e scandagliarla. È quello che accade parimenti nei modi di fruire la musica, dallo streaming alle playlist, che sono radicalmente mutati nel corso di questo primo quarto di XXI secolo. Sul fronte più squisitamente politico, l’incrociarsi del free jazz con la radicalizzazione della lotta del Black People costituisce un unicum, come talvolta accade nella storia (lo stesso dicasi per il rock fino a metà anni Settanta), ma per il resto il jazz ha camminato per la sua strada. Ci sarebbe da dire del rap e delle sue ramificazioni, di Black Lives Matter, ma sul piano squisitamente musicale rinuncio al giudizio: è musica che non mi piace, forse non la capisco, di sicuro quando la componente extra musicale prevale, avverto un senso di fastidio. Anche il jazz poetry non lo annovero tra i miei ascolti preferiti.
D Come è essere un critico oggi? Perché oggi la critica non è più quella militante o combattiva di una volta? E perché non esistono più le ‘solenni stroncature’?
R Questo discende dal crollo dei muri e delle ideologie, dalla frantumazione degli schieramenti contrapposti. È vero, prima “ci si schierava”, il verbo è quello più adeguato per descrivere gli atteggiamenti di un tempo, e c’è anche un rovescio della medaglia. Il jazz ha vissuto diverse rivoluzioni, sempre accompagnate da canti controrivoluzionari. Il bop vantava feroci oppositori, il free manco a dirlo, il jazz rock non ne parliamo e altrettanto dicasi della musica improvvisata. Da questa angolatura non è un male essersene liberati, anche se il jazz, come la fantascienza (rieccola), è infestata dal fandom, da piccole fazioni votate alla difesa di un purismo del jazz, o di un genere in particolare, una corrente, perfino di un singolo autore e finanche di una stagione dentro la carriera di un musicista, un purismo che definire senza senso è già un complimento, dal momento che si propugna una sorte di difesa della razza, quella del jazz, che proprio di razzismo ha sofferto e tuttora si porta dietro le cicatrici. C’è però da dire che una certa leggerezza e levigatezza nei giudizi attualmente è effettivamente imperante, e questo anche e forse soprattutto grazie alla Rete, che oltre ad aver dato voce a tutti, incompetenti compresi, oltre ad aver moltiplicato all’infinito le possibilità di recensione – cosicché anche una stroncatura si stempera nell’oceano delle chiacchiere virtuali – ha anche creato una sorta di complicità tra musicisti, uffici stampa, recensori, riviste, perché il sistema non reggerebbe senza una buona parola per chiunque, si incepperebbe e allora meglio chiudere un occhio, stendere una recensione positiva e riattivare il circolo. Io ho preso un’altra strada, però, perché alla fin fine, proprio grazie alla Rete, anche una stroncatura è un’evidenziazione. L’importante oggi è parlarne e allora ho deciso da anni che se davvero voglio bocciare del tutto qualcosa ho solo un’arma: il silenzio. Scrivo delle mie favourite things, e di quello che non mi piace non parlo.
D Il jazz deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?
R Questa è una questione storica che concerne le arti in generale. È tuttora irrisolta e probabilmente è destinata a rimanere tale. La musica tutta, e non soltanto il jazz, può essere utile per comprendere le componenti in gioco che nel loro insieme rendono quasi irrisolvibile il rebus. Mi spiego. Intanto la musica è arte connotativa per eccellenza. Associamo a un timbro, a una pausa, a una nota reiterata e via dicendo, un significato del tutto arbitrario in quanto nostro, che nasce dalle nostre convinzioni e conoscenze, dai nostri desideri e dai nostri sogni. Vale per tutte le arti: non leggiamo un libro letteralmente, lo interpretiamo. Nel caso della musica tutto ciò è elevato a potenza. Quando parliamo di un brano musicale, in che misura teniamo conto dell’opinione del suo autore? Se questi dichiara di essere ecologista, pacifista, o qualsivoglia -ismo, vi leggiamo quel messaggio nelle sue note? Siamo sicuri che davvero siano note green o contro la guerra? E ci cambia qualcosa in caso contrario, ovvero se ascoltiamo un brano meraviglioso che è opera di un musicista reazionario? Io non ho mai dato peso alla quota di impegno/politicizzazione/critica in un brano, perché la musica deve toccare altre corde: la dimensione lirica, il senso dell’infinito e dell’ignoto, il mistero, il simbolico, l’eccitazione dei sensi. È questo a valere nella musica e in qualche modo vale per tutti le arti. Quando si ascoltava la Brotherhood of Breath – quel meraviglioso ensemble composto dai musicisti sudafricani esuli a Londra coadiuvati dai loro partner inglesi – si partecipava, si solidarizzava con la loro causa, si manifestava contro l’apartheid, si invocava libertà per Nelson Mandela, di fatto si ascoltava della musica bellissima che è tale tutt’oggi che il regime razzista è stato cancellato, ma allora non si spostava di una virgola quell’indecenza, che soltanto lotte dure, carcere, morti hanno permesso di spazzare via. La musica aiuta anche le lotte politiche, ma non è lotta politica, a volte dei brani si trasformano in inni fungendo da aggregatori, ma non tutta la musica lo è o quantomeno non tutta assume questa funzione.
D Puoi dirci altro?
R Ribaltiamo la questione: che cosa sono le arti di regime se non arti impegnate? Impegnate a dare, a diffondere messaggi leggibili di un pensiero, di una visione del mondo, quella del regime di turno. Ricordiamoci che il frutto marcio del loro impegno è in parallelo la censura di tutto quanto non rientra in quel canone, l’opera dissidente ma anche quella disimpegnata, come ci racconta ancora oggi l’esperienza del realismo socialista sovietico. Io credo che ancora una volta si debba distinguere tra la coscienza individuale dell’artista e la sua opera alla quale siamo noi ad attribuire senso. È il distinguo che per esempio mi consente di leggere pagine di letteratura straordinarie, quelle di Céline, da porre tra i vertici del Novecento, senza identificarmi con il suo autore, oppure di immergermi nella Commedia, pur non condividendo la visione del mondo che aveva Dante. I motivi per leggerli sono altri, per esempio l’orrore o la pietà che mi trasmettono le loro creature, la forma inarrivabile del loro narrare. Se l’artista, assecondando la sua partecipazione civile e le sue convinzioni politiche, si impegna in difesa o in tutela di questo o quest’altro, oppure in opposizione a qualcosa, ben venga, ma non è un compito dell’opera d’arte bensì di una coscienza individuale, punto. Posso trovare affinità in un musicista e nel senso che attribuisce alla sua musica, auspicare che quei messaggi siano condivisibili sempre di più, oltre a identificarmi in essi, ma quando ascolto la sua musica, tutto questo per me passa in secondo piano. Anche perché altrimenti dovrei utilizzare questo parametro per la musica del mio tempo, e un altro per la musica del passato. Inoltre, c’è il problema della lingua. Passi l’inglese, ma come la mettiamo con un testo in arabo? Dobbiamo essere super poliglotti per godere di tutte le musiche del mondo? Certo, se la musica non è soltanto strumentale l’intrico è maggiore, ma la questione non cambia. Come dovrei regolarmi per esempio con una cantata di Bach dal momento per giunta che non sono né cattolico né tantomeno protestante?
D Come vivi tu il jazz in Italia, anche in rapporto alle tue esperienze sul territorio?
R Mi vengono in mente soltanto due cose a proposito. La prima è che sono spariti i negozi di dischi e con loro tutto quel mondo di complicità, di scoperta, di relazioni che questi ospitavano. Anche qui, però, non lo intendo come un vissuto esclusivamente circoscritto al jazz. La seconda, e qui mi riferisco a Milano dove vivo, trovo che sia a dir poco imbarazzante che una città di queste dimensioni – con una storia culturale non indifferente alle spalle, anche e soprattutto riguardo alla musica – indipendentemente dal colore delle giunte che l’amministrano, sbandieri un presunto respiro europeo proponendo un’offerta musicale di una modestia imbarazzante, in particolare riguardo alle musiche altre, dal jazz di nuova generazione a quelle commistioni di cui accennavo sopra. Non dico che si debba escludere il mainstream, ma qui è presente in maniera soverchiante.
D Cosa pensi dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui il jazz ovviamente fa parte da anni? E come si muove la rivista da te diretta, Quaderni d’Altri Tempi, all’interno di tale panorama, spesso scoraggiante?
R In Italia c’è parecchio talento e idee in abbondanza, la creatività non manca e sono assai vive le passioni che alimentano tutto ciò. Questo vale sicuramente per la musica, meno in altri ambiti, per esempio in letteratura, dove i danni procurati dalle scuole di scrittura è sicuramente maggiore di quello creato dalle scuole di jazz per esempio. Fabbriche di compitini edulcorati, tutti meritevoli della sufficienza, tutti inutili. Peccato che questo patrimonio venga dissipato a causa di scarsissimo sostegno istituzionale, soverchiato dall’immarcescibile cattivo gusto che premia ruffianerie e grossolanità, e anche frenato da una minore propensione al rischio che caratterizza da decenni tutta la cultura italiana, che preferisce accomodarsi in situazioni fin troppo comode. Riguardo Quaderni d’Altri Tempi, si tratta di una rivista online da vent’anni, tanti saranno nell’estate 2025, che ha sempre agito in totale autonomia, puntando unicamente a produrre testi di qualità, riflessioni sulle merci culturali, sull’immaginario di cui queste sono portavoce e del quale sono emanazioni. Ci siamo sempre posti l’obiettivo di porci a metà strada tra divulgazione e approfondimento. Sembra poco, ma non è affatto semplice da fare in un contesto generale che vede prevalere da un lato pressappochismo e piaggeria e dall’altro congreghe accademiche. Soprattutto non è affatto facile senza avere le spalle coperte da strutture e risorse economiche.
D Quale deve essere per te il ruolo dell’arte – nelle sue diverse declinazioni espressive – specialmente nella società odierna?
R L’opera d’arte è sempre intrattenimento in molteplici modalità e su differenti livelli. Intrattiene con noi una relazione intima. Non è un’affermazione iperbolica: l’intrattenimento non coincide con il disimpegno, il ruolo delle varie forme d’espressione artistica è stato sempre quello di farci divertire, di commuoverci, di farci ballare, sognare, pregare meglio, combattere meglio, di farci riflettere oppure di farci lasciare fuori dalla porta tutto quanto ci angustia in quel momento, e di evolversi per quanto concerne le sue forme. Molteplici compiti e una sola missione: intrattenerci, farci deviare dagli affanni quotidiani che restringono il nostro campo d’osservazione sul mondo e sulla vita. In questo senso ci intrattiene, si impegna a intrattenerci, dandoci una mano a scrollarci di dosso il consueto, l’ordinario, ciò che diamo per acquisito, i nostri punti cardinali. L’arte è sempre impegnata, deve essere impegnata, ma in questo senso. Alla fin fine deve smarrirci, che forse è l’unica via per intuire, solo intuire perché di più non è possibile, il mistero dei misteri che è la morte, rispetto al quale ci teniamo a distanza variabile: certe volte ci teniamo alla massima distanza possibile e ci tuffiamo nell’evasione più totale, altre volte ci avviciniamo il più possibile interrogandoci a fondo. L’arte ci coadiuva in entrambi in casi e nelle tante vie di mezzo tra questi due poli. In un bellissimo romanzo di Alejo Carpentier, I passi perduti, partecipando a una spedizione in Amazzonia, il protagonista assiste allo svolgimento di un funerale nella foresta e ha come un’epifania: si convince che la musica sia nata come canto funebre. Aggiungo che se non è proprio così, quantomeno ha a che fare con l’infinito e l’eternità.
