MarionBrown

La narrazione su ambo i lati del disco sembra ritornare più volte su se stessa come un nastro che sia riavvolge per poi srotolarsi, sostenuto da una ridda di percussioni e lamenti femminei, a cui, sulla seconda facciata, si aggiunge qualche parola simile alla lingua incomprensibile di spiriti predicanti venuti a cercare vendetta.

// di Francesco Cataldo Verrina //

«Afternoon Of A Georgia Faun», un progetto dal sassofonista Marion Brown insieme ad Anthony Braxton, Chick Corea, Andrew Cyrille, Jeanne Lee e Bennie Maupin. Brown, originario di Atlanta, era generalmente considerato come uno dei jazzisti meno circoscrivibile della New Thing anni Sessanta. Sebbene avesse suonato in alcune febbrili e ribollenti sessioni dell’epoca, tra cui la trascendentale «Ascension» di Coltrane e l’apocalittica «Fire Music» di Shepp, i suoi album rivelavano, in massima parte, un musicista più algido e ponderatamente esplorativo, il quale veniva descritto dalla critica come «l’antitesi di Albert Ayler». Dal canto suo, egli si considerava un artista non allineato, apolitico e legato alla terra: «Quando suono – diceva – non parlo dell’universo, della religione, dell’amore, dell’odio o dell’anima». Dopo aver contribuito alle ultime sessioni di John Coltrane per la Impulse! Records, nelle quali sostituì Pharoah Sanders, Marion Brown si trasferì in Europa dove lavorò con un cast intercambiabile di europei e americani espatriati, tra cui Barre Phillips, Gunter Hampel, Jeanne Lee, Han Bennink, Maarten Altena, Karl Berger. A Parigi suonò anche con gli emissari della chicagoana Association for the Advancement of Creative Musicians, giunti nel Vecchio Continente per far conoscere la «Grande Musica Nera», tra i tanti c’erano anche Leo Smith, Leroy Jenkins e Anthony Braxton. Le nuove idee veicolate dell’AACM sottolineavano il concetto di ridistribuzione del ruolo della sezione ritmica nel jazz d’avanguardia, nonché l’utilizzo di «piccoli strumenti» usati per imitare la natura o per parafrasare taluni metodologie africane di fare musica collettiva, riconoscendo le idee di Cage sull’uso delle percussioni, ma soprattutto si prefiggeva di aggiungere una patina di imprevedibile aleatorietà all’improvvisazione controllata. Marion Brown sosteneva che la sua musica non avesse un «significato» al di fuori di se stessa: «Si può prendere da essa solo ciò che si porta ad essa. Non gioco con le parole».

Le istanze accolte da Marion costituirono lo scheletro sonoro di «Afternoon Of A Georgia Faun», registrato nell’estate del 1970 dopo il rientro in USA. In particolare, la passione per i «piccoli strumenti» avrà un ruolo centrale nella sua discografia fino a «Geechee Reflections» del 1973: da lì a poco, Brown sarebbe tornato ad usare, quasi esclusivamente, il contralto. Nel libro «Marion Brown: Recollections» del 1984, il sassofonista dichiarò: «Ho subito l’influenza di Leo Smith che mi ha fatto conoscere molte cose: quanta musica c’è nell’ambiente, la costruzione di strumenti insoliti e cose del genere. Ho cercato di suonare più strumenti possibili perché era quello che faceva lui e volevo essere alla sua altezza». In «Afternoon Of A Georgia Faun» si percepisce nitidamente l’influenza di Smith, tanto che Brown volle che tutti i musicisti suonassero anche le percussioni. La batteria di Andrew Cyrille fu il cuore pulsante dell’album, sebbene il «tempo» regolare e prestabilito risulta pressoché inesistente. Quale ulteriore elemento di rottura Marion aggiunse i contributi intuitivi e quasi casuali di alcuni non-musicisti: Green, Malone e Curtis, provocatoriamente inclusi nella sessione insieme ad un cast «all-star» costituto da Braxton, Corea, Lee, Maupin. Tra i contrassegni salienti dell’album va evidenziato il sax contralto di Braxton che s’intreccia perfettamente con quello di Marion, il quale si misura anche sullo zomari, uno strumento a doppia ancia originario della Tanzania. Particolarmente interessante risultò l’intesa tra Corea e Braxton, al punto che si possono percepire, a livello embrionale, i prodromi dei futuri Circle. Il contributo di Corea fu riassunto da Brown come «una poesia orientale, precisa, semplice, ma profonda».

Il 10 agosto, un nutrito ensamble di musicisti si raccolse presso il Sound Ideas Studio di New York, alternandosi a rotazione sulle due lunghe tracce dell’album: Marion Brown sax alto, zomari e percussioni; Anthony Braxton sax alto, sax soprano, clarinetto, clarinetto basso, musette (cornamusa francese), flauto e percussioni; Bennie Maupin sax tenore, flauto contralto, clarinetto basso, ghironda, campane, flauto di legno e percussioni; Chick Corea pianoforte, campane, gong, percussioni; Jack Gregg basso e percussioni; Andrew Cyrille percussioni; Larry Curtis percussioni (2); William Green percussioni (2); Billy Malone tamburi africani (2); Jeanne Lee voce, percussioni; Gayle Palmore voce, piano, percussioni. «Afternoon Of A Georgia Faun», è certamente un album ambizioso, in cui la title-track, che occupa l’intero primo lato, è distintamente ispirata al metodo delle ritmiche sospese praticato dai tanti adepti affiliati, sia pure idealmente, all’AACM, tra i quali spiccava Anthony Braxton, giovane virgulto in procinto di farsi conoscere a livello internazionale con i Circle di Chick Corea. Le percussioni dei «piccoli» strumenti, nel brano di apertura, suonano come animali selvatici, accompagnati da alcune voci spettrali, mentre il panorama sonoro viene squarciato da una splendida melodia distillata dal pianoforte. Corea danza intorno ai tasti, mentre le percussioni si intensificano, fino a divorarne il suono che sembra dissolversi in lontananza. L’intero album è una sequenza sbalorditiva di toni pacati che evolvono progressivamente verso dichiarazioni più decise, attraverso l’utilizzo di strumenti atipici e tribali , in particolare le percussioni, sul modello dell’Art Ensemble of Chicago. Per contro, lo stesso Brown sparge intorno brevi spruzzi di melodia, come un sacerdote farebbe con l’incenso, al fine di rendere il composto sonoro più fruibile.

«Djinji’s Corner», che occupa il secondo lato in tutta la sua estensione, è in netto contrasto con la title-track, sostanziandosi come una selvaggia escursione free form in grado di fa saltare tutti gli schemi armonici ed i nervi di qualche incauto cultore del mainstream. La narrazione su ambo i lati del disco sembra ritornare più volte su se stessa come un nastro che sia riavvolge per poi srotolarsi, sostenuto da una ridda di percussioni e lamenti femminei, a cui, sulla seconda facciata, si aggiunge qualche parola simile alla lingua incomprensibile di spiriti predicanti venuti a cercare vendetta. Lungo tutto il tragitto, perfino i momenti di calma apparente risultano tesi ed inquietanti. Nessuno azzarda assoli nel senso classico del termine, mentre i numerosi strumenti melodici che vanno e vengono, non sembrano essere più importanti delle percussioni, le quali risultano sempre presenti, come se fossero alimentate da una dinamo perpetua. Non sappiamo se le dinamiche più adatte per narrare «Il Pomeriggio di un fauno della Georgia» siano quelle adottate da Brown e soci, di certo ci vuole una buona dose di fantasia e spregiudicatezza per affondare in talune dinamiche. Del resto, è difficile per i poveri di spirito, gli abitudinari ed i cultori della zona comfort avvicinarsi al free jazz o, comunque, ad ogni forma di arte sperimentale o d’avanguardia. In ogni caso, il concept di Marion Brown è un unicum: non esiste nulla che possa somigliare ad «Afternoon Of A Georgia Faun». Il disco necessita di ripetuti ascolti, quindi dopo i primi passaggi, bisogna armarsi di pazienza e concedere agli «imputati» qualche prova d’appello. A questo punto il fauno prenderà il sopravvento sull’anima dell’ascoltatore devoto e paziente penetrandone il subconscio. Niente paura, però, è soltanto un sogno, al massimo un incubo, dipende dall’umore con cui si percepisce certa musica.

Marion Brown
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