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// di Guido Michelone //

Il tedesco Johannes Rühl è un riferimento essenziale per tutta la nuova musica che si fa in Svizzera (dove egli abita da circa un ventennio) e più estesamente per l’intera macroregione dell’arco alpino che comprende via via Francia, Italia, Austria, Slovenia. Il pionieristico lavoro sul neo-folk e sull’etno-folk – che di solito gli europei studiando, occupandosi di zone lontane dall’Asia all’Africa, dalle Americhe all’Oceania, dimenticandosi spesso di quanto accade sotto casa) ha, proprio grazie a Johannes Rühl, importanti positive ricadute sulle giovani sonorità – jazz compreso – della Confederazione Elvetica, come egli stesso ci spiega in questa preziosa intervista.

D In tre parole chi è Johannes Rühl?

R Sociologo musicale, interessato alla storia, ai cambiamenti e ai rinnovamenti delle tradizioni musicali alpine, curatore di programmi musicali, direttore della residenza artistica ‘casadirosa.ch’ e autore di testi prevalentemente musicali.

D Il tuo primo ricordo della musica da bambino?

R Quartetti d’archi classici che i miei genitori suonavano a casa con le porte dell’appartamento aperte e canzoni che suonavo al flauto dolce con mio fratello, con accompagnamento sempre in terze.

D Hai anche un primo ricordo del jazz in assoluto?

R I miei primi incontri con il jazz sono avvenuti molto tardi, perché a casa non c’era questa musica. A 14 anni, nel 1968, ho iniziato a interessarmi alla musica che era anche un po’ contro i miei genitori. Si trattava all’inizio dei Beatles e degli Stones. Il mio primo singolo fu “Jumping Jack Flash” e il mio primo LP fu “Abbey Road”. In seguito ho sviluppato un gusto per i gruppi del festival di Woodstock e, poco dopo, per la musica di gruppi rock ambiziosi come i Mother’s of Invention, i King Crimson, i Colosseum, i Blood Sweat and Tears o i giovani Genesis, eccetera. Quando iniziai ad ascoltare il vero jazz, era già così free che non riuscivo ad appassionarmi. In quegli anni sono andato a Monaco per fare il servizio civile. Era il periodo in cui Manfred Eicher iniziò a organizzare concerti all’Amerikahaus con la sua nuova etichetta ECM. Ci andavo molto spesso e diventai un fan del jazz che apriva nuove porte. Era una musica verso la quale i free-jazzer erano naturalmente sospettosi.

D Come definiresti la tua attività? Critico, studioso, musicologo, organizzatore o tutto insieme o altro ancora?

R Non sono un critico. Come curatore, non puoi essere un critico. Tutto il resto è vero. Le mie attività si muovono tra due poli. Il pubblico e i musicisti. Ho il massimo rispetto per entrambi. In altre parole, la musica che non ha un pubblico non mi interessa professionalmente. Non perché abbia bisogno di entrate, ma perché la musica deve avere una direzione che raggiunga orecchie diverse da quelle dei musicisti stessi. Ecco perché a volte ho problemi con la musica improvvisata. D’altra parte, gli artisti meritano un rispetto incondizionato. Diventare un artista professionista è una scelta di vita. Anche se l’arte non è sempre una performance di altissimo livello, bisogna rispettarla. Gli artisti si espongono a critiche massicce e di solito subiscono molti più rifiuti che approvazioni. Soprattutto da parte di noi mediatori. E non credo che questo sia un bene. Si può anche dare un rifiuto amichevole e onesto.

D Ma tu come ti regole nelle scelte?

R Quando organizzo musica, per me è molto importante offrire al pubblico qualcosa che non conosce. Trovo noioso scegliere sempre i soliti nomi noti. Il risultato è che nessuno va a vedere i nomi sconosciuti. Il pubblico si sviluppa solo con il tempo e con esperienze positive nel nuovo e nello sconosciuto. Nel migliore dei casi, si crea una fiducia cieca. Questa è ‘l’arte del curatore’.

D Possiamo parlare di te come di uno dei protagonisti della musica in Svizzera?

R Sono arrivato in Svizzera dalla Germania nel 2008 perché mi è stato affidato il programma del rinomato festival musicale “Alpentöne” (Suoni delle Alpi) ad Altdorf, Cantone Uri. Era il periodo in cui una nuova musica popolare svizzera stava vivendo un’inaspettata rinascita. Allo stesso tempo, all’accademia di Lucerna è stato istituito il primo programma di studi di musica popolare, che da allora ha prodotto musicisti di grande talento. Allo stesso tempo, ho iniziato a fare ricerca sulla nuova musica popolare presso la stessa università. Oggi mi viene spesso chiesto di fare il curatore, di scrivere e di far parte di comitati e giurie. Dal 2024 sono presidente della giuria del ‘Premio svizzero di musica’, che assegna ogni anno premi per un totale di circa 500.000 euro in tutti i generi musicali. In qualità di fondatore e direttore della residenza per artisti ‘casadirosa.ch’, i musicisti vengono da me in Valle Onsernone, in Ticino. Lì offro loro le migliori condizioni possibili per realizzare i loro progetti. La scena mi rispetta molto.

D Ti occupi di molte musiche – jazz. folk, neue muzik, avant-garde – ma quale sonorità ti piace di più e consideri più vicina al tuo modo di pensare?

R Devo iniziare dicendo che sono fondamentalmente molto romantico. Allo stesso tempo, rifuggo dal cheap kitsch come il diavolo l’acqua santa. Come ho già detto, penso sempre alla musica in termini di pubblico. Questo mi aiuta molto a mettere in prospettiva i miei gusti e a giudicare la musica in termini di rilevanza. In altre parole, non c’è musica che non sia adatta a me, purché susciti il mio interesse, purché la riconosca come musica e allo stesso tempo mi apre qualcosa che forse non mi aspettavo. Se nel jazz non conosco il motivo di base, l’improvvisazione mi è poco utile. Se la musica folk non ha questo sottofondo terroso, mi sembra liscia e noiosa. Se la musica contemporanea (classica) può essere compresa solo da orecchie altamente specializzate, allora ha perso la sua legittimità come arte altamente sovvenzionata. Ma la musica è molto più che un semplice suono. Quando ero giovane, trasmetteva soprattutto un atteggiamento nei confronti di ciò che accadeva intorno a noi. Faceva parte di un atteggiamento nei confronti della vita. Esigo questo atteggiamento da tutta l’arte. Deve graffiare qualcosa nel nostro essere più profondo. La musica è sempre la colonna sonora di qualcosa che avviene al di fuori della musica, anche se è solo a livello sensuale. Non posso esprimerlo in altro modo.

D Per te oggi ha ancora un senso oggi la parola jazz?

R Penso che le denominazioni siano importanti finché c’è un accordo sul loro significato. Con il jazz, sembra che questo non sia più così chiaro. Lo stesso vale per la world music e il folk. Si può anche considerare un segno positivo il fatto che i generi si siano aperti molto e che gli organizzatori abbiano ora la possibilità di sviluppare un proprio profilo programmatico. Il jazz contemporaneo come genere si trova naturalmente in difficoltà di fronte a tanta apertura. Ma credo che il ruolo storico-musicale del jazz, con il suo vocabolario, sia ancora riconosciuto. È un quadro di riferimento su cui si orientano anche molti giovani musicisti, che però ne traggono la propria musica. A volte è diventato molto confuso per il pubblico. È il prezzo che dobbiamo pagare per la diversità.

D E si può parlare di ‘jazz svizzero’? Esiste per te qualcosa di definibile come ‘jazz europeo?

R È noto che molti batteristi di talento provengono dalla Svizzera. Negli ultimi decenni, il jazz ha prodotto in Svizzera un gran numero di musicisti eccellenti. Ciò è indubbiamente dovuto alla formazione in accademie, conservatori, università con il loro corpo docente internazionale. Dal punto di vista stilistico, tuttavia, non vedo un jazz specificamente svizzero. A parte il fatto che gli svizzeri hanno una certa eccentricità e amore per la sperimentazione, che alcuni di loro esprimono anche nella loro musica. Non ho una visione d’insieme del jazz europeo. Mi piace ascoltare il jazz della Scandinavia, così come la loro musica folk. Nella loro tradizione, hanno un ampio repertorio di toni e suoni che possono essere ulteriormente sviluppati. Sento meno questa apertura in altre parti d’Europa.

D Tuttavia mi sembra che molte tue iniziative vadano in direzione di un confron to tra il jazz e altre musiche europee autoctone, giusto?

R Sì, a Friburgo in Brisgovia ho fondato nel 2001 e organizzato per qualche anno il festival jazz “Le Gipfel du Jazz”. Nel sottotitolo lo abbiamo chiamato “Radici europee del folklore nel jazz”. Tra l’altro, musicisti come Michel Godard, Pino Minafra, Gianluigi Trovesi e l’etichetta EGEA erano partner importanti per me in quel momento. Fondammo una banda a Friburgo che aprì l’idea di “Banda e Jazz” di Ruvo di Puglia al jazz tedesco, che poi ho ripetuto con tante bande in altri posti, sempre con noti interpreti del jazz europeo. In più abbiamo ricevuto importanti impulsi dal giornalista radiofonico Achim Hebgen della SWR Radio di Baden Baden che era fortemente involto in questa musica. In fondo non si tratta più di jazz nel suo significato originale.

D Molti ormai gridano alla morte della musica impegnata e/o sperimentale: ma esiste ancora la politica e/o l’avanguardia nelle musiche odierne?

R Quello che mi manca degli attuali movimenti politici è il suono della strada, la colonna sonora delle giovani generazioni e le sue aspirazioni. L’esplosione creativa degli anni Settanta non può ovviamente essere ripetuta a piacimento.

D Mi dici dunque che “Si può forse desiderare l’avanguardia, ma non la si può organizzare”?

R La musica contemporanea classica ha preteso di essere l’avanguardia istituzionalizzata per oltre 100 anni. L’intero business della musica contemporanea (musicisti, accademie, promotori e media) si muove dietro questa pretesa. Ci saranno sempre persone che sperimentano e non si lasciano guidare dal mainstream. In nessun altro luogo si può creare qualcosa di nuovo con così poco sforzo come nella musica. Un tempo esisteva il mito della “garage band”. Si trattava di gruppi musicali che avevano il tempo di svilupparsi in modo “underground”, senza essere osservati dallo sfruttamento dei media. Oggi vedo una giovane generazione nel pop sperimentale e nella musica elettronica che ha il coraggio di sviluppare le proprie idee e di provare cose nuove. Il jazz, invece, soffre di un certo accademismo. Ci sono molti bravi musicisti, ma a causa dell’etichetta “jazz” c’è anche una certa limitazione nelle possibilità di espressione. Altrimenti non sarebbe più jazz.

D Cosa distingue appunto l’approccio alla musica di americani e afroamericani da noi europei?

R Non posso dare una risposta qualificata a questa domanda senza invocare luoghi comuni come la supremazia del blues, che in Europa non conoscevamo prima del jazz. Una differenza che potrei citare è che in Germania, Austria e Svizzera in particolare, la concezione borghese della musica è fortemente caratterizzata dalla musica classica europea di tutte le epoche. In America, il jazz ha sempre avuto un’accettazione completamente diversa. A volte forse manca solo un nome indipendente per affermare uno stile e rendere così possibile uno sviluppo sostenibile. In ogni caso, “jazz europeo” non è un termine adatto a questa musica.

D Ma la musica, secondo te, deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?

R La musica non è mai nel vuoto. Non c’è musica che non sia in qualche modo collegata a pensieri o sentimenti non musicali. Altrimenti i gusti non sarebbero così fondamentalmente diversi, soprattutto nella musica. Non deve sempre trattarsi di politica. Purtroppo, questa connotazione è troppo spesso corrotta. Esiste solo in apparenza, è commercializzata da chi la fa o la “produce”.

D Come vivi tu la musica in Svizzera anche in rapporto alle tue esperienze sul territorio?

R La Svizzera è un paese piccolo. Si ha una visione d’insieme relativamente veloce, ci si conosce e si seguono gli sviluppi da vicino ai protagonisti. Anche qui non è un paradiso. Ma ci sono molte buone iniziative, festival e luoghi in cui le cose stanno accadendo. Lo scambio tra le regioni linguistiche potrebbe essere un po’ più intenso, così come quello con i Paesi vicini, compresa la scena italiana o almeno le regioni di confine del Nord Italia.

D Cosa pensi tu dell’attuale situazione – governo Meloni – in cui versa la cultura italiana (di cui la musica ovviamente fa parte da anni?

R In Svizzera non notiamo nulla di tutto questo. Tutto ciò che sentiamo dire dall’estero è che in Italia è molto più difficile per gli artisti creativi sopravvivere. In Svizzera o in parte anche in Germania ed Austria la vita dei musicisti professionali mi sembra meno complicata.

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