Non solo Jazz: Gino Soccio, uno sperimentatore di tutto rispetto
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Abbiamo voluto ricordare il musicista italo-canadese in occasione dei suoi quasi Settantanni. Soccio, nella memoria degli appassionati, è il rappresentante di un’epoca irripetibile, quando il divertimento corrispondeva esattamente al concetto di loisir, di happening collettivo e meno all’idea di sballo generazionale.
// di Francesco Cataldo Verrina /
Alla fine degli anni Settanta, la sperimentazione elettronica «bianca» trovò largo sfogo nella musica destinata alle piste da ballo, che andava progressivamente allontanando dal cliché afro-americano. Molti ingegneri del suono, specie quelli più adusi alle «rudimentali» tecnologie dell’epoca iniziarono a dirottare le istanze di un certo minimalismo rock-wave, vicino a talune correnti germaniche, sul modello Kaftwerk, verso un sound di più largo consumo, facilmente fruibile ed immediatamente redditizio come la dance music. Un modello che aveva già attecchito qualche anno prima grazie alla alle prodezze di Giorgio Moroder e di altri alfieri della disco music monacense.
Sicuramente il più protervo emulo di Giorgio Moroder, con le dovute proporzioni, fu Gino Soccio, un nome che fa pensare più allo Chef di un ristorante abruzzese. Un nome così italiano non rimandava immediatamente ad un abile ingegnere del suono, ad un manipolatore di ritmi elettronici ante-litteram, ma piuttosto ad un cantore di stornelli. Molti DJs dell’epoca, scimmiottando gli americani, lo chiamavano «Sossio». Come tutti i dance-makers, giunti dopo il fenomeno del travoltismo dilagante, si caratterizzava per una sorta di diversità, rispetto a tutti quelli che erano stati i precedenti filoni della disco, forse rappresenta una summa di tutto il vissuto precedente, sicuramente era già qualcos’altro rispetto agli standard della musica da discoteca anni Settanta. Il saper coniugare al contempo ritmiche elettro-funk e melodie di facile presa, proiettava Gino Soccio già negli anni Ottanta, anticipando quello che sarebbe stato, nelle stagioni a venire, un cliché assai caro soprattutto alla dance europea e perfino agli elettrodi sulfurei ed efebici della corrente britannica dei cosiddetti New Romantic. Ad onor del vero, in quello stesso periodo Soccio faceva il paio con un altro genius loci delle scena californiana, più vacanziera e rilassata ma, al contempo, più trasgressiva, tale Patrick Cowley – che molti rammenteranno come il produttore di Sylvester – il quale esasperava sovente le sue produzioni lavorando in velocità attraverso uno spropositato numero di BPM. Per contro le architetture sonore di Gino Soccio, apparivano più complesse e meno ripetitive di quelle di Cowley, offrendo una gamma timbrica e melodica assai più ricca di cromatismi e sfumature, nonché una modulazione dei tempi più umorale e variegata nel mood e nel numero di «colpi» al minuto, mentre nell’area newyorkese iniziava ad emergere un altro emulo moroderiano, di sangue italico, tale Bobby Orlando. Conosciuto come Bobby-O e considerato come uno degli ispiratori dell’Italo-Disco.
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Nato a Montreal nel 1955, con chiare ascendenze italiche, Gino iniziò a studiare il pianoforte all’età di otto anni. Ancora giovanissimo, incominciò a muovere i primi passi in veste di produttore, operando in Canada presso vari studi di registrazione del Quebec. Produttore, arrangiatore, ma anche compositore e poli-strumentista di talento, prima del riconoscimento internazionale, Soccio aveva inciso diversi album usando lo pseudonimo di Kebekeletrik. Perdutamente innamorato dell’elettronica e della sperimentazione, inizialmente più vicina al rock, subì presto il fascino dello stile di Cerrone e Moroder peraltro molto popolari in Canada, quindi alla fine degli anni 70 decise di debuttare in prima persona nel panorama della disco music, sfruttando l’onda lunga lasciata dalla «Febbre del Sabato Sera». Appena dato alle stampe, nella primavera del 1979, il suo primo album dance-oriented, «Outline», Gino Soccio si rivelò subito come un artista di forte impatto sulle piste da ballo, finendo in pasto alle classifiche di tutto il mondo. Il suo stile era caratterizzato dal massiccio uso di tastiere elettroniche, effettistica e sequencer unitamente a strumenti di tipo tradizionale, dove l’elemento percussivo risultava particolarmente accentuato. Con le dovute cautele, si potrebbe parlare di techno ante-litteram.
Tra i solchi di questo primo album diverse tracce presentavano lunghi tratti di sole percussioni: un esempio su tutti potrebbe essere «Dance To Dance». Il vero motore del successo di Gino Soccio, il brano che lo spinse ai vertici delle classifiche, fu il primo singolo «The Visitors» seguito a ruota dal non meno incisivo «Dancer». L’ anno seguente arrivò sul mercato mondiale il follow-up, «S-Beat», dal quale venne estratto un altro singolo, «Try it Out», anch’esso accolto con entusiasmo dalle piste da ballo. Seguiranno «Closer» (1981), «Face to Face» (1982) e «Remember» (1984). Gino Soccio aveva sempre avuto il pallino del produttore, così, quando le luci della ribalta personale iniziarono ad affievolirsi, mise la propria creatività al servizio di altri artisti, firmando dischi per Karen Silver, Witch Queen, Gotham Flasher, Guy Lafleur, Radia Frye e molti altri. Da segnalare anche la colonna sonora del film «Babe» di Buddy Hackett e le sue numerose collaborazioni con Grace Jones.
Gino Soccio è da considerarsi come uno dei musicisti più evoluti e proiettati verso un perenne mutamento, in un momento in cui la disco music viveva la sua fase di decadenza. Per la sua abilità in studio e per per l’innata capacità di allargare gli orizzonti musicali, sarebbe ingiusto e riduttivo, considerarlo soltanto alla stregua di un produttore di musica usa e getta o destinata al ballo. Non a caso alcune delle sue composizioni sono ancora molto suonate, campionate o rinverdite con sonorità più consone ai tempi. Volendo usare qualche metafora, potremmo dire che taluni generi vengono al mondo per «partenogenesi», ossia per una sorta di distacco evolutivo di un solo elemento «creatore», oltre che creativo: il rhythm and blues nasce per partenogenesi dal blues, così a loro volta il soul ed il funk sono sgusciati dal R&B. La disco, pur di matrice nera, fu il frutto di un concepimento e di un parto in piena regola. Come avvenne per il jazz o per primitivo rock degli anni ’50, la disco dei ’70 vide la luce, prendendo forma e colore grazie all’unione di almeno due, se non di un insieme di fattori genetici (o generanti).
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