// di Gianluca Giorgi //

Asher Gamedze, Turbulence & Pulse (2LP 2023)

Questo secondo album di Gamedze, segue l’ottimo debutto «Dialectic Soul» (2020) e sebbene inizialmente autoprodotto come il primo, con l’etichetta di Johannesburg Mushroom Hour Half Hour, viene riproposto dall’etichetta americana International Anthem, etichetta con cui Gamedze aveva già collaborato in diversi lavori (Angel Bat Dawid). Il disco è una sorta di continuazione del primo, tanto che Gamedze è di nuovo affiancato dallo stesso quartetto di musicisti sudafricani: Thembinkosi Mavimbela (basso), Robin Fassie (tromba) e Buddy Wells (sax tenore). Il quartetto pianoless va dritto al cuore della musica senza troppi fronzoli contenendo in sé ampi riferimenti alla tradizione, Roach e Mingus sopra tutti, ben assorbiti e storicizzati, non necessariamente con riferimento all’esperienza del jazz sudafricano, alla quale appartiene veramente solo il pezzo tradizionale Alibama. Il titolo dell’album trae la propria origine da un commento fatto dal poeta e studioso Fred Moten rispetto allo stile batteristico di Gamedze, descritto come in equilibrio «between turbulence and pulse», un elemento fondamentale dell’approccio percussivo nella musica nera più in generale, come ha aggiunto anche lo stesso Moten. Con questo lavoro il batterista di Città del Capo, in Sudafrica, Asher Gamedze esplora le relazioni di tempo tra musica e storia, ma all’interno troviamo anche una forte interazione fra musica e politica. Gamedze traccia infatti un parallelo tra il tempo-ritmico, quello innescato dal batterista mettendo in relazione i movimenti pulsanti delle manie la turbolenza sonora che ne deriva, col tempo-storico dettato dal Capitale che decide le ripartizioni tra le scansioni temporali di lavoro e di ore libere, con il conseguente effetto che queste decisioni possono avere sulla popolazione. Questa riflessione sembra non essere piaciuta alla stampa occidentale, come se il ripescaggio di questo binomio tra musica e politica avesse riacceso vecchie ideologie che si vorrebbero ora dimenticare, nel mondo del “politicamente corretto”. Comunque la musica contenuta porta anche un messaggio di liberazione. Il disco si sente che è l’opera di un batterista ma è fortemente ancorato anche al perno centrale del contrabbasso e comunque anche i fiati sono protagonisti di una bella performance, che giova all’equilibrio complessivo del disco. Il brano di apertura “Turbulence’s Pulse” funge da manifesto e anticipa ciò che può essere sentito nel disco: un’esplorazione groove multi-ritmico di una collezione di pezzi inizialmente composta da Gamedze al pianoforte. Il brano è una serrata dichiarazione d’intenti realizzata sotto forma di rap, che poi passa ad una formula declamatoria corale per cedere il passo alla voce solista di Otis, il tutto dona al brano un andamento che assomiglia stranamente ad una preghiera e forse, riferendosi alle tematiche sociali contenute, potrebbe anche esserlo, con il testo che ci ricorda che “…la Storia, il movimento del tempo storico, è prodotto dalle persone”.Un album piacevole, pieno di soul e forse più accessibile del precedente.

Sir Edward (Harold Vick), Power of Feeling (1973 ristampa 2022)

Originariamente pubblicato nel 1973 dall’effimera Encounter solo negli USA, etichetta che ha pubblicato una manciata di album, tutti ottimi, questo è l’unico e rarissimo album uscito a nome di Sir Edward, pseudonimo dietro il quale sembra si celasse il sassofonista Harold Vick. Inciso ai Venture Sound Studios di Somerville, New Jersey, da Harold Vick / Sir Edward (sassofoni, flauto), David Lee (batteria), Victor Gaskin (basso elettrico), Joe Bonner (piano elettrico Rhodes), Geoge Davis (chitarra, flauto), Jumma Santos (bongos) ed Omar Clay (vibrafono) nel periodo in cui Vick suonava con i Compost, formazione jazz rock di Jack DeJohnette, “The power of feeling” contiene sette brani di fluida e sinuosa fusione fra jazz melodico e funk, accessibile e scorrevole, ma anche elegante e raffinata, scandita da ritmiche funk con qualche leggero tocco afrocaraibico, a supporto di splendide melodie di flauto, sax e tastiera elettrica, sotto cui si dispiegano le elastiche partiture di chitarra wah wah tipicamente funk. Relativamente misconosciuto ma apprezzato dai colleghi nell’ambito jazz e soul (le leggende dell’Hammond Jack McDuff, Jimmy McGriff, Big John Patton e Larry Young, Philly Joe Jones, Howard McGhee, Donald Byrd, Dizzy Gillespie, King Curtis e Walter Bishop Jr.), Harold Vick (1936-1987) è stato un sassofonista in bilico fra bop e blues, realizzò una manciata di album solisti fra gli anni ’60 ed i ’70, ma suonò anche come apprezzato sideman, sia nel jazz strumentale che in quello vocale e finanche nel soul (accompagnò Ray Charles ed Areth Franklin, fra gli altri). La prima ristampa di questo disco di soul jazz assolutamente da non perdere, le copie originali vengono vendute per cifre a tre zeri. La musica è un mix funky di alcuni dei grandi brani soul dell’epoca, con versioni di Donny Hathaway e The Stylistics e un cenno agli stili CTI dell’epoca con un’ottima versione di “People Make The World Go Round”. Un pezzo perduto di jazz funk degli anni ’70!

Neil Ardley / Don Rendell / Ian Carr, Greek Variations & Other Aegean Exercises (1970 ristampa 2024)

Originariamente pubblicato nel 1970 dalla Columbia nel Regno Unito, questo è il primo e leggendario album solista di Neil Ardley, precedente “A symphony of amranths” (1972). Il disco è stato inciso nel 1969 con un folto cast di strumentisti che includeva il meglio della nuova generazione jazz britannica, fra cui Barbara Thompson (sax alto, sax soprano, flauto, presente in un brano), John Marshall e Trevor Tomkins (che si alternano nel ruolo di batterista), Jeff Clyne e Neville Whitehead (al contrabbasso), c’è persino qualche talentuoso musicista rock come l’ex Cream Jack Bruce (basso elettrico e contrabbasso nel primo brano) e Chris Spedding (alla chitarra in tre brani). Neil Ardley è considerato come uno dei massimi esponenti del jazz progressive britannico ma è stato anche autore di libri, raffinato intellettuale, le sue partiture tastieristiche sono tra le migliori e più originali tra quelle prodotte dalla musica inglese negli ultimi trent’anni. I suoi album, almeno fino al 1978, sono considerati indiscussi capolavori. Finita l’importante esperienza della New Jazz Orchestra, di cui era stato leader dal 1964, Ardley continuò a sfornare lavori di jazz creativo, a partire da questo rarissimo ed apprezzato “Greek variations and other aegean exercises” (1970). Il disco esce dopo la rottura del Don Rendell/Ian Carr Quintet, una delle principali forze del jazz britannico straight-ahead dal ’62 ed è un disco irresistibile, malgrado occorrano diversi ascolti per riuscire a percepire tutti i tesori nascosti al suo interno, una musica audacemente concepita e brillantemente eseguita. Da sottolineare la presenza, comunque, di Ian Carr (tromba, flicorno) e Don Rendell (sax soprano, sax tenore, flauto, clarinetto), già membri del Don Rendell/Ian Carr Quintet, due giganti del jazz inglese. L’album offre un raffinatissimo jazz che sposa misurati e poetici arrangiamenti di archi (la cui piccola sezione dona ad alcuni episodi quasi un tocco orchestrale) con una tromba dai toni notturni e dolenti, quella di Carr, dai richiami davisiani. Elemento di grande originalità è l’ispirazione dell’album, tratta da canzoni folk greche e da melodie elleniche, che vengono abilmente trasfigurate in chiave jazz. La prima metà del disco occupata dal brano “The Greek Variations”, una suite in sei parti basata su una melodia folk tradizionale greca, ha il compositore Neil Ardley che dirige un’orchestra da camera di quattordici pezzi con Rendell e Carr, oltre a un cast di supporto di ottimi musicisti britannici. La seconda metà presenta a sua volta un quintetto guidato da Carr e un quartetto guidato da Rendell, con suite più corte che mantengono comunque un sapore e un’atmosfera greca. Il risultato è un approccio completamente nuovo al jazz orchestrale composto/improvvisato.

DON CHERRY/ED BLACKWELL, El Corazon (ECM 1982)

Registrazione di riferimento per duo tromba/batteria. Sulla carta questa sembra una combinazione insolita ma non ci si pensa una volta che iniziano a suonare Don Cherry e Ed Blackwell, due vertici dell’avanguardia. Il trombettista, infatti, disegna una successione di melodie e stati d’animo intorno e sopra i ricchi dettagli strutturali di Blackwell il quale, a sua volta, ha un approccio abbastanza melodico alla batteria. Le melodie provengono dalla Spagna, dall’Africa, dalla Giamaica e dalle composizioni jazz moderne di Thelonious Monk, ma Don Cherry e Ed Blackwell le trasformano in una musica personale facendo di El Corazón uno degli album di duetto più impressionanti degli ultimi anni. Magico!

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