Intervista al critico musicale Giuseppe Piacentino

Giuseppe Piacentino
// di Valentina Voto //
Giuseppe Piacentino è giornalista professionista, critico musicale e storico collaboratore della rivista Musica Jazz, sulla quale scrive dalla fine degli anni Sessanta.
D In tre parole chi è Giuseppe Piacentino?
R Domanda difficile, in tre parole proprio non riesco. Direi che sono un giornalista scrupoloso nel suo lavoro, molto curioso, dotato di senso pratico. Questo, almeno, è ciò che mi sono sentito dire…
D Quali sono i tuoi primi ricordi della musica da bambino?
R Beh, le canzoni sentite in radio o in televisione, ma quelle hanno contato poco nella mia maturazione culturale. Invece, le prime cose che mi hanno davvero coinvolto erano di musica classica, verso i dieci anni… ne ero appassionato, mi piaceva molto. I miei genitori, per assecondare questa passione, hanno iniziato a comprarmi a fascicoli la Storia della Musica dei Fratelli Fabbri Editori. A ogni fascicolo era allegato un disco, una vera manna… Quando sono arrivato al volume sul jazz, e quando ho ascoltato, forse alla radio, il Modern Jazz Quartet – che combinava i linguaggi del jazz e della musica classica – ho avuto una specie di folgorazione. Da lì è cominciato tutto.
D Ecco come sei arrivato al jazz e come è nato il tuo amore per il jazz.
R Sì. Da lì ho cominciato a comprare dischi ma ascoltando sempre l’intera storia del jazz. Certo, ho periodi che preferisco, ma non mi sono mai limitato a quelli… se penso alle prime forme di jazz, quelle degli anni Venti… come si fa a non amare quei musicisti i quali, pur privi di studi, stavano mettendo al mondo una lingua musicale fino ad allora inimmaginabile? È qualcosa che emoziona. Poi, ammetto che sul piano musicologico sono più debole sul jazz degli inizi, avrei difficoltà a scrivere un articolo su Freddie Keppard o Jimmie Noone, però li ascolto.
D Viene da chiederti, a questo punto, qual è il periodo della storia della jazz che preferisci e di cui ti sei occupato di preferenza.
R Il periodo che preferisco – perché a partire da lì c’è stata un’immensa esplosione di creatività – è stato quello tra la metà degli anni Trenta e, diciamo, l’alba degli anni Cinquanta, cioè il periodo che parte dai grandi solisti che anticiparono il bebop, passa per il bebop medesimo e arriva alle sue ultime fiammate… questo è il jazz che amo di più. Poi, certo, Coltrane, Steve Lacy, Armstrong, Bill Evans, Ella Fitzgerald, per fare dei nomi, sono tutti artisti che ascolto e riascolto spesso, ma quella rimane l’epoca che preferisco – e nella quale sono anche più ferrato.
D Quali sono i motivi che ti hanno spinto ad occuparti di critica musicale?
R E chi lo sa… Ho cominciato a scrivere su “Musica Jazz” che avevo sedici anni e non so dire che cosa mi spingesse. Forse il desiderio di comunicare cose di me che provavo nei confronti dell’ascolto musicale. Mi è sempre piaciuto scrivere, già da prima che lo facessi “ufficialmente”, e non ho mai smesso. Credo che siano stati pochi i giorni della mia vita in cui non ho scritto qualcosa. Comunque, non mi considero un critico ma un divulgatore.
D Per te ha ancora un senso oggi la parola “jazz”?
R Assolutamente sì. La parola “jazz” la considero non come un’etichetta da appiccicare ma come un’indicazione stradale che dice “da qui vai in quella certa direzione”, verso quella particolare musica e soprattutto verso la mentalità che le sta dietro. Dal punto di vista formale, poi, quella direzione potrebbe anche portare un po’ distante dal nocciolo del jazz, ma il collegamento resta. Cioè, il jazz è sempre stato una musica che ha preso da ogni parte, fin dagli inizi… In St. Louis Blues, per esempio, è incorporata una specie di tango. Il jazz è sempre stato un fagocitatore che metabolizza tutto e che cresce grazie a questo cibo rubato a destra e a manca. So che a non pochi musicisti la parola non piace, perché probabilmente la considerano troppo limitante, oppure perché il vocabolo nacque in un’America diffusamente razzista, quando perfino i grandissimi musicisti afroamericani dovevano entrare nei teatri dalla porta di servizio. Per quel che mi riguarda, questa parola ha un significato profondo, di potente bellezza.
D Si può parlare di “jazz italiano”? Esiste per te qualcosa che è definibile come “jazz italiano” o come “jazz europeo”?
R Si può parlare sicuramente di jazz italiano e di jazz europeo! Lo abbiamo visto dagli anni Sessanta/Settanta in poi, quando hanno cominciato a crescere musiche autonome rispetto al jazz americano, anche se ne mantenevano la spina dorsale. Non è solo questione di linguaggi diversi, ma anche di sensibilità diverse… prendo un esempio famoso, su cui ho anche scritto e fatto un’intervista: il sassofonista Jan Garbarek, il quale ha saputo fondere il jazz con forme tradizionali, popolari del suo paese, la Norvegia. Il jazz non si pone limiti geografici: originario dell’Africa ha abbracciato il mondo. E qui torno a Garbarek: il suo attuale gruppo ha un percussionista indiano, un bassista brasiliano e un pianista-tastierista tedesco… Sì, credo sia un fatto di sensibilità, di cogliere emozioni, forme, spunti dal mondo dal quale si proviene, dalle proprie radici. Quanto all’Italia, anche qui emerge il legame con la terra dove si è cresciuti. Penso agli echi mediterranei nel jazz del pugliese Roberto Ottaviano. E penso anche a Enrico Rava, che da un certo punto della sua carriera ha cominciato a guardare sempre più al melodramma, alla canzone, al belcanto, aggiungendo al suo stile un senso della melodia tutto italiano.
D In parte già hai risposto alla domanda che volevo farti circa cosa distingue l’approccio al jazz di americani e afroamericani da quello di noi europei… vuoi aggiungere qualcosa?
R Il jazz ha un eterno nucleo afroamericano che in Europa è stato in parte ridimensionato. Il jazz europeo si è emancipato dagli Usa perché parecchi suoi esponenti hanno approfondito il rapporto con altri artisti del Vecchio continente, cioè scrittori, teatranti, musicisti di ambiti diversi, coreografi, visual artists, poeti… una crescita comune che ha fatto maturare una identità extra-americana. La domanda fondamentale che si pone – o dovrebbe porsi – ogni jazzista europeo è quindi: che cosa significa per me la parola “Europa”?
D Molti ormai gridano alla morte della musica impegnata e/o sperimentale… ma esiste ancora la politica e/o l’avanguardia, nel jazz statunitense e in quello europeo?
R Mi fa sempre molto sorridere quando sento parlare di “morte del romanzo”, “morte del teatro”, “morte dell’arte”, “morte del jazz”… però i teatri continuano a essere pieni, così come le mostre d’arte e i concerti di jazz. Alla fine, l’unica “morte” innegabile resta quella fisica… Nello specifico della tua domanda, lo sperimentalismo, la ricerca di forme nuove nel jazz continua a esserci, anche se meno di una volta, ma poi è molto difficile farla conoscere in giro. Non è pane per il sistema discografico né per il grande giro dei concerti.
D Come è essere un critico musicale oggi? Perché oggi la critica non è più quella militante o combattiva di una volta? E perché non esistono più le ‘solenni stroncature’?
R Se per militante intendiamo impegnata politicamente, la critica jazz lo è stata esplicitamente nella seconda metà degli anni Sessanta – l’epoca del jazz di protesta, di critica sociale, di lotta per i diritti civili – e non sono mancati gli abbagli. Potrà sembrare stravagante, ma partirei citando I promessi sposi. Tutti a scuola abbiamo odiato quel romanzo. L’ho riletto qualche anno fa e un capitolo, che i programmi scolastici saltavano, mi ha sbalordito. Descrivendo un banchetto, Manzoni parla di intreccio fra criminalità e Stato… lascia presagire l’odierno fenomeno mafioso… Questo per dire che un artista funziona nel suo lavoro e dura nel Tempo quanto più si solleva dall’attualità. Manzoni ha scritto un romanzo di eterna attualità perché ha colto, con quella che gli americani chiamano “vista a volo d’uccello”, che certi rapporti e certe dinamiche si ripetono nella Storia. Si può fare lo stesso anche nella critica? Penso di sì, a patto di non usare il filtro di un’ideologia. Meglio lo sforzo di offrire al pubblico gli strumenti per “leggere” un’opera. Venendo alle stroncature, grazie alle scuole di musica il jazz di oggi si è attestato su un buon livello medio, è raro dover ricorrere alla mannaia…. Tuttavia, sono scomparsi i picchi di creatività: negli ultimi trent’anni non ho ascoltato un solo disco che abbia aperto una strada né un assolo degno di finire sui libri di storia.
D Il jazz deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?
R Non voglio sembrare “da torre d’avorio”, ma il jazz deve riflettere soprattutto su se stesso, su quale contributo vuole dare nel presente e nel futuro in termini strettamente musicali. È inevitabile, poi, che qualcosa di tutti i temi che hai elencato in qualche modo vi rientri. A me non disturba se un musicista dice “Dedico questo disco alla battaglia per l’ambiente”, l’importante è che non si limiti a una dichiarazione, che la musica sia all’altezza.
D Come vivi tu il jazz in Italia, anche in rapporto alle tue esperienze sul territorio?
R Io prevalentemente scrivo articoli di storia del jazz, per cui mi si vede pochissimo ai concerti, conosco di persona pochi addetti ai lavori, incontro molto raramente musicisti e cerco di non diventarne amico, perché questo mi condizionerebbe nei giudizi se dovessi scriverne. Sono un po’ “fuori”.
D Cosa pensi dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui il jazz ovviamente fa parte da anni?
R Non è una domanda facile questa…lasciando da parte il mondo della politica, che è demoralizzante e purtroppo nocivo per la cultura, io vedo alcuni grossi sforzi anche solo affinché ci sia una cultura italiana… Prendiamo la letteratura: nell’appiattimento generale rispetto alla fioritura novecentesca – a causa più che altro dei grossi editori, che oggi puntano solo su prodotti che si vendano –, e in mezzo a una diffusa “routine”, ogni tanto qualche voce di rilievo salta fuori e tiene viva la nostra letteratura… Per esempio, il libro di Dario Voltolini “Invernale” – un romanzo splendido secondo me, breve e doloroso, arrivato secondo al Premio Strega di quest’anno – dà l’idea che qualcosa continui a muoversi.
D Nel tuo ambito, esiste qualche nuovo musicista significativo in Italia?
R Anche nel jazz ci sono nomi molto interessanti: il primo che mi viene in mente è Matteo Paggi. Ho letto una sua intervista, ho ascoltato quello che ha fatto nel disco di Enrico Rava (lui fa parte del quintetto Fearless Five, che è nato praticamente adesso) e devo dire che è un trombonista che può dare molto. Nel jazz ogni anno viene fuori qualcuno… un altro nome è Federica Michisanti, ormai personaggio di primo piano… E di grandi cose ne ascoltiamo ancora da jazzisti “maturi”, come Ottaviano, D’Andrea, Fasoli, Rava, Dino Betti van der Noot (gli ultimi quattro veleggiano oltre gli ottant’anni). Ma di nuovi talenti continuano a venirne fuori. Il bello è che giovani e anziani si trovano insieme, come nel biliardo.
D Quindi c’è speranza?
R Il jazz non l’ha mai persa.
