Donald Byrd con «Free Form», forma e sostanza (Blue Note, 1966)

Shorter ed Hancock tentano, senza premeditazione o calcolo, di rubare la scena a Byrd, ma è del gioco delle parti. Soprattutto Byrd firma l’album e lo marchia a fuoco con il suo brand, affermandone la titolarità e firmando tutte le composizioni eseguite.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Talvolta si ha l’impressione che Donald Byrd sia sottovalutato o più propriamente misconosciuto dalla moltitudine, eppure la sua articolata carriera è segnata da tappe importanti nella storia del jazz moderno, che vanno dall’hard bop al soul-jazz, almeno nella suo componente più avanzata che per comodità di scrittura definiamo bop-post-moderno. sfiorando la fusion ed il free.
«Free Form» pubblicato dalla Blue Note, dopo cinque anni d’incubazione, è senza tema di smentita uno dei punti cardine della sua attività e sicuramente una punta d’eccellenza all’interno della sua lunga discografia. L’album si apre con la superbo «Pentecostal Feelin», una composizione ignota alle masse, ma che possiede tutte le caratteristiche musicali, cromatiche, melodico-armoniche e fisico-somatiche per avere un posto d’onore tra i titoli che hanno tracciato la strada maestra dell’hard bop, come «The Sidewinder» di Lee Morgan, «Moanin» di Bobby Timmons o «Sister Sadie» di Horace Silver, solo per citarne alcuni. Sin dall’abbrivio il brano si dipana un potente e roccioso groove solcato da efficaci riff di sangue blues, un botta e risposta da manuale fra i solisti della prima fila e una successione di brillanti assoli con un Wayne Shorter in grande spolvero, mentre Herbie Hancock dispensa a volontà barrette di cioccolato nero fondente funky 100% e di prima scelta.
A seguire una bella cavalcata a cielo aperto, «Night Flower», un ballata lenta e spaziata, di tipo itinerante, che risucchia il fruitore in un vortice di emozioni. «Nai Nai» è una danza dall’incedere flessuoso che ricorda un specie di habanera, ma i contrafforti sono saldati da un spirito efficacemente soulful. «French Spice» è un modulo cangiante, che parla con lingua biforcuta, giocato su molte variazioni tematiche che a tratti prendono in prestito il lingua del modale, a volte cavalcano l’onda del classico hard-bop di alta scuola. La title-track «Free Form» come suggerisce il titolo, insomma nomen omen, si dimena su un territorio di conquista più libero, offrendo a tutti i sodali la possibilità di esprimersi attraverso una spontaneità palpabile, ma, al contempo, con estrema e sinergica coesione, soprattutto grazie alla regolarità di Billy Higgins che punteggia il perimetro del territorio sonoro con i suo tamburi di guerra ed un metronomico Butch Warren al basso che ne traccia le linee e garantisce un perfetto drive.
Un minimo di competizione si avverte sull’affollata prima linea: Shorter ed Hancock tentano, senza premeditazione o calcolo, di rubare la scena a Byrd, ma è del gioco delle parti. Soprattutto Byrd firma l’album e lo marchia a fuoco con il suo brand, affermandone la titolarità e firmando tutte le composizioni eseguite. Uscito nell’autunno del 1966, ma registrato l’11 dicembre del 1961, «Free Form» è uno dei degli ultimi dischi di un certo livello prodotti da Albert Lion, un album essenziale in ogni collezione di dischi jazz che si rispetti.
