Intervista a Luciano Vanni, persona appassionata, generosa e idealista

Luciano Vanni
// A cura di Guido Michelone //
D In tre parole, chi è Luciano Vanni?
R Una persona appassionata, generosa e idealista.
D Molti ti identificano ancora come il ‘Signor JAZZIT’. Ti piace questa connotazione? E perché?
R Penso sia inevitabile. Per venticinque anni, dal 1996 al 2021, la mia vita è corsa parallela alla direzione e alla produzione di JAZZIT. Ho dedicato a questa rivista una parte significativa dei miei pensieri, dei miei sogni, del mio tempo e delle mie migliori energie umane e professionali. È normale, quindi, che l’associazione tra me e JAZZIT sia così radicata. Tuttavia, ci tengo a precisare che JAZZIT è solo una parte del tutto.
D E quale sarebbe l’altra parte?
R Oltre a JAZZIT, ho dato vita ad altre due riviste: Il Turismo Culturale, dedicata al viaggio, e Muz, focalizzata sulla musica rock. Ho anche organizzato festival, come le nove edizioni del Terni in Jazz, e ho avuto l’opportunità di insegnare giornalismo e critica musicale in scuole, accademie e conservatori un po’ in tutta Italia. Insomma, sono stato un editore impuro, nel senso che ho sempre cercato di mettermi alla prova in più attività. Parallelamente, ho avuto anche l’onore di firmare, in qualità di ideatore e autore, due progetti editoriali particolarmente significativi: “L’Italia in Piccolo: viaggio nei comuni più piccoli di ciascuna regione d’Italia”, per conto dell’Istituto della Enciclopedia Treccani e “Jazz 33 Giri: i grandi capolavori in vinile” per la De Agostini, un progetto che ha rilanciato la distribuzione di vinili 180g in edicola, raggiungendo l’incredibile traguardo del centesimo numero, spinto dal successo di pubblico.
D Negli ultimi quindici anni, infatti, hai anche sviluppato un’importante attività che unisce musica, arti, cultura, innovazione sociale e sviluppo territoriale. Ce ne parli?
R Si tratta di una parentesi di vita che mi sta particolarmente nel cuore. Tutto è cominciato nel 2012, l’anno in cui ho saputo che sarei diventato padre. La prospettiva della paternità ha innescato una riflessione profonda sul futuro e sulla necessità di contribuire attivamente a un cambiamento sociale positivo. Mi sono avvicinato così al mondo delle buone pratiche sociali ed economiche. Da questo percorso è nata l’idea di fondare Civitates, un’impresa sociale che fu creata con l’obiettivo di considerare la musica e le arti come leva per l’innovazione sociale e lo sviluppo dei territori. Il desiderio era di dimostrare che le discipline artistiche e creative potessero generare valore sociale, stimolare la partecipazione civica e promuovere un modello di sviluppo locale virtuoso. Da lì nasce l’idea delle residenze artistiche del Jazzit Fest, che per circa dieci anni hanno rappresentato lo strumento di sperimentazione di queste idee.
D Il Jazzit Fest, in questo senso, è stato un progetto pionieristico.
R In effetti, è stata un’esperienza a suo modo rivoluzionaria. Nacque nel 2012, con l’obiettivo di ridefinire l’idea stessa di festival, tanto da essere il primo e unico al mondo a dotarsi di un Bilancio Sociale e di un Codice Etico. Ma soprattutto ha inteso modificare il modello tradizionale di produzione di una manifestazione, spostando l’attenzione dallo spettacolo finanziato dall’amministrazione locale a un processo di creazione condivisa che per statuto rifiutava i contributi pubblici per responsabilizzare artisti, cittadini e territori.
D Come funzionava? Ce ne parli?
R La vera eredità del Jazzit Fest risiede non tanto nella musica, che pure rimane centrale, ma nel metodo. Il cuore del progetto era rappresentato dalle Residenze Artistiche di Comunità: i musicisti non si limitavano a esibirsi, ma vivevano e creavano insieme agli abitanti. I cittadini, infatti, erano formati lungo un anno di attività per aprire le loro case agli artisti e ospitarli, ispirarli, così da partecipare attivamente alla co-creazione del festival e al loro co-finanziamento. In questo modo, la comunità diventava parte integrante del processo creativo. L’obiettivo non era far ascoltare musica dal vivo, ma anche attivare nuove dinamiche di partecipazione civica attraverso la musica. Questo approccio ha generato quello che io chiamo “Capitale Civico”: una forma di ricchezza intangibile che si crea quando le persone collaborano, condividono spazi e si riconoscono parte di un progetto collettivo. Non è solo un festival musicale, ma un laboratorio di innovazione sociale, in cui la creatività diventa motore di trasformazione territoriale e strumento per attivare responsabilità, partecipazione e senso di appartenenza.
D Civitates, attraverso il Jazzit Fest, divenne una pratica europea
R Nel 2013 Jazzit Fest fu riconosciuto come una best practice europea dal titolo “Culture Shapes The Smart City” e ottenne la buona pratica #laculturachevince e il patrocinio onorario della Commissione Italiana per l’UNESCO. Ma al di là dei riconoscimenti istituzionali, ciò che conta davvero è l’impatto sulle persone e sui territori. Abbiamo sperimentato questa iniziativa in sette regioni dal 2012 al 2019, toccando piccoli centri urbani di Umbria, Piemonte, Lazio, Veneto, Puglia, Campania e Basilicata. E ovunque abbiamo registrato lo stesso desiderio partecipativo dei musicisti e dei volontari. Abbiamo dimostrato effettiva, che la musica e le arti non è solo intrattenimento, ma uno strumento di accensione civica capace di attivare processi di sviluppo sostenibile e partecipazione attiva
D In che modo avete dato nuovi significati alla parola musica? E che ruolo ha avuto il jazz in tutto questo
R Con Civitates e il Jazzit Fest, abbiamo cambiato la grammatica dei festival. La creazione non fu solo appannaggio dei musicisti, né il godimento estetico privilegio dello spettatore. Il musicista, il cittadino e il territorio si incontravano e si ispiravano e responsabilizzavano a vicenda. Così facendo siamo andati oltre l’idea di “musica spettacolo” per riabbracciare la “musica come processo civile”. Perché la musica non è solo intrattenimento, ma una leva di trasformazione sociale. Anche nell’antica Grecia, i giovani venivano educati con la mousiké: quell’insieme di arti presiedute dalle Muse che comprendeva la poesia, la letteratura, il teatro, il canto, la danza e per l’appunto la musica. E in tutto questo, il jazz è stato il miglior lievito sociale, perché per sua natura i musicisti jazz sono aperti alla relazione, al nuovo, al diverso e alla trasformazione.
D A che età e come hai scoperto il jazz?
R Decisamente tardi. Ero già all’università, a Firenze, e tutto è iniziato con un concerto in memoria di Miles Davis. Fino a quel momento ero un melomane appassionato di rock classico. Ma il jazz mi catturò immediatamente.
D Cosa ti ha maggiormente affascinato del jazz?
R Ciò che mi ha colpì non fu solo il linguaggio, ma il principio stesso del jazz. Mi affascinava il concetto che il jazz fosse, in un certo senso, un “errore”. Un errore nell’accezione più creativa del termine: qualcosa di imprevedibile, istantaneo, irripetibile. L’idea che, in quel preciso momento, un musicista potesse essere al tempo stesso interprete e compositore, che potesse trasformare l’imprevisto in opportunità espressiva, mi ha letteralmente folgorato. Poi c’è un altro aspetto che mi ha coinvolto profondamente: la dimensione umana del jazz. Sapere che all’inizio del Novecento questa musica era un simbolo di riscatto per comunità emarginate e oppresse, ha aggiunto uno spessore ulteriore al suo significato. La libertà di cui il jazz parla non è solo interpretativa, ma anche sociale. Forse è per questo che, per me, ascoltare jazz non è mai stato un semplice ascolto musicale. È un’esperienza interiore. Mi costringe a concentrarmi, ad ascoltare con attenzione, ad entrare in empatia con chi suona. È una musica che non ti “accontenta”, non ti culla: ti scuote, ti sfida, ti chiama a essere presente.
D E poi è arrivata la stagione del Covid-19, che ha spezzato in due la tua vita professionale. Come hai vissuto quel periodo?
R La pandemia è stata uno spartiacque. Nella primavera del 2020, con il lockdown, tutto quello che avevo costruito sul piano professionale si è fermato all’improvviso. La mia casa editrice ha dovuto interrompere le attività, perché con lo stop della musica dal vivo anche JAZZIT e le altre iniziative editoriali sono entrate in crisi. Allo stesso modo, Civitates, la mia impresa sociale, ha dovuto fermarsi, perché il suo cuore pulsante era la cooperazione e la relazione umana, due elementi azzerati dalle misure di distanziamento sociale.
D E cosa accadde alla tua vita, nei mesi della diffusione della pandemia e del lockdown?
R Paradossalmente, quei mesi sono stati sereni sul piano personale. Mi trovai forzatamente a casa con mia moglie e i miei figli, e ho potuto vivere il tempo con loro in modo pieno e autentico. Ma sul piano professionale ho percepito fin da subito una rottura netta con il mio passato. Era chiaro che il “prima” non sarebbe più tornato. Poi, in estate, è arrivata un’opportunità inaspettata: l’ingresso, tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, nell’ufficio Arte e Cultura di Cassa Depositi e Prestiti. Mi sono trovato di fronte a una scelta cruciale: rimanere ancorato al mio passato o provare a guardare avanti. Ho scelto la seconda strada. Da allora, ho interrotto tutte le attività che avevo portato avanti per anni e ho trovato nuova energia, nuovo entusiasmo e nuova passione. È stato un passaggio difficile, ma anche liberatorio. A volte, lasciare andare il passato è l’unico modo per aprirsi a nuove possibilità. Mi affascinava l’idea di ripartire da zero con colleghi che non sapevano nulla del mio passato.
D Ritieni che in Italia vi siano spazi interessanti per contribuire ad accrescere o sviluppare una vera cultura del jazz (o sul jazz)?
R Il jazz non è una musica per pigri. Ha bisogno di persone curiose. Non è accomodante, e spesso può risultare ostica, ostile, autoriflettente, distante e narcisistica. È una musica popolare ma impopolare, perché per percepirla in profondità, e saggiarne la bellezza, necessita di concentrazione e partecipazione emotiva. Ma non tutti cercano dalla musica questa relazione. Il jazz è destinato ad essere trasparente verso i grandi numeri non tanto per la sua complessità, ma perché con il jazz non ci si diverte. Il jazz non è una musica da sentire, ma da ascoltare. Per sentire basta usare passivamente l’udito. Per ascoltare occorre un uso attivo dell’udito. Il jazz merita attenzione. Ma sono più numerosi coloro che preferiscono ballare con la musica.
D Come ti rapporti all’oggetto disco, anche a livello personale?
R Continuo ad acquistarli. E non ne faccio una questione di qualità di audio. Mi piace l’esperienza tattile. Vederli e toccarli.
D Come penultima domanda, forse banale, ti chiedo un a tua top five o top ten dei jazzmen più amati e, se ti va, dei tre dischi da isola deserta.
R Procedo d’istinto, anche se potrebbero essere diversi tra poche ore.
- Charlie Haden – Egberto Gismonti “Live in Montreal” (ECM, 2001)
- Miles Davis “Workin’” (Prestige, 1960)
- Keith Jarrett “My Song” (ECM, 1978)
- Cannonball Adderley “Somethin’ Else” (Ble Note, 1958)
- Ornette Coleman “Something Else!!!!” (Contemporary, 1958)
D Quale ultimissima domanda, finiamo con il presente. La recente pubblicazione del tuo libro “La parola cultura” (Civitates, 2024). Ce ne parli?
R Ebbene sì, dopo dieci anni di appunti, mappe concettuali e note sparse, nella primavera del 2022 ho deciso di togliere quotidianamente due ore di sonno per la scrittura di questo libro. Venti mesi senza sosta, eccitanti e coinvolgenti. La stesura è stata faticosa perché la riflessione si alimentava sempre di nuovi stimoli e argomentazioni. Come se non ci fosse mai una fine. Ma alla fine ce l’ho fatta. Si tratta di un libro con due protagonisti: la parola, intesa come strumento prezioso di trasmissione delle idee, e la cultura che nel corso del tempo è stata declinata in infiniti modi e scelta impropriamente in contesti così discordanti da eroderne il significato e il suo valore originario. Una parola, cultura, che vive un suo paradosso: è centrale nel dibattito quotidiano ma è vittima di accezioni diverse e di un uso improprio. E così ne è nato un testo che non ha l’ambizione di essere definitivo, ma che intende stimolare e possibilmente domande, intuizioni, più che affermare verità. Sono partito dalle sue radici semantiche, dalle origini greco-latine, per rintracciare il senso e il significato più profondo di una parola che, di fatto, ha reso l’uomo ciò che è.
