Jacques Siron o la musica improvvisata. Storica intervista al contrabbassista svizzero
Quest’intervista inedita – e solo in parte utilizzata in alcune dispense universitarie – risale a vent’anni fa esatti (2004) ma conserva ancora il fascino dell’attualità, sia per le risposte fornire sia per una situazione ferma per molti versi ai giorni di questa lunga chiacchierata.
// di Guido Michelone //
Jacques Siron, svizzero, nato il 16 novembre 1949 a Ginevra, lavora nel jazz quale contrabbassista e nel cinema alla regia, ma è celebre anche come studiosograzie a un trittico di volumi usciti tutti in francese per la pariginaOutre Mesure, tra il 1992 e il 2002: La Partition intérieure, Bases, des mots aux sons e soprattutto Dictionnaire des mots de la musique, che vantga due edizioni e che risulta ancor oggi molto noto ai colleghi che studiano i linguaggi sonori in tutti i loro aspetti. Siron da giovanissimo s’avvicina al pianoforte e violoncello, e al contempo ottiene la Laurea in medicina. In seguito opta per il contrabbasso classico studiandolo al Conservatorio di Losanna; si considera musicista professionista dal 1975, allorché si dedica prevalentemente al free jazz e alla musica improvvisata. Dapprima lavora in numerosi gruppi nella Svizzera romanda, ad esempio con Charles Schneider, Michel Bastet, René Bottlang e Jacques Demierre; nella Svizzera tedesca collabora concon Urs Blöchlinger, Hans Kennel, Uli Scherer, Hans Koch, Martin Schütz, Dorothea Schürch, Daniel Mouthon, Christy Doran e Alfred Zimmerlin. Con Christoph Baumann dirige le avnt-band AfroGarage (con Dieter Ulrich) e Nuit Balte (con Petras Vyšniauskas). Ma Jacques è attivo anche in Francia, dove si esibisce con musicisti del giro ARFI lionese François Raulin, Jean Méreu, Jean-Paul Autin, Yves Robert e Louis Sclavis, senza dimenticare Serge Lazarévitch, Jean-François Canape e Zool Fleischer e Lionel Benhamou. All’estero improvvisa jazz sperimentale con Vjatcheslaw Ganelin, Anatoly Vapirov, Theo Jörgensmann, Nils Wogram, Archie Shepp, Vinny Golia e Steve Lacy, compiendo via via viaggi e tournée in tutta Europa (Unione Sovietica compresa) in Africa e in India. Da compositore Siron scrive inoltre brani per l’ottetto Les Passeurs d’Instants, canzoni per Yvette Théraulaz, colonne sonore per i film di Guy Milliard o per le sue pellicole da quando emerge come regista con i titoli Pane per tutti (2002) e Tebe all’ombra della tomba (2008). La discografia è particolarmente densa nel ventennio 1979-199 con album come Viva la Musica (VDE 1979), SMAC (UTR 1985), Rouge, Frisé et Acide (Leo Records 1988), Les Passeurs d’Instants (PL CD 1992), Notes pour un Opéra (PL CD 1994), Nuit Balte (UTR CD 1994), Habarigani Brass (hat ART CD 1995), All There Was (Altrisuoni 1998), Rouge, frisé & acide 7 (UTR 1999).
D La Svizzera e il jazz: una domanda difficile?
R In Svizzera si può osservare una grande varietà di culture e generi sonori, ma pochi progetti a livello nazionale. Ma alcuni musicisti viaggiano attraverso i generi locali. E viaggiano anche fuori dal paese. Per quanto riguarda la mia esperienza personale, traggo grande beneficio, a livello artistico e umano, dalle contraddizioni e dalle tensioni che esistono tra le diverse regioni svizzere: il mix è molto dinamico. Oggi, nel complesso, c’è meno lavoro per un improvvisatore rispetto al periodo dagli anni Cinquanta agli Ottanta; Willisau occupa un posto importante tra i festival, così come quelli di Zurigo, Ginevra e Losanna.
D Non ti consideri un jazzista…
R Sono un artista multimediale. Fondamentalmente sono un contrabbassista jazz e classico. Attualmente però non suono più musica sinfonica e non suono quasi mai standard jazz. Utilizzo sempre di più la voce, cantata o parlata, con o senza contrabbasso. L’essenza della mia produzione musicale è da un lato la musica completamente improvvisata (spesso con partner che conosco molto bene), dall’altro i legami tra l’improvvisazione e la musica che compongo o che compongono i miei collaboratori. Mi piace però anche mescolare la musica con altri mezzi espressivi, che possono essere il teatro, la danza, l’elettroacustica, la poesia, le arti plastiche, i fuochi d’artificio, eccetera.
D Come lavori in questo senso?
R Recentemente ho realizzato un film muto sulla città di Roma intitolato Pane per tutti. È uno spettacolo che mescola immagini con musica dal vivo. Ho organizzato e in parte scritto questa musica con il pianista argentino Christoph Baumann, coautore del progetto, per un gruppo di cui fa parte anche il batterista zurighese Dieter Ulrich, oltre a due musicisti italiani, la cantante Lucilla Galeazzi e il polistrumentista Gianluigi Trovesi . Collaboro anche con un attore, Vincent Aubert, che cercherà, insieme a noi, di ridurre i confini tra teatro e musica. Recentemente abbiamo invitato il pubblico a seguirci e a partecipare alla nostra visita musico-teatrale al Museo Etnografico di Ginevra.
D Un’altra delle tue attività è il lavoro sia scientifico sia autobiografico: scrivere di musica, parlare di musica…
R Infatti, The Interior Score (non ancora tradotto in Italia) è diventato un’opera di riferimento in francese per il jazz e per la musica improvvisata. Sto anche lavorando a una nuova edizione, molto più aggiornata e arricchita, del mio Dizionario dei termini musicali (altro testo vergognosamente assente nell’edizione italiana) che comprende tra l’altro la traduzione in inglese, italiano e tedesco di diversi termini. Per me arte, scienza e tecnologia hanno molto da comunicare tra loro. Soffriamo nella nostra cultura industriale occidentale per aver suddiviso troppo queste attività, con grande efficienza per aree specifiche, ma con estrema delusione quando si deve fare la sintesi o quando tutti questi piccoli settori devono essere raggruppati insieme. A un livello molto più personale, penso che dovremmo cercare di riunire e connettere attività emotive, intellettuali, intuitive e motorie, di connettere azione e riflessione, forma e contenuto, abilità e profondità, senza dimenticare né il piacere né l’umorismo. La musica è un campo eccezionale in questo senso!
D La musica improvvisata in particolare ha un presente e, soprattutto, un futuro?
R La musica improvvisa mantiene un rapporto di prossimità e di conflitto con il jazz borghese, la tipologia dominante. In Svizzera – la musica improvvisata è particolarmente attiva nei cantoni tedeschi – sta prendendo sempre più spazio anche nei conservatori e nelle scuole di musica. Quando parliamo di “musica improvvisata” non facciamo altro che scoprire un territorio molto vasto, tutto da esplorare. Purtroppo molti hanno un’esperienza molto limitata di questa musica, un’immagine distorta o luoghi comuni attorno alla libertà degli anni Sessanta: da allora molte cose sono cambiate e altre continuano a evolversi. Prima i musicisti classici mi dicevano con molta condiscendenza: “Da giovane suonavo anche jazz”, mentre ora sono i jazzisti a dirmi “Da giovane suonavo anche gratis”. Abbiamo avuto l’opportunità in Europa e in Svizzera di avere spazi mentali per ricercare autentici percorsi espressivi, utilizzando la tradizione non come modello da imitare in modo servile, da clonare o da rendere più virtuoso, ma come un flusso di energia che prova a darci il coraggio di andare oltre. Questi movimenti esistono anche negli Stati Uniti, ma ne sappiamo poco, non sono una fonte di reddito per le grandi case discografiche e i grandi circuiti commerciali, che hanno già troppo colonizzato il jazz. È più redditizio ristampare un disco degli anni Quaranta su CD piuttosto che cercare un giovane musicista che abbia davvero qualcosa da dire.
D Quindi il problema è “politico”, come diceva il Sessantotto?
R Ma non sono i soldi a dettare le regole del gioco! E le abitudini pesano! È più facile riconoscere ciò che è già noto che rischiare di ascoltare il nuovo o ascoltare in modo diverso ciò che è noto da molto tempo. I critici dovrebbero apprezzare l’importanza del loro ruolo nel mantenere viva la musica. Le scuole di jazz dovrebbero incoraggiare chi osa. Gli organizzatori di concerti devono ascoltare i movimenti musicali e non pensare solo a riempire i locali (non si tratta di svuotarli, ma di portare la musica con prospettive più ampie). I musicisti dovrebbero osare, osare, osare! Jazz è solo una mummia, le cui bende vanno cambiate ogni dieci anni. Lo spirito creativo, la fantasia, la curiosità, la freschezza e la vita seguono la propria strada, con o senza jazz, con o senza musica improvvisata. In questo senso cerco ogni giorno di continuare a creare, cerco di vivere bene, di trasmettere questa energia al pubblico e alle generazioni future.