Valentina Voto tra jazz, musicoterapia e Bobby McFerrin. Intervista all’autrice della prima biografia italiana sul noto vocalist statunitense

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Bobby McFerrin.

// di Guido Michelone //

Valentina Voto dovrebbe già essere un nome noto ai lettori di Doppio Jazz perché dal settembre scorso ha iniziato una fruttuosa collaborazione grazie alle belle interviste con i massimi esponenti della critica jazz italiana. Ora tocca a Lei stare dalla parte dell’intervistata, perché, oltre a un lavoro collegiale su Arrigo Polillo (curato da Luca Cerchiari) è autrice della prima biografia italiana di un noto vocalist statunitense, che all’appello fa Bobby McFerrin. Oltre essere tra i migliori libri italiani sul jazz usciti nel 2004, il saggio fa luce su un’artista assai poco valorizzato nel nostro Paese (e forse ovunque) ma che risulta senz’altro l’ultimo grande rinnovatore, in ordine di tempo, tra i jazz singer e in genere tra i maestri del vocalismo afroamericano. L’apporto estetico-culturale va anche oltre i generi o le etichette per porsi direttamente tra i vertici del canto contemporaneo, in un’originale fusione tra classico e popolare.

D In tre parole chi è Valentina Voto?

R Una studiosa e una musicoterapeuta, che nutre una passione sincera e profonda per il canto.

D Il tuo primo ricordo della musica da bambina?

R È un ricordo riemerso con forza qualche tempo fa, durante una lezione di musicoterapia.. non so quanti anni potessi avere, ma ero di certo molto piccola.. rivedo me io e mia sorella minore cantare e danzare – forse dovrei meglio dire scatenarci – davanti al mobile della sala che accoglieva il grosso stereo con le cassa… mio padre aveva appena fatto partire “Get Over it” degli Eagles, brano di apertura del loro album Hell Freezes Over del 1994.. ma, forse, ancora precedente è il ricordo di mio padre che, durante le lunghe notti di studio universitario, ascoltava musica ad alto volume con le cuffie alle orecchie.. penso che potrebbe venirmi da lì l’enorme fascinazione che lo studio, in naturale associazione con la musica, ha sempre esercitato su di me.

D E i tuoi primi ricordi del jazz in assoluto?

R Il mio primo ricordo del jazz è legato a una meritoria collana di CD pubblicata dalla DeAgostini, che presentava per ogni uscita una raccolta di brani di un (o una) grande del jazz accompagnata da un fascicolo su una tappa della storia del genere… ricordo che frequentavo le scuole medie e, non so perché, c’era qualcosa che mi attraeva in quei dischi e in quella parola misteriosa, così ho chiesto ai miei genitori di acquistare tutti i numeri della collana… ricordo bene l’ascolto del CD dedicato a Parker: l’ho trovato straordinariamente ostico, “non ci ho capito nulla” e l’ho messo da parte… ho riprovato con Ellington, il secondo CD della serie, e ho pensato lo stesso… semplicemente non ero pronta, e quella collana è rimasta in un canto – ma bene in vista – per molto tempo… Ora posso dire di avere gli strumenti (anche se non certo tutti) per fare quella fatica che il jazz richiede, ma che sa anche molto ricompensare. E posso dire che, per quanto tuttora preferisca altri ascolti alle asperità del bop, amo invece molto il Duca, dalle sue prime registrazioni in jungle stile (penso alle “voci parlanti” di Miley e Nanton) fino alla suite dedicata ai versi di Shakespeare o ai Concerti Sacri (non a caso, questi ultimi lavori sono stati affrontati da Stefano Zenni nel corso di alcune sue lezioni presso l’Auditorium Parco della Musica che ho recuperato tempo fa in rete – devo ringraziare proprio il Professor Zenni per avermi fatto appassionare non solo ai vari volti di Ellington, ma anche a molti dei miei abituali ascolti jazzistici – così come, diversamente, Vittorio Castelli).

D So che lavori con la musicoterapia, ma ti definiresti più musicoterapeuta, critico, studiosa, musicologa o altro ancora?

R Sì, è vero che lavoro anche con la musicoterapia, ma forse la parola che mi definisce meglio è studiosa… non certo critico: dovrei avere una dimestichezza con la formulazione di un giudizio, sottile, anche forse tagliente, che non ho, oltre che con un ascolto sempre attivo e vorace (da musicoterapeuta infatti, appena posso, cerco il silenzio…), e non posso certo dirmi una musicologa: so di non sapere e troppo non so ancora. Sono tuttora in cerca di un equilibrio tra le mie due anime principali, quella di studiosa e quella di musicoterapeuta.

D Di recente hai pubblicato “Bobby McFerrin e il gioco libero della voce”: ce ne parli?

R Difficile condensare un libro in poche parole, ma farò un tentativo. Il volume, un profilo biografico e critico dedicato a Bobby McFerrin, è il frutto più maturo della mia ricerca di Tesi di Laurea Magistrale. Il professor Maurizio Corbella, mio relatore di Tesi, è stato fondamentale per la focalizzazione dell’argomento e ha vigilato sulla prima fase della mia ricerca e sulla successiva prima elaborazione…Ma di fondamentale importanza è stato anche il professor Luca Cerchiari, che ha creduto nel valore del mio testo e ha voluto accoglierlo nella collana “Musica contemporanea” da lui diretta per la Mimesis. Sembrerebbe infatti che non vi siano studi sistematici e unitari – libri insomma – su Bobby McFerrin, nemmeno in lingua inglese. Da qui la prima importanza di questo libro. La seconda deriva ovviamente dal suo straordinario protagonista, che, grazie a una spinta sincretica e onnicomprensiva, ha messo in crisi le categorizzazioni tipiche di un discorso musicale articolato spesso troppo rigidamente in generi. Nel mio testo, inoltre, propongo una possibile chiave interpretativa del “fenomeno” McFerrin, secondo la quale il gioco, la vocalità e l’improvvisazione rappresentano i tre cardini inscindibili di un’estetica che, attraverso il trait d’union proprio dell’improvvisazione – di un sentire e di un pensiero improvvisativo, oltre che di una pratica musicale variamente declinata in tal senso – si fa anche etica… non voglio svelare troppo, perché naturalmente invito chi leggerà l’intervista a leggere anche il libro! Ma spero che questo testo possa essere apprezzato sia dai semplici curiosi e appassionati sia dagli addetti ai lavori… La straordinarietà di McFerrin – non solo come musicista, ma anche come uomo – ha reso molto difficile mantenere il distacco critico necessario… io mi sono impegnata a mantenerlo, ma non posso negare che durante il lavoro la sua figura mi sia stata – come mi è tuttora – di grande ispirazione.

D Esiste qualche correlazione fra il tuo scritto su McFerrin e la tua professione di musicoterapeuta?

R La mia conoscenza di McFerrin al di fuori di “Don’t Worry, Be Happy” nasce proprio in seno alla mia scuola di Musicoterapia e credo che gli strumenti che la formazione di musicoterapeuta mi ha dato mi abbiano permesso di guardare a questo musicista con un occhio diverso e con l’approccio “ibrido” necessario a illuminarne aspetti inediti o mai forse adeguatamente tematizzati… all’interno dell’etica/estetica di McFerrin, infatti, sono ravvisabili idee o elementi tipici della musicoterapia o ad essa in qualche misura accostabili: mi vengono in mente per esempio l’importanza che riveste il gioco come via principe alla creazione e, quindi, all’essere se stessi; l’idea della valenza terapeutica della voce – le healing voices, le “voci che curano”, che emergono in relazione non solo al McFerrin solista, ma soprattutto alla sua esperienza con la Voicestra –; l’importanza di andare “beyond words”, “oltre le parole”, che è anche fondamento di una terapia, come è la musicoterapia, basata primariamente sulla comunicazione non verbale e analogica e in cui i principali medium comunicativi e relazionali sono proprio il corpo e il suono (i quali rivestono, seppur diversamente, un ruolo cruciale anche per McFerrin).

D Di solito si pensa alla musicoterapia con scelte musicali ‘semplici’: certa musica classica, poi tanta new age e canzoncine facili; ma è davvero così? Ad esempio il jazz può essere utile?

R La risposta è complessa e non voglio spingermi a fare affermazioni urbi et orbi che vogliano avere validità assoluta. Quello che, però, posso dire è che nella musicoterapia, come la pratico e come l’ho incontrata io nella mia formazione, ogni tipo di musica ha diritto di cittadinanza, ogni musica, meglio, che sia dotata di senso, ossia rivestita di affetto dal paziente oppure utilizzata dal musicoterapeuta pensando al paziente che ha di fronte. Cito un’affermazione di McFerrin che ritengo calzante anche in questo discorso: «Sono così affascinato dalle stesse dodici note che si trovano in “Itsy Bitsy Spider” e nella Nona Sinfonia di Beethoven». Anche in musicoterapia, le dodici note di una canzoncina per bambini hanno il medesimo valore di quelle che possono comporre uno dei massimi capolavori della nostra storia musicale e, come possono generare lo stesso fascino, generano anche, ugualmente, senso – se la musica, qualsiasi musica, viene considerata un mezzo e non un fine, un veicolo e un facilitatore della relazione, il cui focus è l’Altro/paziente, non l’Io/terapeuta.

D Quindi sei possibilista sul jazz?

R Il jazz ha diversi punti di contatto con la musica come viene esperita in terapia e come terapia, e riflettere su aspetti di questo genere può illuminare anche aspetti della musicoterapia che ad esso sono accostabili o con esso confrontabili: penso in particolare alla centralità dell’improvvisazione (si veda per esempio il confronto – fatti i dovuti distinguo – tra l’interplay jazzistico e il dialogo sonoro in seduta) e all’importanza data alla corporeità in una produzione sonora e musicale legata all’hic et nunc, in cui il contesto informa di sé il testo ed emerge quel corpo unico e irriducibile con quella particolare identità sonora e quel particolare suono; penso poi agli aspetti del gioco e del rito – i quali però sono ovviamente caricati di senso diverso e declinati diversamente nei due ambiti – e all’apertura al molteplice, nell’eterogeneità dei suoni e dei linguaggi musicali accolti… Il discorso meriterebbe una trattazione ben più ampia.

D Oltre McFerrin quali cantanti jazz ti piacciono o ti interessano? E a livello di strumentisti, gruppi, orchestre?

R Amo molto le voci dalla grana segnata dalla sofferenza, e quindi in primis quelle di Billy Holiday o di Chet Becker, friabili a volte, tanto paiono fragili… ma sono rimasta folgorata anche da Jeanne Lee, fin dal suo sodalizio con Ran Blake: la loro versione di “Summertime” (seconda per me solo a quella di Sidney Bechet) è sublime nella densità della sua rarefazione e nel giocare sul e con il silenzio… Mi piace moltissimo l’Al Jarreau jazzista, ma sono molto legata anche alla prima Norah Jones, altra voce a cavallo tra i generi, che col suo album del 2002 mi ha spinto senza accorgermi verso il jazz. Al di fuori dei cantanti sono sicuramente meno ferrata, però i miei ascolti sono appassionati e sinceri: sono legata ai musicisti in cui emerge la natura materica del fiato e la loro sensibilità “cantante”: Ben Webster per esempio, ma anche Coleman Hawkins, Lester Young… amo anche il fraseggio e il suono del baritono di Gerry Mulligan, specialmente in quartetto con Chet Baker… mi piace il suono “ricco” del sassofonista o del trombettista jazz, che non vuole nascondere l’umanità che infonde la vita allo strumento… di Ellington poi ho già parlato (ritengo Johnny Hodges un incantatore di serpenti sui generis), ma amo anche il Modern Jazz Quartet, esempio di perfetta sintesi tra anime e linguaggi diversi, così come il Benny Goodman orchestrale e ancora di più quello in piccolo gruppo… credo di avere preferenze piuttosto tradizionali, forse anche ingenue, ma cerco di ascoltare il più possibile. Restare colpiti al di fuori della propria comfort zone è sempre di grande ispirazione e stimolo, ed è ciò che spesso segna maggiormente i nostri ascolti.

D Per te ha ancora un senso oggi la parola jazz?

R Il mio non può essere che un umilissimo parere ma sì, credo che la parola jazz possa avere senso anche oggi, posto che si accetti che il significato che si dà al termine non è e non può più essere quello che si dava in passato e che, alla fine, sarà forse vano qualunque tentativo definitorio. Il termine ha superato i limiti della concezione afrocentrica e si è aperto ad accogliere il mondo da cui è venuto, alle parti del mondo da cui ha tratto quelle radici che poi ha riportato a nuova, e diversa, vita… amo molto pensarlo come il “costrutto ibrido” per eccellenza e come significante dal significato sempre cangiante, perché sempre accogliente e dotato del dono di far proprio ogni spunto, anche il più diverso da sé, per farne qualcosa di nuovo e originale… è per me musica che ha tuttora il dono di collegare gli elementi (linguistici, formali, etc.) più lontani e diversi, di aprirsi agli opposti e di sintetizzarli… è comprensibile dunque come il jazz possa persino diventare principio etico, oltre che estetico, per chi lo pratica e vi è immerso.

D Il jazz deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?

R Sì, certo, deve parlare di tutto ciò di cui i musicisti vogliono parlare, di tutto ciò che sta loro a cuore. Deve esprimere la soggettività di chi suona e, anche, la collettività che questa rappresenta – o con la quale si confronta o si scontra. Nel jazz la realtà dei musicisti non può non fare irruzione.

D Hai lavorato anche al libro su Arrigo Polillo curato dal figlio Roberto e da Luca Cerchiari: ci parli anche di questo?

R Volentieri. Lavorare al libro su Arrigo Polillo, addentrarmi alla scoperta della sua figura di uomo e di professionista del settore, ha avuto per me quasi il valore di un’iniziazione, perché mi ha aperto davvero le porte di quel “Paese delle meraviglie” che è il jazz. Per suo tramite, infatti, ho potuto non solo toccare con mano e appassionarmi alla vicenda e ai protagonisti della musica afro-americana – come moltissimi altri prima di me – , ma ho potuto anche seguire da vicino i fatti che hanno condotto alla nascita della critica jazz in Europa e al fondamentale e riconosciuto contributo italiano, che nella rivista Musica Jazz ha avuto il suo primo e principale centro propulsore.

D Come hai affiancato i due curatori del libro, Luca Cerchiari e Roberto Polillo?

Svolgendo principalmente un lavoro di ricerca. Ho consultato le pagine delle riviste o dei quotidiani su cui Polillo ha scritto per trovare informazioni che potessero essere utili alla stesura del profilo biografico scritto dal Professor Cerchiari; questo ci ha portato a far luce sugli aspetti meno noti della sua vita e della sua professione o ci ha confortato nel seguire le linee di ricerca che ci eravamo prefissati: il rapporto tra jazz e rock negli scritti e nella visione di Polillo (riassumibile nella frase di Monk, da lui molto apprezzata, “Il rock è jazz ignorante”); le parziali e successive aperture nella comprensione del mondo popular; la visione per lo più afrocentrica del jazz e quindi quelli che si possono considerare, col senno di poi, comprensibili limiti di gusto e di approccio metodologico; l’equilibrio nel giudizio e la disponibilità a un sano contraddittorio (messa a dura prova nel periodo più aspro delle contestazioni nel nostro paese); l’attività di organizzatore di Festival e di concerti; il dinamico equilibrio tra l’attività jazzistica e quella in Mondadori.

D Che messaggio arriva dal vostro lavoro su uno dei padri fondatori della critica jazz italiana?

R Il libro riesce a far emergere il carisma di Polillo, il suo sottile humor, l’eleganza della scrittura che rispecchia quella della persona, la passione inestinguibile per il jazz che ha permeato ogni suo scritto, tutti quegli aspetti dell’uomo e del professionista che vengono arricchiti dalle testimonianze sentite di chi lo ha conosciuto in vita e di chi – è il caso del figlio Roberto – ha condiviso con me i suoi ricordi, permettendomi di raccoglierli anche in un’intervista.

D Cosa pensi tu dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana (di cui il jazz ovviamente fa parte da anni)?

R Siamo inondati da fiumane di contenitori culturali per la maggior parte privi di contenuti… tutto, ormai, è ridotto a mero prodotto, da vendere e consumare nella maniera più veloce possibile, in un’abbuffata binge che non fa bene a noi né alla cultura in generale… faccio mia la riflessione dei filosofi fondatori di Tlon laddove dicono che siamo costretti in un meccanismo impazzito che ci priva del tempo necessario non solo alla vera creazione ma anche alla “sedimentazione lenta del significato”… Ad ogni modo, sono d’accordo anche con Giuseppe Piacentino, quando dice che si fanno grandi sforzi affinché possa esistere una cultura in Italia: penso che si possa dire lo stesso anche per la cultura jazzistica. Trovo infatti che vi sia un grande sforzo per mantenere il jazz e una cultura del jazz radicati nel nostro paese… penso per esempio ai ricchi cartelloni dei vari Festival che operano strenuamente lungo tutto il nostro stivale, i quali offrono spesso non solo concerti con musicisti di primo piano – nomi noti o giovani promesse – ma anche conferenze con studiosi ed esperti in materia jazzistica. Il jazz necessita di un pubblico ben più ampio di quello attuale, un pubblico pronto ad accoglierlo, e, per questo, ha un bisogno enorme di essere raccontato e spiegato, non solo suonato. C’è chi, nel nostro Paese, è in grado di fare questo lavoro in maniera mirabile, con, a un tempo, estrema competenza e grande semplicità. Mi auguro che si diano loro, come meritano, sempre maggiori spazio e visibilità, oltre che le giuste risorse. Io, tuttora, non mi stanco di leggerli o ascoltarli quando ne ho l’occasione, ammirata e grata.

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