Chris Potter Quartet. Casa del jazz, 16 luglio 2024. L’indecifrabilità delle emozioni in musica

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Chris Potter

// di Marcello Marinelli //

«La somma fa sempre il totale?» Citando una frase celebre dell’indimenticabile Totò, non riesco a sciogliere l’enigma rispetto al disco e al concerto del grande sassofonista, anzi azzardo una risposta, «la somma non fa sempre il totale». Un quartetto all stars: il leader Chris Potter al sax e al clarinetto basso, Brad Mehldau al pianoforte, John Patitucci al contrabbasso e Johnathan Blake alla batteria. Il repertorio del quartetto è tratto dall’ultimo album «Eagle’s point»; nel disco il batterista è Brian Blade. Ogni volta che vado alla casa del jazz non riesco a non pensare al luogo simbolo del jazz della capitale, ovvero che apparteneva al cassiere della banda della Magliana e di conseguenza alla potenza della banda criminale. Una residenza sontuosa nel cuore di Roma dove si svolge il festival estivo con tanto di maxi-palco, capienza massima 1500 spettatori, tanto per rendere l’idea a chi nella casa del jazz non ci è mai andato, con villa centrale e due ‘dependance’, di cui una è un ristorante all’interno del grande parco.

Tornando alla musica di Chris Potter del suo ultimo quartetto stellare, ascolto il disco, e di primo acchito, l’impressione è deludente rispetto al blasone dei nomi dei componenti del quartetto. Forse le aspettative erano alte, perché i singoli musicisti sono dei maestri nei loro rispettivi strumenti e leader di progetti autonomi. Il primo ascolto mi lascia indifferente. Visto che un nuovo lavoro non sempre piace al primo impatto, passo a un secondo ascolto e poi a un terzo, ma nelle mie orecchie il disco non decolla, rimane impantanato nella assenza di stimoli positivi, l’ascolto prosegue senza scossoni, rimane una fruizione a livello superficiale, non mi entra nelle vene. Un disco normale a dispetto dei nomi e non particolarmente seducente. Il pezzo più coinvolgente rimane la ballad «Aria for Anna» con Brad Mehldau in bella evidenza che accompagna con eleganza il leader ritagliandosi un assolo ispirato, a tratti in solitudine, un bagliore. Intendiamoci non è un pessimo disco, è un album che procede senza sussulti, e io questi sussulti me l’aspettavo. È vero, altresì, che è difficile sobbalzare dalla sedia dopo tanto jazz del passato, con un disco contemporaneo, ma confido sempre nei sobbalzi. Anche «Other Plans» si erge sopra la media con il contrabbasso di John Patitucci che si esibisce in un bel solo e con il resto della band a supporto. La classe dei musicisti sopperisce a quel qualcosa che manca nel progetto, non saprei precisamente cosa, forse i temi non particolarmente efficaci o forse la difficoltà a creare il famoso interplay senza un lavoro continuativo tra i musicisti. Si sente la professionalità e la bravura dei singoli che però non fa di questa bravura un disco di alto livello. Forse è un disco bellissimo e io non trovo le chiavi per decifrarlo, forse dipende da me, non lo so. Non sono allineato con i pianeti e con questo album.

Vedo nel cartellone della rassegna estiva alla casa del jazz che si esibirà il quartetto di Chris Potter. Decido di andare con un mio amico per vedere se le impressioni non buone che ho avuto del disco sono confermate o smentite dall’ascolto dal vivo, l’occasione è ghiotta per capirne di più. A volte mi è capitato che mi sono piaciuti concerti di musicisti che magari non mi avevano impressionato su disco o viceversa, dischi belli che non hanno avuto un corrispettivo dal vivo. Avviso Emilio, il mio compagno della serata dicendo che il disco non mi era piaciuto, ma i musicisti sono talmente di spessore che vale la pena comunque tentare. Arriviamo e c’è il pubblico delle grandi occasioni, tutto esaurito. L’atmosfera del luogo è sempre affascinante e mi predispongo all’ascolto senza pregiudizi. Dalle prime note, però, le impressioni che ho avuto nell’ascoltare il disco non cambiano durante l’ascolto del concerto. Mi sembra che nel progetto ci sia qualcosa di incompiuto, di non esaltante, di sospeso che mi lascia indifferente, quello che manca non è la bravura dei musicisti, che non si discute, ma manca l’emozione e senza emozione il virtuosismo e il pedigree non sono sufficienti: a me non bastano. Mi annoio e mi distraggo, il concerto va avanti come il disco, senza lampi e ho necessità dei lampi, ho necessità di colmare il vuoto di emozioni, ma questo vuoto non viene colmato. Certo le emozioni sono cosa rara e non sempre è facile trovarle, mi domando il perché. Non c’è risposta a questa domanda e allora mi abbandono alla fruizione senza troppe congetture mentali o elucubrazioni intellettuali, il concerto non mi piace e ne prendo atto. Non stavamo vicinissimi al palco e magari, in certi concerti, è necessario stare a ridosso del palco e magari la lontananza influisce nelle impressioni estetiche. Nel bis ci muoviamo dalla nostra postazione e andiamo sotto il palco ad ascoltare l’ultimo pezzo della serata. Bello non c’è che dire e, se la memoria non mi inganna, un pezzo non presente nel disco, suonato divinamente, ma troppo poco, decisamente troppo poco. Ce ne andiamo delusi, ma la delusione fa parte della vita, e non è certo la prima volta che accade a un concerto. Mentre scrivo, sto ascoltando di nuovo il disco, la conclusione, citando Riccardo Cocciante, è sempre la stessa; «Bella senz’anima», e l’anima, prima o poi, farà di nuovo capolino.

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