// Gianni Morelenbaum Gualberto //
Per la personalità di Freddie Hubbard valeva e vale la definizione inglese di «larger than life», l’unica forse in grado di accogliere interamente il talento drammatico, il senso lirico, la showmanship, l’ego, la retorica declamatoria, l’esuberanza e le manifestazioni di un virtuosismo ammiccantemente fallico di uno fra i più notevoli solisti nella storia della musica improvvisata africano-americana. Pure, proprio quelle che si potrebbero facilmente definire le doti più apprezzabili di Hubbard sono le stesse ad averne fatto un sottovalutato, nonostante il suo contributo alla storia del post-bop rappresenti un lascito ben più che apprezzabile: l’esibizione, talvolta guascona, dei propri mezzi si è spesso sovrapposta a un pensiero musicale non meno sofisticato di quello di artisti a lui preferiti per complessità e modernità come Lee Morgan, Booker Little, Kenny Dorham o, successivamente, Woody Shaw. Hubbard è stato l’epitome dell’hard bop (per quanto egli rifiutasse l’etichetta: Vogliono sempre vendermi come un hard bopper) più «virile» e diretto, sennonché la sua opera ha non di rado mostrato di voler andare verso una diversa direzione: il bop ortodosso sembrava costringerlo in un contesto in fondo disagevole, persino ristretto.
Forse l’unico trombettista a possedere tutta la liquida qualità di un sassofonista, egli poteva vantare un’evidente naturalezza nel tradurre in strutture musicali un pensiero fortemente radicato nel Canone africano-americano: è plausibile ch’egli abbia nutrito l’idea, forse l’illusione (viste le critiche spesso ingenerose che hanno accompagnato molti fra i suoi principali lavori discografici a partire dagli anni Settanta), di tradurre nella concretezza dei suoni quel concetto di Jazz objectifies America cui spesso si riferisce Wynton Marsalis. Artista dalla sensibilità politica forte quanto poco nota, Hubbard ha cercato di superare i molti ghetti, per quanto estremamente creativi, in cui veniva rinchiusa la tradizione musicale africano-americana: cresciuto in un’epoca in cui le speranze cedevano velocemente il passo alla delusione, maturato in un contesto in cui la tradizione musicale africano-americana cercava di bilanciare l’attrazione intellettuale della modernità con il richiamo popolare dei talkative ancestors (come li definisce Farah Jasmine Griffin), Hubbard illustra a suo modo un’altra pagina della nutrita narrativa che documenta lo scontro fra creatività africana-americana ed establishment: l’emergere ulteriore, insomma, di un individuo che, attraverso l’arte, trasforma l’avversità in creazione estetica. Per dirla con Albert Murray, Hubbard sottolinea in modo estroverso il carattere inescapably mulatto della cultura americana, una tendenza che permea pressoché tutta la parte più significativa delle sue realizzazioni musicali, per la Blue Note come per la CTI. Hubbard mostra sin dagli esordi di voler essere «popolare», di volersi ergere a simbolo di una «negritude» prorompente di cui è capace di esplorare la complessità, rendendola al contempo «appetibile» (e invidiabile) sia al pubblico bianco che, soprattutto, agli africano-americani di tutti i ceti.
Che egli, d’altronde, non fosse semplicemente un eccellente interprete della tradizione ma un artista capace di allinearsi a linguaggi innovativi, è provato dalla sua partecipazione ad alcuni capisaldi della musica improvvisata: Ascension, Free Jazz, Out to Lunch!, Maiden Voyage e The Blues and The Abstract Truth. Ipotizzare che il suo penchant per un’estetica più «dialogante», venata di molteplici elementi tratti dalla tradizione africana-americana più popolare (così come esplicata dalla sua produzione per case discografiche come Atlantic, CTI e Columbia), sia stata solo una tappa maldestra di un percorso brutalmente commerciale, è travisare l’operato di un artista spesso in bilico tra auto-coscienza e naiveté, ma non così deprecabilmente categorizzabile. Può apparire curioso che uno strumentista così muscolare in apparenza si sia iniziato all’improvvisazione ascoltando i dischi del quartetto di Gerry Mulligan e Chet Baker: È stato il primo jazz che ho ascoltato… mandavo a prendere gli spartiti, quelli con Mulligan (Ira Gitler). In realtà, soprattutto nelle ballad, Hubbard ha per tutta la carriera dimostrato una sensibilità squisita, cui non sono stati certamente estranei modelli eterodossi, nonché un apprendistato basato anche sullo studio del mellophone e del corno francese. L’impatto di Dizzy Gillespie e di Clifford Brown (Mi lasciò stupefatto: mostrava una tale profondità. (…)Il suo suono era brillante e allo stesso tempo ampio; possedeva un tono profondo e caldo. Per molto tempo ho provato a suonare come Clifford) è però il più evidente in un approccio che con la maturità doveva assumere una forte originalità: Fu Dizzy il musicista in cui cercai di «entrare» per primo, lo studiai per un po’, solo sui dischi. Dizzy era un mostro. Chi può mai suonare così? Non riuscivo infatti ad attaccarmi così tanto al suo stile. Voglio dire, potevo ascoltarlo e apprezzarlo, ma il modo in cui suonava era unico; non si poteva nemmeno provare a suonare così. Poi ascoltai Miles e pensai che, be’, volevo suonare con più intensità di lui. Anche Miles aveva un modo di suonare molto individuale, che faceva parte del suo stile di vita; quindi non aveva senso imitarlo. Quindi ascoltai Clifford Brown. A quel tempo studiavo la tromba al Jordan Conservatory e le improvvisazioni di Clifford racchiudevano dettagli tecnici che avevo già studiato sui libri. Pensai allora che poteva essere un buon inizio per me e studiai Clifford per circa tre anni. È per questo che venni a New York, perché in un certo senso suonavo come Clifford. Perché Clifford era appena morto e Lee Morgan e Booker Little, all’epoca, suonavano molto come Clifford. Eravamo tre giovani musicisti che si trasferivano a New York quasi nello stesso momento. Bene, Lee era lì per primo; poi arrivai io, poi arrivò Booker Little. E oggi sono tutti e due morti. Ma fu molto bello: tre musicisti della stessa età, che scorrazzavano per New York, si ascoltavano, suonavano e imparavano gli uni dagli altri. Ma era sempre una sfida: «Ah, Lee Morgan viene a suonare. È meglio che ti prepari» — e dovevi esercitarti. Tutto questo ci teneva sempre sulla corda. Ma non era una cosa competitiva; era solo che avevamo tutti la stessa età e tutti noi amavamo Clifford Brown (Les Tomkins).
Un’iniziale esperienza con i fratelli Montgomery (The Montgomery Brothers And Five Others, Pacific Jazz 1240, 30 dicembre 1957), la creazione di un complesso nella natia Indianapolis, The Jazz Contemporaries, con James Spaulding e Larry Ridley, il trasferimento, nel 1958, a New York (dove divide inizialmente una stanza con Slide Hampton, poi con Eric Dolphy) rappresentano i primi passi di una carriera -iniziata come allievo di Max Woodbury, prima tromba della Indianapolis Symphony Orchestra e proseguita presso il Jordan Conservatory of Music alla Butler University- che, pur tra le molte e prevedibili difficoltà, prende un consistente avvio: «Così eccomi qui, che arrivo a New York dalla campagna; c’erano anche musicisti come Donald Byrd, Bill Hardman, Kenny Dorham. Un unico pensiero: «Come farò a farcela?» Perché il jazz non è così popolare, non lo è mai stato, in termini di guadagni e di popolarità. È come un tesoro nascosto, o qualcosa del genere. Mi ci vollero due anni per sfondare davvero. Arrivai a New York con un amico, con quaranta dollari in tasca e la valigia. All’inizio fu spaventoso, provenendo da una piccola città di corse automobilistiche come Indianapolis; fu un completo cambiamento di atmosfera. Andai a vivere nel Bronx per i primi sei mesi: non avevo mai visto una metropolitana in vita mia. Rimasi in casa un mese; non scendevo in strada, perché avevo visto persone accoltellarsi, spararsi, uccidersi a vicenda. Non potevo crederci. Venivo da una graziosa cittadina, dove dopo il tramonto si stava a chiacchierare all’aperto, in cortile e non si chiudeva a chiave la porta di casa. Quando finalmente decisi di uscire, andai a partecipare a una jam session ad Harlem, e c’erano così tanti musicisti che aspettavano di sedersi che mi ci volle un altro mese per essere ascoltato. E così erano passati due mesi. Ero abituato a suonare regolarmente a Indianapolis: Jimmy Spaulding e io avevamo un gruppo chiamato Jazz Contemporaries, lavoravamo quattro giorni alla settimana e guadagnavamo circa ottantacinque dollari alla settimana, che all’epoca era una cifra decente. Ma stare a New York per due mesi, non avere soldi e non avere la possibilità di suonare il mio strumento, era davvero una delusione. Quindi, dato che assomigliavo a Donald Byrd, mi diedero una tregua e mi lasciarono suonare. E iniziai a incontrare i musicisti che stavano facendo carriera, come Quincy e Art Blakey. È stato piuttosto emozionante. Ho trascorso tredici anni a New York. Ma durante quei due anni prima di registrar dovetti fare molte altre cose: lavori commerciali, balli, spettacoli. Mangiai pesce e patatine per un anno ad Harlem: cinquanta centesimi, un pasto. E vivevo in un abituro da non credere. Per fortuna mi hanno aiutarono a superare la crisi: a un certo punto stavo per arrendermi e tornare a casa. Quando arrivai a New York, ebbi parecchie disillusioni. Non era quello che mi aspettavo. Mi aspettavo che tutti quei musicisti che avevano fatto degli album fossero persone molto rispettate, che avessero belle macchine, belle case, conti in banca… che fossero ben sistemati. Guardavi un album e dicevi: «Wow, sta andando alla grande. È in giro per il mondo e tutto il resto…» E invece erano proprio loro a chiedermi soldi. Tipo: «Prestami un dollaro». E io dentro di me dicevo: «Aspetta un attimo. Questo è irreale». Voglio dire, un uomo che idolatravo. Dovetti trasferirmi a Brooklyn. Non potevo farcela a New York City, così andai in periferia. arrivai lì e creai il mio gruppo, rimasi a Brooklyn per un anno e mezzo; dopodiché le cose presero a muoversi. Partecipai a spettacoli televisivi, a pubblicità. Poi incontrai Quincy [Jones] ed egli mi fece partecipare a un sacco di cose. Perché lui suonava la tromba, vedi. (Les Tomkins)
Affascinato anche dal suono e dall’estetica davisiana, Hubbard incontra nel 1958 John Coltrane (Mi disse: «Perché non vieni da me e proviamo a fare un po’ di pratica insieme?». Sono quasi impazzito. Voglio dire, ecco un ragazzo di 20 anni che si esercitava con John Coltrane. Mi aiutò molto e facemmo diversi lavori insieme), con cui si esercita a lungo, cercando di tradurre alla tromba l’innovativo approccio strumentale del sassofonista (Mi esercito sempre con sassofonisti. Mi accorgo che quando si frequentano trombettisti si entra in competizione: chi riesce a suonare più forte e chi ha gli acuti migliori. Dopo che hai sviluppato il tuo stile, non vuoi entrare in questa roba, ti accorgi che non ha senso. Non potevo suonare «Il volo del calabrone» come Doc Severinsen. Non potevo suonare «pirotecnico» come Dizzy. Non potevo suonare elegantemente come Miles. Così cercai di trovare qualcosa per me stesso da tutti loro, e mi avviai da quel punto in poi). In altra occasione, Hubbard era ancora più chiaro: In quel periodo stavo cambiando il mio stile alla tromba. Cercavo di suonarla come un sassofono. Invece di dire «Dah, dah, du, du, di, di, di, do», dicevo «Diddly, do, du, do, dah, do, wham, bam, be», suonando più intervalli. E cercavo di farli come lunghe serie di glissando, come «run, da, dun, dun, da, lun, da, da, da, da, da, da, da, da», e i trombettisti questo allora non lo facevano. Egli partecipa alle sedute discografiche che daranno vita agli album coltraniani The Believer (10 gennaio e 26 dicembre 1958, pubblicato dalla Prestige nel 1963, PRLP 7292), Bahia (26 dicembre 1958, Prestige PR 7353) e Stardust (11 luglio e 26 dicembre 1958, pubblicato dalla Prestige a nome del trombettista e flicornista Wilbur Harden, PRLP 7268), esibendosi nella realizzazione di Do I Love You Because You’re Beautiful?, Something I Dreamed Last Night e Then I’ll Be Tired of You.
Il rapporto con Coltrane si consoliderà, portando ad una serie di incisioni storiche: Hubbard sarà presente, fra incisioni, ristampe e riprese, in The Coltrane Legacy(To Her Ladyship, 25 maggio 1961, Atlantic SD 1553), Africa Brass (Greensleeves, 23 maggio 1961, Impulse A6), Africa Brass vol. II (Song Of The Underground Railroad e Greensleeves/alt. take, 23 maggio 1961, Impulse AS 9273), The Mastery Of John Coltrane, Vol. 4 – TranÈs Modes (The Damned Don’t Cry e Africa/1st version, 23 maggio 1961, Impulse IZ 9361/2), Olé (25 maggio 1961, Atlantic LP 1373), Ascension (ed. 1 & 2, 28 giugno 1965, Impulse A 95 e AS 95). La veloce maturazione del trombettista è testimoniata da alcune incisioni come sideman: Go, a nome del contrabbassista Paul Chambers (2-3 febbraio, 1959, Vee Jay 1014, con Cannonball Adderley, Wynton Kelly, Philly Joe Jones o Jimmy Cobb), soprattutto Slide! Slide Hampton and His Horn of Plenty (1959, Strand SLS 1006, ristampa Fresh Sound FSR-CD 206) e Sister Salvation (15 febbraio 1960, Atlantic LP 1339, ristampa Collectables COL-CD-6173) ambedue a nome del trombonista Slide Hampton, i cui ottimi arrangiamenti esaltano un gruppo di strumentisti in cui Hubbard affianca artisti come George Coleman, Booker Little, Pete LaRoca, Bill Barber, Kiane Zawadi, Richard Williams e altri. Hubbard, appena ventiduenne, offre un eccellente contributo il 1° di aprile 1960 in Outward Bound (New Jazz NJLP 8236) a nome di Eric Dolphy, artista con cui il trombettista collaborerà in altre incisioni, occasioni per dimostrare la versatilità non solo di un eccellente strumentista ma anche di un intuito fuori del comune nel decifrare le potenzialità espressive di linguaggi all’epoca affatto sperimentali: Twins (21 dicembre 1960, Atlantic SD 1588) e Free Jazz (21 dicembre 1960, Atlantic LP 1364) di Ornette Coleman, The Blues And The Abstract Truth (23 febbraio 1961, Impulse A 5) di Oliver Nelson, Africa Brass e Olé di John Coltrane, The Body and the Soul (8 e 11 marzo, 2 maggio 1963, Impulse A 38) dello stesso Hubbard e, finalmente, Out to Lunch! (25 febbraio 1964, Blue Note BLP 4163), una fra le prove più alte dell’arte del trombettista, che nell’estetica dolphyana mostra di trovarsi completamente a suo agio, piegando tecnica, intelligenza armonica e capacità ritmica ai dettami angolari di un approccio innovativo, contribuendo a realizzare una delle pagine più significative del post-bop.
Come ha scritto Dave Douglas: «La gioia e la libertà del suo modo di suonare derivavano in parte da questa completa padronanza dello strumento. Sembrava fare tutto sempre senza sforzo. Nella gamma degli acuti il suo controllo dell’aria era così sublime che le sue linee a volte sfidavano le leggi della fisica e dell’armonia, risolvendosi in modi peculiare proprio a causa del totale dominio dello strumento. Freddie coglieva l’opportunità di quelle diteggiature alternate per entrare e uscire da idee di accordi e scale cromatiche. Il suo attacco era sempre preciso e le sue linee inquiete e sfreccianti scorrevano come l’acqua in un canale». Poco tempo prima di incidere il primo album a suo nome Hubbard è di nuovo in sala di incisione: il 2 aprile 1960 registra quattro brani pubblicati a nome del batterista Charli Persip (Charlie Persip And The Jazz Statesmen, Bethlehem BCP 6046). Il 19 giugno dello stesso anno, l’esordio da leader, fulminante per un artista così giovane: Open Sesame, per la Blue Note, a capo di un gruppo che comprende il sottovalutato tenorista Tina Brooks (autore di due brani, Open Sesame e Gypsy Blue), il pianista McCoy Tyner (alle soglie del sodalizio con John Coltrane), il contrabbassista Sam Jones (allora il musicista più noto del gruppo) e un altro sottovalutato, il batterista Clifford Jarvis. L’attacco netto e potente, la sonorità spavaldamente squillante, i mezzi tecnici notevolissimi sono tutti in risalto, ma -in But Beautiful– anche la morbidezza di accenti e l’eloquio raffinato quanto espressivo che contraddistingueranno l’interprete di ballad. Circa due mesi dopo Hubbard affianca Tina Brooks (con Duke Jordan, Sam Jones e Art Taylor) in un’incisione a nome del sassofonista (True Blue, Blue Note BLP 4041), un partner ideale per il trombettista, cui lo lega lo stesso penchant per un hard bop complesso, dalle venature funky e latinoamericane, e illuminato da improvvisi, intensi squarci di lirismo. Nel frattempo, la sua carriera, che aveva conosciuto le già citate collaborazioni con Wayne Shorter, Philly Joe Jones, John Coltrane, Sonny Rollins (una tournée di due mesi circa, nel 1959) si arricchisce dell’incontro con J. J. Johnson, con cui Hubbard incide l’eccellente J. J. Inc., un album per la Columbia (CS 8406) che lo vede affiancarsi anche a Clifford Jordan, Cedar Walton, Arthur Harper e Albert “Tootie” Heath, e che rappresenta (grazie anche al talento compositivo di Johnson) un’altra tappa nella messa a punto di un’estetica hard bop di alto livello tecnico e di grande versatilità espressiva.
Sempre più richiesto, Hubbard partecipa ad un’altra seduta discografica, il 19 settembre 1960, a nome del tenorista Walter Benton, con Wynton Kelly, Paul Chambers, Jimmy Cobb (Out of This World, Jazzland JLP 928), prima di realizzare un secondo album come leader. Goin’ Up (6 novembre 1960, Blue Note BST 84056) vanta una line up come sempre di notevole livello, con Hank Mobley (che Hubbard affiancherà, una settimana dopo, in Roll Call, Blue Note BN 4058) al sassofono tenore, McCoy Tyner al pianoforte, Paul Chambers al contrabbasso e Philly Joe Jones alla batteria: in pochi mesi il trombettista appare ulteriormente maturato, in certi momenti (si ascolti The Changing Scene) sembra persino stupefatto, colto da timor panico di fronte alla ricchezza straripante dei propri mezzi tecnici e delle idee che paiono accavallarsi tumultuosamente, ansiose di esprimersi. Da poche settimane il trombettista fa parte dell’orchestra di Quincy Jones, con cui presto si esibirà in Europa, in uno sfortunato spettacolo musicale di Harold Arlen intitolato Free and Easy. Con i diciotto musicisti, fra americani ed europei, dopo la chiusura dello spettacolo nel febbraio 1961, Jones compie una lunga tournée europea (in parte testimoniata da un’incisione della Ancha, Quincy Jones Free and Easy, Live in Sweden, 1960 e da una della Mercury, The Great Wide World of Quincy Jones: Live!, realizzata il 10 marzo 1961), che si chiude negli Stati Uniti. A marzo Hubbard abbandona, dopo avere collaborato anche con il pianista accademico Friedrich Gulda, con cui nel 1965 inciderà Music for 4 Soloists and Band, a fianco di J. J. Johnson, Sahib Shihab, Ron Carter, Mel Lewis, Kenny Wheeler, Rolf Kühn e altri ancora. Nel corso di questo periodo prosegue un’attività discografica cospicua, di rilevanza innegabile; con la Blue Note partecipa a più incisioni: la già citata Roll Call di Hank Mobley (13 novembre, 1960, BN 4058), Undercurrent di Kenny Drew (11 dicembre 1960, BN 4059), Bluesnik di Jackie McLean (8 gennaio 1961, BN 4067), tutte registrazioni di notevole riuscita.
È al di fuori della Blue Note, però, che offre un saggio notevole della sua bravura, partecipando a realizzazioni come Uhuru Afrika di Randy Weston (17 e 18 novembre 1960, Roulette SR 65001), Boss of Soul Stream Trombone di Curtis Fuller (dicembre 1960, Warwick 2038, in cui sono proprio gli assolo di Hubbard a rappresentare il meglio di un’incisione altrimenti trascurabile) ma, soprattutto, Free Jazz di Ornette Coleman e, ancora di più, The Blues and The Abstract Truth di Oliver Nelson, in cui gli esuberanti, tecnicamente superbi contributi del trombettista -fra i suoi più intelligenti e affascinanti, in bilico fra angolosa euforia e straordinaria bellezza melodica- vengono sfruttati al meglio dai disciplinati, sofisticati e inventivi arrangiamenti di Nelson, che non di rado giocano, in un susseguirsi e ammontarsi di tensioni, anche sui contrasti fra le diverse sonorità e i diversi approcci dello stesso Hubbard (da notare il suo uso del vibrato) e di Eric Dolphy. Il 1961 è un anno determinante per la carriera e soprattutto per la maturazione di Hubbard: in quell’anno egli collabora ad alcune fondamentali creazioni di John Coltrane, realizza altre incisioni (con Dexter Gordon, Jimmy Heath, Quincy Jones, Wayne Shorter, Duke Pearson), continua la propria attività discografica come leader (Hub Cup, 9 aprile 1961, Blue Note BN 4073), firma un vero e proprio capolavoro a suo nome (Ready for Freddie, 21 agosto 1961, Blue Note BN 4085), soprattutto sostituisce Lee Morgan nei Jazz Messengers di Art Blakey, gruppo con cui, fino al 1964, realizza alcune eccellenti incisioni (Mosaic, Buhaina’s Delight, Free For All, Three Blind Mice, tutte per la Blue Note, nonché Caravan, Ugetsu, Golden Boy, Kyoto, Soul Finger) e nel quale allaccia un significativo rapporto creativo con Wayne Shorter (già anticipato con la sua partecipazione all’album Wayning Moments, 2 e 6 novembre 1961, Vee Jay 3029) e Curtis Fuller.
Già in Hub Cup emerge non solo lo strumentista virtuoso, in grado di primeggiare per facilità e ricchezza di idee rispetto a musicisti di provato valore come il sassofonista Jimmy Heath e il trombonista Julian Priester, ma pure un compositore tutt’altro che banale (quattro delle sei composizioni sono a sua firma, oltre a Plexus, la prima composizione del pianista Cedar Walton a essere incisa, e Cry Me Not, a firma di Randy Weston), un tratto ancora più evidente in Ready for Freddie, lavoro in cui Hubbard firma pagine di grande interesse come Arietis, Crisis, Byrdlike (dedicata al trombettista Donald Byrd ed in cui Hubbard crea un’inventiva successione di diciannove chorus), che si rivelano oltretutto ingegnosamente concepite per offrire linfa ai diversi solisti, in questo caso McCoy Tyner e Wayne Shorter, oltre a Bernard McKinney, Art Davis e Elvin Jones. Dal 1961 Hubbard si afferma, viste le alterne vicende di Lee Morgan e la morte di Booker Little, come il trombettista di riferimento dello hard bop, voce assai personale in grado di elaborare con originalità la (solo) apparente semplicità dell’approccio modale all’improvvisazione delineato da autori come Miles Davis e John Coltrane. Significativamente, è proprio a Coltrane, dunque a un sassofonista, che Hubbard fa specifico riferimento nell’articolare la propria estetica improvvisativa: Per quello che posso esprimere a parole, la strada che mi interessa di più è quella di Coltrane. Alludo ai diversi modi di interpretare i «changes» in modo da ottenere un più vario gioco di colori capace di definire le emozioni che tali colori rivelano. (Nat Hentoff). Nel 1962, nelle pause fra le varie tournée con Art Blakey, Hubbard afferma ulteriormente la sua personalità: incide con Jimmy Heath (Triple Threat, Riverside RLP 9400), Benny Golson (Pop+Jazz=Swing, Audio Fidelity 3P-AFSD 5978), Slide Hampton (Drum Suite, Epic BA 17030), Curtis Fuller (Cabin in The Sky, Impulse! AS-22), soprattutto partecipa a lavori estremamente significativi come Takin’ Off (Blue Note ST-84109) di Herbie Hancock -al debutto come leader- e Interplay (Riverside, RS 9445) di Bill Evans, una delle pagine più brillantemente boppistiche del pianista ed in cui Hubbard si dimostra in grado di dominare una naturale irruenza, esibendo uno spiccato talento poetico di cui sottolinea il lirismo con un uso particolarmente espressivo della sordina.
Per la Blue Note firma incisioni come Hub-Tones (10 ottobre 1962, BN4115) e Here To Stay (27 dicembre 1962, BN4135, pubblicato molti anni dopo, nel 1986). In Hub-Tones (in cui brillano anche James Spaulding, Herbie Hancock, Reggie Workman e Clifford Jarvis) è sempre più evidente una maestria compositiva e timbrica (si noti ancora l’uso della sordina in Prophet Jennings) cui le abituali formulazioni dello hard bop risultano costrittive e disagevoli: lo provano pagine come Hub Tones e Lament for Booker; così come Here To Stay (con Wayne Shorter, Cedar Walton, Reggie Workman, Philly Joe Jones e con il contributo compositivo -in Assunta e Father and Son– di un sottovalutato come Cal Massey), lavoro in cui, oltre alle capacità autoriali di Hubbard (Philly Mignon, Nostrand and Fulton) emerge con ancora più nettezza la sua maestria interpretativa nelle ballad, l’intensità poetica di un lirismo capace d’introspezione e costantemente legato al blues, come prova un’interessante lettura di Body and Soul. È negli anni Sessanta, perciò, che si forma e si articola il pensiero musicale di Hubbard, che a quel periodo rimarrà inestricabilmente legato, anche nei momenti in cui più sembrerà attratto da altri modi espressivi e da altre commistioni linguistiche. Egli, d’altronde, è stato un campione, peraltro fra i più fecondi, dello hard bop al massimo delle possibilità e capacità estetiche, soprattutto nel punto più alto e avanzato del suo disegno estetico: l’approfondimento delle tecniche modali porta ad una maggiore espressività, allargando le maglie formali in una complessa sofisticazione armonica e concedendo una libertà di operare, anche ritmicamente, che non di rado confinerà con determinate istanze poi espresse più iconoclasticamente e talvolta più ingenuamente dal free jazz.
I nostri contemporanei, nel ricordare la figura di Hubbard, propongono di frequente il costante parallelo fra l’improvvisatore fervido degli anni Sessanta e quello più «reazionario» degli anni Settanta e Ottanta (quando Hubbard sperimentò, con risultati non sempre felicissimi, contaminazioni con alcune forme di musiche popolari africane-americane) o quello, ormai «classico» degli anni Novanta, prima che un grave incidente al labbro menomasse irreparabilmente la sua attività. Rispetto sia ai cosiddetti young lions -che da lui ebbero a ereditare numerose e preziose lezioni- rivolti alla rivalutazione talvolta posticcia dei valori musicali e sociali del bop, sia agli improvvisatori decisi a espandere l’area sperimentale e più radicale dell’improvvisazione, è stato rimproverato ad Hubbard un certo «lassismo» ideologico, un penchant, insomma, per la mercificazione della tradizione musicale africana-americana o, comunque, un’indifferenza verso l’esaltazione dei suoi valori più profondi. Ciò non corrisponde del tutto a verità. È certamente difficile attribuire una patente di «intellettualità» ad un approccio musicale che non ha mai disdegnato una voluttà muscolare disinibitamente esibita. Si sbaglierebbe però a considerare Hubbard un artista esemplare malgré lui, un esempio di fulgida ma inconscia o, peggio, incosciente musicalità, un fenomeno tecnico dalla ricchezza puramente spontanea, mai o quasi mai mediata dall’operato di un vero, lucido e sofisticato pensiero musicale. Egli non è stato semplicemente un acrobata del proprio strumento, come talvolta s’è cercato di far passare. Per quanto egli potesse, in certi rari momenti, sembrare non del tutto a suo agio nell’intrico collettivo di Free Jazz di Ornette Coleman, la sua partecipazione ad alcune fra le più grandi opere musicali africano-americane, soprattutto in un periodo storico gravido di implicazioni ideologiche, non può certo dirsi casuale.
Nel corso degli anni Sessanta Hubbard è, infatti, presente al fianco degli innovatori della musica improvvisata africana-americana, oltre ai già citati John Coltrane, Oliver Nelson, Ornette Coleman ed Eric Dolphy (a proposito di quest’ultimo, basti ricordare l’apporto decisivo del trombettista in alcune pagine -come Gazzelloni e Straight Up and Down– di un manifesto del free bop quale Out To Lunch! Come scrive Taylor Ho Binum: Out to Lunch vanta fra i più straordinari assolo di tromba mai registrati, una combinazione di virtuosistica tecnica post-bop e di coraggiosa musica innovativa che risulta ancora oggi entusiasmante.): Herbie Hancock (Takin’ Off, Empyrean Isles, Maiden Voyage, Blow-Up), Wayne Shorter (Speak No Evil, All Seeing Eye, Toothsayer), Bobby Hutcherson (Dialogue, Components, Spiral), Sam Rivers (Contours), Andrew Hill (Compulsion, One For One), Max Roach (Drums Unlimited), Sonny Rollins (East Broadway Rundown). Per tacere delle molte incisioni realizzate con Hank Mobley (Turnaround, Straight No Filter), Duke Pearson (Sweet Honey Bee, The Right Touch), Dexter Gordon (Clubhouse), Lou Donaldson (Lush Life, Sweet Slumber), Sarah Vaughan (It’s A Man’s World, Sassy Swings Again), Ronnie Mathews (Doin’ the Thang), Booker Ervin (Booker & Brass), George Benson (The Other Side of Abbey Road, Body Talk), Quincy Jones (l’eccellente colonna sonora di The Pawnbroker e l’album Walking In Space), Manny Albam (Soul of the City). Né vanno dimenticate opere firmate dallo stesso Hubbard come Breaking Point (7 maggio 1964, Blue Note BN 4172), Blue Spirits (19 e 26 febbraio 1965, Blue Note BN 4196, una vera e propria “summa” del suo lavoro alla Blue Note, fra groove ereditati da The Sidewinder di Lee Morgan, riff funky, echi d’improvvisazione più libera, post-bop coltraniano), Night of the Cookers 1 & 2 (9 e 10 aprile 1965, Blue Note BN 4207/08), soprattutto le notevoli The Artistry of Freddie Hubbard (2 luglio 1962, Impulse AS-27) e The Body & The Soul (8 e 11 marzo/2 maggio 1963, Impulse AS-38).
Sin dagli esordi Hubbard si preoccupa di agire all’interno del Canone africano-americano (il suo riallaccio al blues è tratto costante di tutto il suo corpus di lavori), rivalutando e aggiornando valori fondanti e tradizionali della tradizione musicale nera in America; è altrettanto evidente che egli si preoccupasse della «leggibilità» e della comprensibilità della sua estetica musicale: If the music doesn’t communicate something to the audience, there is not much point to it. Proprio l’accessibilità del suo linguaggio rende in qualche modo «classica» pressoché tutta la sua produzione migliore e fa di Hubbard uno fra i più notevoli divulgatori della musica africana-americana; soprattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta, quando, artista ormai affermato e leader in proprio, egli si avvicina ad alcune espressioni più popolari della tradizione musicale africano-americana. Nascono così opere discografiche come Backlash (19 e 24 ottobre 1966, Atlantic 1477), High Blues Pressure (13 novembre 1967 e 10 gennaio 1968, Atlantic 1501), Soul Experiment (11 e 13 dicembre 1968, 21 gennaio 1969, Atlantic 1526), The Black Angel (16 maggio 1969, Atlantic 1549). C’è chi ha inteso tali incisioni come i primi passi di un processo involutivo che avrebbe poi portato il trombettista alla dissoluzione del suo patrimonio musicale e culturale: è una posizione piuttosto diffusa e forse condizionata da scorie ideologiche che legge in modo riduttivamente eurocentrico una serie di momenti culturali che sempre di più, invece, si allontanano dalle tradizionali concezioni di origine europea. Hubbard è stato essenzialmente un divulgatore e commentatore del Canone africano-americano, un fluente oratore che si è espresso attraverso un corrispettivo musicale di quel Black English Vernacular che gli africano-americani sono talvolta restìi a usare per non passare per illetterati: la sua ansia di comunicare derivava, come egli stesso ammetteva, anche da un’ingenua ammirazione per quelle star dello show-business che, pur senza lo stesso talento di molti creatori africani-americani, potevano vantare una popolarità (e relativi benefici) a quelli invece preclusa. Seppur confusamente, Hubbard avvertiva in tale disparità anche l’effetto della sperequazione esistente fra l’establishment bianco e le masse africano-americane, una presa di coscienza che lo spinge ad assumere pubblicamente una posizione politica a riguardo.
Alla fine degli anni Sessanta, egli partecipa alla realizzazione di un impegnativo lavoro del compositore turco İlhan Mİmaroğlu(allora fra i principali produttori della Atlantic Records), Sing Me a Song Of Songmy [(A Fantasy for Electromagnetic Tape, featuring Freddie Hubbard and his Quintet, with Reciters, Chorus, String Orchestra, Hammond Organ, Synthesized & Processed Sounds,Composed & Realized by Ilhan Mimaroglu on Poems by Fazil Husnu Daglarca & Other Texts), Atlantic SD 1576]: un incontro fra il quintetto dello stesso Hubbard (con Junior Cook, Kenny Barron, Art «Juini» Booth e Louis Hayes), varie forze orchestrali e una serie di materiali sonori rielaborati secondo i dettami della cosiddetta «musica concreta», di cui Mİmaroğlu – allievo di Douglas Moore e Vladimir Ussachevsky, collaboratore di Edgar Varèse e Stefan Wolpe, fra gli autori della colonna sonora per Satyricon di Fellini – era un esponente. L’opera, pubblicata discograficamente nel 1971 fra non poche polemiche, rievoca in termini espliciti, a guerra del Vietnam ancora in corso, il contesto socio-politico degli anni Sessanta negli Stati Uniti e non solo: testi recitati (da Che Guevara a Søren Kierkegaard) e una partitura elettro-acustica si intersecano nel commentare l’assassinio di Sharon Tate, le sollevazioni studentesche nei campus, le varie forme d’indottrinamento delle masse e di oppressione culturale, omicidi politici, le lotte per i diritti civili.
L’apporto del quintetto del trombettista rientra in un unico, composito mosaico fonico, in cui determinate sonorità identificabili con il jazz servono a caratterizzare in qualche modo il suono di un’epoca. Di fronte alle critiche suscitate Hubbard, per quanto ingenuamente, fu esplicito: I was trying to keep black kids from going to Vietnam and fighting, because most of them would die over there (Howard Mandel). Va ricordato che proprio in quegli anni, nel 1971, Marvin Gaye, con la creazione dell’album What’s Going On (una serie di canzoni ispirate alla guerra del Vietnam così come vissuta anche dai soldati e dalla popolazione africano-americani),contribuiva a rivoluzionare l’estetica della musica popolare africano-americana, non solo fondendo in un unico linguaggio musicale più esperienze linguistiche, dal soul al jazz, ma inserendolo prepotentemente in un contesto socio-politico e culturale. Il commento a tal proposito di Gaye non si differenzia troppo da quello di Hubbard: Nel 1969 o 1970 ho iniziato a rivalutare il mio concetto di ciò che volevo che la mia musica dicesse… Ero molto influenzato dalle lettere che mio fratello mi mandava dal Vietnam e dalla situazione sociale qui a casa. Ho capito che dovevo lasciare alle spalle le mie fantasie se volevo scrivere canzoni che raggiungessero l’anima delle persone. Volevo che lanciassero uno sguardo a ciò che stava accadendo nel mondo (Rolling Stone, 2008). Agli inizi degli anni Settanta Hubbard aderisce alle iniziative del Jazz and PeoplÈs Movement, un collettivo di protesta, guidato da Rahsaan Roland Kirk, il cui scopo era ottenere che la televisione americana non ostracizzasse il jazz: nel corso della registrazione di alcuni popolarissimi spettacoli (eminentemente quelli di Dick Cavett, Johnny Carson, Merv Griffin), i membri del gruppo rumoreggiavano, distribuivano materiali propagandistici, interrompevano la realizzazione degli show. Come ebbe a commentare Lee Morgan, uno degli autori della protesta: L’etere appartiene al pubblico e noi siamo qui per drammatizzare questo fatto. Il jazz è l’unica vera musica americana, ma quanto spesso si vedono musicisti jazz davanti alla telecamera? E non stiamo parlando dei musicisti di jazz che suonano nelle orchestre televisive! Tali “agguati” contro i network ebbero comunque l’effetto di attirare l’attenzione del pubblico, procurando ad alcuni musicisti la possibilità di esibirsi all’interno di spettacoli ampiamente seguiti. Soprattutto Dick Cavett concesse spazi del suo programma ai componenti del movimento, ospitando proprio Freddie Hubbard nonché Cecil Taylor, Billy Harper, Andrew Cyrille, Edith Kirk (moglie di Rahsaan Roland Kirk). Sulla spinta dell’iniziativa, il programma Positively Black della NBC accoglieva un Dialogue of the Drums fra Rashied Ali, Andrew Cyrille e Milford Graves, mentre lo Ed Sullivan Show, l’unico grande spettacolo televisivo che il movimento non aveva “attaccato”, ospitava un gruppo di musicisti guidati da Rahsaan Roland Kirk (con Sonelius Smith, Joe Texidor, Henry Pearson, Charles McGhee, Maurice McKinney, Dick Griffin, Roy Haynes, Archie Shepp e Charlie Mingus).
Per certi versi, allo stesso modo di artisti come Marvin Gaye o Curtis Mayfield, Hubbard riconosce l’esistenza di un sistema iniquo, che soggioga gli uomini di colore così come venivano soggiogati gli schiavi, li sfrutta e nega loro la possibilità dell’uguaglianza, dei pari diritti, anche economici. In un testo come Narrative of the Life and Adventures of Henry Bibb, Bibb racconta che, da bambino, venni frustato; dove avrei dovuto ricevere un’istruzione morale, mentale e religiosa fui invece oggetto di una violenza il cui scopo era quello di degradarmi e tenermi sottomesso. L’esperienza di Bibb non era fuori della norma. Gli schiavisti condividevano il desiderio di “tenere gli uomini di colore al loro posto”: un posto, cioè, di degradazione e vergogna. Da Backlash (che accoglie un “classico” hubbardiano come Little Sunflower e che vede il trombettista affiancato da James Spaulding, Albert Dailey, Bob Cunningham, Otis Ray Appleton, Ray Barreto) in poi, passando per High Blues Pressure (cui partecipano musicisti come Weldon Irvine, James Spaulding, Bennie Maupin, Louis Hayes, Kenny Barron, Howard Johnson, Freddie Waits, Herbie Lewis ed altri), Soul Experiment (con Carlos Garnett, Pretty Purdie o Grady Tate, Kenny Barron, Billy Butler o Eric Gale, Gerry Jemmott, Gary Illingworth), The Black Angel (con James Spaulding, Carlos “Patato” Valdez, Kenny Barron, Reggie Workman, Louis Hayes) -tutte incisioni per la Atlantic- si estende una marcia d’avvicinamento di Hubbard ad una diversa concezione linguistica: in realtà, per quanto lo stesso Hubbard desiderasse escluderlo, l’impronta boppistica è inevitabilmente in evidenza, con quelle venature funky e latinoamericane che caratterizzavano la produzione del trombettista sin dai suoi esordi. Laddove Miles Davis, in opere coeve come In A Silent Way e Bitches Brew, aveva definitivamente abbandonato le strutture boppistiche, accogliendo istanze linguistiche diverse ma rielaborate all’interno di una visione originale, Hubbard non riuscirà mai a separarsi del tutto di una certa ortodossia generazionale, pur avendone i mezzi, come peraltro prova una pagina come Spacetrack (da The Black Angel), oltre quindici minuti d’esplorazione sonora dai confini linguistici mai così ampli. Ancora una volta, invece, anche nelle incisioni per la Atlantic, Hubbard offre il meglio di sé come divulgatore dei fondamentali del Canone africano-americano (in modo particolare il sistema tonale del blues) e in struggenti, agrodolci ballad come Eclipse.
Gli anni Settanta presentano, agli occhi di alcuni, la definitiva metamorfosi di Hubbard, da alfiere dello hard bop a reazionario esponente di improbabili contaminazioni con la musica d’evasione. Eppure, la molto criticata discografia di Hubbard per l’etichetta CTI dell’abile produttore Creed Taylor, rappresenta forse l’apice della sua opera come divulgatore del Canone africano-americano, per quanto inserito all’interno di una formula, e l’ultima fase della sua innovatrice creatività, prima di giungere ad una prolungata, classica cristallizzazione del suo stile improvvisativo. L’etichetta di Taylor, come si sa, propugnava una “volgarizzazione” del jazz attraverso la sua contaminazione con elementi della musica popolare coeva, affidando ogni produzione ad una serie di solisti e arrangiatori di grido e d’alta professionalità, capaci in diversi modi di operare nel campo del crossover sofisticato, così come raffinato era persino il concetto del packaging e dell’art-work. Una parte non indifferente degli artisti aggregati da Taylor (già produttore per la Bethlehem, l’ABC, la Impulse e la Verve) proveniva dal mondo dello hard bop e di una sua derivazione come il soul jazz: George Benson, Herbie Hancock, Ron Carter, Stanley Turrentine, Hank Crawford, Nat Adderley, Joe Farrell vanno ad arricchire una “scuderia” che ospiterà artisti brasiliani come Walter Wanderley, Antonio Carlos Jobim, Milton Nascimento, Airto Moreira; figure iconiche come Paul Desmond, Chet Baker, Milt Jackson, Art Farmer, Yusef Lateef, Jim Hall; arrangiatori di diversa estrazione come David Matthews, Bob James, Don Sebesky, Eumir Deodato, Lalo Schifrin; strumentisti di valore come Urbie Green, Hubert Laws, Gábor Szabó, Johnny Hammond, Roland Hanna, Lonnie Smith, Grover Washington,Jr., Idris Muhammad, Joe Beck; cantanti come Nina Simone, Esther Phillips, Patti Austin. Hubbard si adatta con notevole flessibilità alla levigatezza produttiva della nuova etichetta (largamente finanziata da Herb Alpert e Jerry Moss della A&M) e per certi versi non fa che estendere l’accessibilità del suo credo estetico, senza però cadere nella trappola dell’eccessiva e slabbrata facilitazione. La sua prima incisione per la CTI, non casualmente, è un capolavoro dello hard bop più moderno, aggiornato e sensibile ai nuovi percorsi della musica popolare africana-americana: Red Clay (27-29 gennaio 1970, CTI 6001) è, come nel titolo, hard bop argilloso e scuro, esplicito nei suoi movimenti funky, modale e radicato nel blues, interpretato con un alto magistero strumentale da un gruppo che comprende Joe Henderson al sassofono tenore e al flauto, Herbie Hancock al pianoforte elettrico e all’organo, Ron Carter al contrabbasso e al basso elettrico, Lenny White alla batteria. Hubbard -così come lo stesso Henderson- non rinuncia alla sua eredità boppistica (basti ascoltare temi come Suite Sioux e The Intrepid Fox) ma sa rileggerla alla luce di quel rhythm’n’blues elettrificato con il quale artisti come James Brown e Sly Stone si erano imposti al pubblico sia africano-americano che americano.
Quello che Sidewinder era stato per Lee Morgan, Red Clay lo è per Freddie Hubbard, e forse persino di più: una sorta di sigla, di firma istantaneamente riconoscibile perché affidata a un materiale musicale memorabile per apparente semplicità di formulazione e per opposta ricchezza di complessità interpretativa. In Red Clay, Hubbard compie un mirabile percorso dal commercio all’arte, unendo accessibilità e sofisticazione con raro senso di equilibrio ma con un’espressività che è logica conclusione di un iter linguistico iniziato un decennio prima presso la Blue Note. Da questo momento inizia per lui il cammino verso la classicità, verso il definitivo assestamento del suo approccio stilistico, che in Red Clay dà vita anche al suo caratteristico e virtuosistico uso di shake (trillo corto con l’armonico superiore) e lip trill (trillo lungo con l’armonico superiore) ascendenti e di note blue “piegate” con effetti particolari quanto caratteristici. Incisioni successive per la CTI -come Straight Life (16 novembre 1970, CTI 6007, con Joe Henderson, Herbie Hancock, George Benson, Ron Carter, Jack DeJohnette, Richie Landrum e Weldon Irvine), First Light (16 settembre 1971, CTI 6013, premiata con il Grammy Award, con Richard Wyands, Hubert Laws, Ron Carter, Jack DeJohnette, George Benson e una sontuosa orchestrazione affidata a Don Sebesky), Polar AC (12 aprile 1972, CTI 6056, con Hubert Laws, George Benson, George Cables, Ron Carter, Lenny White, Airto Moreira e gli arrangiamenti di Bob James), Sky Dive (4 e 5 ottobre 1972, CTI 6018, con George Benson, Keith Jarrett, Ron Carter, Billy Cobham, Airto Moreira, Ray Barreto e, nuovamente, gli arrangiamenti di Don Sebesky), In Concert I/II (3 marzo 1973, CTI 6044 e 6049, con Stanley Turrentine, Eric Gale, Herbie Hancock, Ron Carter, Jack DeJohnette), Keep Your Soul Together (5 e 23 ottobre 1973, CTI 6036, con Junior Cook, George Cables, Ron Carter, Ralph Penland e altri)- esibiscono uno strumentista in certi momenti (si pensi all’opulenza di First Light) persino maestoso nella superba sonorità, nel fluire di originali linee melodiche, nel virtuosismo estremo ma largamente utilizzato per adeguati fini espressivi.
Un artista, per l’appunto ormai classico, che ha messo a punto il proprio lavoro espressivo, senza in realtà essersi “sporcate le mani”. Le incisioni per la CTI, infatti, rappresentano la personalità di Hubbard nella sua completa maturazione, in un contesto forse esageratamente estetizzante ma al servizio del trombettista, che delinea e tratteggia, con mano salda, un riassunto sistematico delle proprie esperienze, quasi un’autobiografia con qualche tentazione agiografica ma ben di rado commerciale nel senso deteriore della parola. In una personalità d’interprete naturalmente propensa all’orgogliosa esibizione dei propri mezzi, cui non manca rivendicazione delle proprie origini etnico-culturali, non deve stupire l’inclinazione all’autoritratto. Abbandonato il gusto (o la curiosità) per certi esplorativi momenti d’astrazione e per la rilettura provocatoria del Canone musicale popolare musicale africano-americano, Hubbard depone le armi dell’ironia guascona e si concede una celebrazione pittorica come avrebbero forse potuto idearla Wadsworth e Jae Jarrell o Barron Claiborne. Non la si sottovaluti: bastano Red Clay e certi momenti di Straight Life per capire che non era possibile andare oltre un’arte così compiuta nella sua missione di sintesi linguistica. Appare perciò comprensibile che un senso di delusione pervada coloro che nella susseguente produzione con la Columbia noteranno un abbandono della creatività e della rilettura più indagatrici, a favore di una comunicativa incline a cedere le armi alla colloquialità non di rado banale. È il caso sicuramente di Windjammer (1976, Columbia PC-34166), una produzione di Bob James manifestamente commerciale e realizzata in un pressoché parodistico linguaggio pseudo-funky; lo si può dire di Bundle of Joy (1977, Columbia BL-34902), pur ricco di un cast stellare di musicisti ma inerte rifacimento di un mondo ormai artificioso e turbato dall’intervento intrusivo di contributi vocali. Sarebbe però ingeneroso spacciare per meri tentativi di cedimento all’effimero lavori spesso eccellentemente espressivi, ancorché fortemente virtuosistici o divulgativi, come High Energy (1974,Columbia KC-33048, con George Cables, Joe Sample, Junior Cook, Victor Feldman e altri), Gleam (1975, Columbia 20AP 1421, con Henry Franklin, George Cables, Carl Burnett, Buck Clark, Carl Randall, Jr.), Liquid Love (1975, Columbia C 33556, con George Cables, Chuck Rainey, Carl Burnett, Henry Franklin e altri), Super Blue (1978, Columbia JC-35386, con Joe Henderson, Ron Carter, Kenny Barron, Jack DeJohnette, Hubert Laws, George Benson), The Love Connection (1979, Columbia JC 36015, orchestrazioni di Claus Ogerman, con Chick Corea, Joe Farrell, Ernie Watts, Chester Thompson, Chuck Findley, Phil Ranelin e altri), Skagly (1980, Columbia Cbs 84242, con Billy Childs, Hadley Caliman, Larry Klein, Carl Burnett): tutte incisioni cui si potrebbe aggiungere Hot Horn, del 1973 per la Everest, poi ripubblicato nel 1981 per Piccadilly PIC 3467, realizzazione precaria dal punto di vista fonico ma rara testimonianza del magistero hubbardiano, ripreso durante un concerto dal vivo con Cedar Walton, Junior Cook, Wayne Dockery, Billy Hart- in cui Hubbard, sia alla tromba che al flicorno, si dimostra strumentista sicuro e solista generoso, attento lettore degli episodi musicali popolari africani-americani, più insicuro dal punto di vista interpretativo, conscio forse di avere superato il suo momento di massima creatività.
Negli anni successivi la discografia di Hubbard si arricchisce ulteriormente, testimoniando un interprete di consueta espansività, dalla tecnica spavalda, capace di un pensiero musicale ormai consueto e forse scontato, ma pur sempre notevole (pur se non impeccabile) nella resa artigianale e nella proprietà linguistica: la sua idiomaticità rimane il più delle volte incomparabile rispetto alla sovrabbondanza di ripetitivi ed esangui hard-bopper, molti dei quali appartenenti alla schiera degli ex-young lions. Sono molteplici le testimonianze discografiche di valore che si potrebbero citare, oltre alle collaborazioni con Oscar Peterson (Face to Face), Kenny Burrell (God Bless the Child), Charles Earland (Leaving This Planet), Randy Weston (Blue Moses), Milt Jackson (Sunflower), McCoy Tyner (Together), e persino Billy Joel (52nd Street): Live at the North Sea Jazz Festival (12 luglio 1980, Pablo 2620 113, con David Schnitter, Billy Childs, Larry Klein, Synclair Lott), Outpost (16/17 marzo 1981, Enja, con Kenny Barron, Buster Williams, Al Foster), Rose Tattoo (1983, Baystate RJL 8095, con Ricky Ford, Kenny Barron, Cecil McBee, Joe Chambers), l’eccellente Sweet Return (14 giugno 1983, Atlantic 80108, con Lew Tabackin, Joanne Brackeen, Eddie Gomez e Roy Haynes), Life Flight (23 e 24 gennaio 1987, Blue Note BT 85139, con Stanley Turrentine, Ralph Moore, Larry Willis, Rufus Reid, Carl Allen, George Benson, Idris Muhammad, Wayne Braithwaite), l’eccellente Bolivia (1991, Music Masters/Jazz Heritage, con Cedar Walton, Giovanni Hidalgo, Vincent Herring, Ralph Moore, Billy Higgins, David Williams), registrato alle soglie dell’incidente al labbro che avrebbe condotto Hubbard verso la fine dolorosa della sua carriera, impossibilitato ad essere fisicamente sé stesso. Non possono certo essere trascurate le pagine realizzate dall’artista nel corso del suo impegno con il gruppo V.S.O.P. (Very Special One-time Performance), con Herbie Hancock, Wayne Shorter, Ron Carter e Tony Williams: incisioni come The Quintet (Columbia 34976, 16 luglio 1977), Tempest in the Colosseum (Columbia COL 471062 2, 23 luglio 1977) e Live Under The Sky (Columbia Legacy 2004, 26/27 luglio 1979) sono ulteriore prova di una muscolare espressività, arricchita da un virtuosismo tecnico che, in taluni casi, oscura la lucidità del discorso strutturale, come spesso capita in eventi costruiti appositamente per attirare l’attenzione delle grandi platee. Scrive Dave Douglas: Freddie porta qualcosa di molto diverso. È generoso con le note e con la grazia che ne scorre. Un tipo diverso di grazia, come un maestro di cerimonie gregario. Freddie è talmente al di sopra della musica e della tecnica che non riesce a frenare la gioiosa esuberanza delle sue idee e la sua capacità di realizzarle. Questo spiega molto del perché sia più imitato di Miles Davis: il suo stile offriva molto più materiale a cui aggrapparsi. Miles Davis e Freddie Hubbard erano due visioni molto diverse dell’estetica moderna. Gli echi di Miles si sentono spesso, ma il suono di Freddie si sente ovunque.
Al di sopra delle realizzazioni con il gruppo V.S.O.P. e di buona parte delle opere incise da Hubbard nell’ultimo decennio attivo della sua carriera, soprattutto per testimonianza storica di un’elaborazione estetica rivista e riletta con chiara maturità di pensiero, si elevano due incisioni Blue Note, Double Take (BT 85121, 22 novembre 1985, con Mulgrew Miller, Kenny Garrett, Cecil McBee, Carl Allen) e Eternal Triangle (BN1 48017, 11/12 giugno 1987, stesso personale, salvo Ray Drummond, che sostituisce Cecil McBee), che testimoniano l’incontro di Hubbard con Woody Shaw (più giovane rispetto a Hubbard di poco più di sei anni), ad egli affine per sensibilità, intelligenza, virtuosismo, proprietà linguistica. Tali realizzazioni rappresentano un sottovalutato compendio linguistico, enciclopedico studio sul jazz modale, sull’uso del linguaggio diatonico e del cromatismo, sulla sofisticazione ritmica, sull’idiomaticità, sull’equilibrio fra solisti all’interno di uno stesso complesso. Come ebbe a commentare Michael Cuscuna, Riunire i due trombettisti jazz viventi più imprevedibili e più creativi in una situazione musicale non competitiva poteva sembrare una pura follia. Per quanto Shaw non riconoscesse volentieri un debito artistico nei confronti di Hubbard, egli aveva in comune con questi un approccio strumentale estroverso, un’articolazione particolarmente incisiva, un’inclinazione per giochi intervallari particolarmente sofisticati e naturalmente difficili per uno strumento come la tromba, un approccio tecnico sofisticato e virtuosistico posto al servizio di un pensiero musicale sofisticato, una concezione armonica peculiarmente avanzata e di carattere spesso politonale, un eloquio chiaramente indebitato nei confronti di altri sassofonisti più che trombettisti (egli citava come influenze determinanti, non a caso, Eric Dolphy e John Coltrane). Poste a confronto, le due personalità si stimolarono a vicenda: se Shaw subiva il magistero tecnico di Hubbard, egli riusciva comunque a superarsi in sofisticazione armonica e audacia cromatica, spingendo l’altro ad estendere i limiti del proprio linguaggio come non accadeva da lungo tempo. Le incisioni in questione rappresentano ancora una summa di sofisticazioni musicali, di eleganti e intelligenti riarmonizzazioni, di invenzioni linguistiche (l’uso di strutture intervallari per creare coesione all’interno di incongruenze armoniche; la capacità di scegliere le note in passaggi riarmonizzati in modo da farli apparire inconsueti e originali pur attraverso un’impostazione del tutto tradizionale; la capacità, in determinati passaggi, di gestire l’instabilità tonale del cromatismo fino a risolvere il passaggio stesso in un modello diatonico; la sapiente creazione di simmetrie in una sequenza intervallare; la ripetizione di gesti simili in differenti trasposizioni; la creazione di strutture familiari che servono a implicare una riarmonizzazione senza fare uso del cromatismo; la riarmonizzazione di accordi dominanti che si risolvono alla tonica in modo non idiomatico; la riarmonizzazione modale, cioè la pratica di riarmonizzare un dato accordo o una data scala o una progressione accordale attraverso uno o più modi estranei alla progressione).
Pagine come Moontrane, Lotus Blossom, Hubtones, São Paulo ripercorrono con acutezza ed eccezionale maturità l’intera storia dello hard bop e delle sue varianti modali. Sia Double Take che Eternal Triangle sono un tributo all’arte di Shaw e, naturalmente, di Hubbard. In pochi anni, quest’ultimo sarà costretto a rinunciare alla propria personalità d’interprete e di virtuoso, impossibilitato ad esprimersi come d’abitudine, impreciso alla tromba e al flicorno: sia New Colors che On The Real Side, in cui musicisti come Craig Handy, Russell Malone, Myron Walden, Luis Bonilla, Ted Nash, Joe Chambers, Lewis Nash, David Weiss, Xavier Davis, Jimmy Greene, Steve Davis reinterpretano alcune significative composizioni hubbardiane, accentuano il rimpianto per un artista dall’impareggiabile talento drammatico e dagli improvvisi, sofisticati, lirici squarci di vivida poesia, che, dimenticato troppo in fretta, ha assunto su di sé, più di qualsiasi altro interprete suo coevo, il peso di un’intera tradizione, quella hardboppistica, e la responsabilità di rinnovarla, proiettandola nel futuro. Un’impresa che solo a Hubbard è riuscita in modo così significativo. Come commenta James Hale, pur con qualche considerazione critica di troppo: Per apprezzare appieno la creatività di Hubbard, si consideri per un momento il terreno stilistico che ha saputo coprire in soli 10 anni – 1963-73 – e si cerchi di pensare a un altro artista che si sia spinto così lontano senza sacrificare la propria voce. Un gigante, certo, che rende gli ultimi 25 anni della sua vita ancora più tristi. Dave Douglas aggiunge illuminanti parole: I trombettisti sono stati spesso figure tragiche nella vita americana. Freddie Hubbard non era diverso. Gli ultimi quindici anni della sua vita lo hanno visto lottare contro un disastroso infortunio al labbro che ha limitato la sua capacità di realizzare le sue idee. Freddie ha anche lottato contro le forze della moda: per sua stessa ammissione (anche se non necessariamente per quella dei suoi fan) ha trascorso alcuni anni facendo musica che non era all’altezza dei suoi standard elevati. All’inizio degli anni Settanta aveva fatto praticamente tutto quello che si poteva fare: documentato molti assoli-capolavoro, partecipato a decine di registrazioni fondamentali, elaborato una visione personale dello strumento e della musica che resiste ancora oggi. Dove sarebbe dovuto andare? È difficile immaginare un’eredità e una pressione del genere a un’età così giovane. Possiamo essere grati per la gioia che Freddie Hubbard ci ha portato nei suoi settant’anni di vita. Ci mancherà.
Grazie, articolo interessante. Mi permetto di consigliare nelle citazioni delle parole di Hubbard una revisione della traduzione che spesso è approssimativa e poco comprensibile.
Grazie per l’apprezzamento. Incaricheremo una delle ragazze della redazione di fare una revisione al più presto.