Chi è il Lenny Kravitz che vedremo a Umbria Jazz?
// di Francesco Cataldo Verrina //
Si sono sentite molte definizioni di Lenny Kravitz: la più esilarante, ma circostanziata, è di certo «re del cool retrocentrico». In realtà, quando nel 1989 Kravirtz fece capolino sulla scena newyorkese – in quell’anno ero nella Grande Mela – piaceva molto ai circa quarantenni, mente oggi piace tanto ai sessantenni, sempre per affinità generazionale e per nostalgismo da post-boomer. Di certo, al suo seguito, non mancano i nerd e millennials, i lupi di periferia, le milf palestrate e i finti-rocker del week-end (in realtà bancari, avvocati, imprenditori, esecutivi e professionisti) che girano con costose Harley Davidson. Lenny ha sessant’anni, possiede una bacheca piena di trofei ed ha venduto quasi cinquanta milioni di dischi, che sono ben altra cosa rispetto ai milioni di likes e visualizzazioni. Inizialmente, non fu facile per un rampollo proveniente da una famiglia di artisti farsi accettare dalla discografia e, soprattutto, la critica ebbe difficoltà a comprendere le intenzioni di quel ventenne, musicalmente attempato o nato vecchio dal punto di vista compositivo e dall’aria, oggi si direbbe vintage, ma all’epoca si parlava di marcato gusto per il revival anni Sessanta. Una vera ossessione per il cantante newyorkese cresciuto da bambino con i Jackson 5, e da ragazzo ammaliato da Jimi Hendryx e James Brown, dagli Aerosmith quanto dai tanti jazzisti che frequentavano la dimora dei genitori, appartenenti alla borghesia di colore: la madre era un’attrice ed il padre un promoter musicale, amico di gente come Miles Davis. Il giovane Kravitz cosi, durante la formazione artistica, divorò di tutto: R&B, jazz, classica, opera, gospel e blues, ma con lo specchietto retrovisore puntato costantemente sul passato, tanto che la sua musica finì per diventare canonicamente un melting-pot, talvolta nevrotico e teso a non lasciare al fruitore tipo specifici punti di riferimento e di raccordo. L’esordio discografico, «Let Love Rule», fu una miscela esplosiva preparata con la tempra di un retro-rocker, che giocava su un funk tagliente e lisergico, smorzato da melodie accattivanti e da un modo di cantare che trasfigurava la sofferenza del soul in una sorta di urlo metropolitano: le canzoni di Kravitz tentano di dire sempre più di quello che potrebbero e dovrebbero dire, intrappolate sempre in una musica che vanta una fisicità-erotica invidiabile, ma una semplicità intellettuale e testuale appena sufficiente ad oltrepassare il muro della banalità del pop da airplay radiofonico. Lenny Kravitz conferma appieno l’assunto di George Clinton dei Funkedelic, secondo cui, per equivalenza, il funk sarebbe il rock dei neri. Del resto, Lenny ha sempre voluto dire al mondo: guardate che pure il rock l’hanno inventato gli afro-americani. Il suo modus operandi, sorgivamente eclettico e tetraedrico, nel corso degli anni, l’ha spinto a soluzioni musicalmente più dure e vicine ad un certa siderurgia rock, tanto da essere inserito da VH1 al 93° posto della classifica dei «100 Greatest Artists of Hard Rock».
Certo Kravitz ha saputo costruire un’immagine vincente e trans-generazionale, quello del sessantenne dall’aspetto giovanilistico, vegano e crudista, che però, prima della sua tappa al Lucca Summer Festival è andato a trovare degli amici di Firenze che gestiscono una bisteccheria. Ma Lenny è una contraddizione in termini, si propone con un outfit da finto hipster, ma poi sponsorizza orologi di marca, vini prestigiosi ed auto di lusso: il suo impegno sociale è pari alla mondanità che non disdegna mai. Infatti, quando non è in giro per concerti (strapagati) o non sta lavorando come attore di tutto rispetto (in Hunger Games), va a ritemprarsi nel suo buen retiro, nel suo lussureggiante paradiso terrestre, una fattoria perfettamente funzionante circondata da mille acri di terreno nei meandri delle foreste pluviali del Brasile dove, in quell’immenso paese ricco di natura e di contraddizioni, si è battuto, sovente, a difesa di molti diritti negati agli ultimi, agli Indios e ai poveri. In trentacinque anni di carriera, Kravitz è stato alquanto parco di uscite discografiche, spesso intervallate da lunghi periodi di distacco e di accidia creativa, segnati da improvvisi salti, quantici, stilistici ed umorali: solo dodici album, per un’artista che viene pagato in lingotti d’oro, sono davvero un magro bottino. Per non smentirsi, a sei anni di distanza da «Raise Vibration» del 2018», il recente album in studio «Blue Electric Light», che ne ispira il tour mondiale, lo trova sorprendentemente rinvigorito e rivitalizzato fisicamente, ma musicalmente allineato ad soul-poppish multistrato, a tratti mutevolmente rock-funk, ma che coglie appieno un sorprendente intimismo da sessantenne in tema di bilanci o alla ricerca del tempo perduto. Kravitz questa volta propone una chanson de geste che sembrerebbe dire, parafrasando il poeta: le donne, gli amori, il sesso e la vita io canto.
L’opener «It’s Just Another Fine Day (In This Universe Of Love)» fissa subito i paletti con un titolo che mette in luce una sorta di manifesto programmatico stabilendo il tono complessivo del processo attuativo. Al primo step siamo difronte alla solita ballata kravitziana imperniata su un giro di blues con una chitarra spiralica ed appena incattivita da qualche armonia spuria: c’è perfino una beve citazione dell’inciso di «Jesus Christ Superstar», per contro nella successiva «TK421» l’ascoltatore viene trascinato con veemenza in un habitat metropolitano caratterizzato da chitarre a grattugia e bassi spanciati e slappati, mentre affiorano i fantasmi di James Brown riformattato su un sistema informatico, Rick James in tuta spaziale e soprattutto lo spirito maliardo di Prince con gli stivali da moschettiere, il cui stile farà spesso capolino in questo disco, ma senza una precisa volontà tributaristica da parte di Kravitz. «Honey», in cui il nostro canta «Non ci vuole molto per eccitarmi», è un funk leggiadro ricco di armonie sognanti e coloriture disco-dance, che ricorda musicalmente i Bee Gees di fine anni Settanta: inizialmente, ascoltando la musica, si potrebbe pensare ad un pezzo di Olivia Newton-John, ma poi il graffio soulful della voce spinge verso i primi lavori di Prince, quelli più vicini alla disco-funk. Gli amanti del vinile si troveranno fra le mani un doppio album eclettico e vitale, ricco di cambi di umore ma anche di melodie a rapida combustione. Con «Paralyzed» si materializza l’altra cifra stilistica di Kravitz, il quale muove verso un rock scorticato e perforante, tra Nirvana, Aerosmith e Red Hot Chilly Peppeprs, riportando alla mente il vecchio «Mama Said» del 1991. I testi libidinosi possono rappresentare un ostacolo per alcuni, di certo non per lui che fa della fisicità ostentata un’arma di seduzione di massa, mente le sue canzoni diventano un tonificante sonoro perfetto in tempi di guerre fredde e calde, di preoccupazioni finanziarie, alienazione da app e Whatsapp, nonché da calo del desiderio. Con l’arrivo di «Human» si cambia nuovamente registro: una deflagrazione electro-funk, tra campanacci, colpi di batteria metallico-industriale, dove la melodia si erge sul capo dell’ascoltatore come in un battesimo iniziatico, in un’estasi, in cui il ritornello, «Sono venuto qui per essere vivo, sono qui per essere umano», diventa l’elemento salvifico. «Let It Ride» rappresenta la miniaturizzazione del sound di Price attraversato da scaglie disco-wave alla Daft Punk, mentre «Stuck In The Middle è una ballata dall’insinuante afflato melodico a metà strada tra Michael Jackson e Philip Baley, così come il modulo Prince enfatizzato su «Bundle Of Joy», ha un’aura molto vicina al crossover funk da discoteca di fine anni Settanta con le voci armonizzate da un’ottava «falsettata», il synth liquefatto ed un groove impettito e inamidato. Sono certo che, nel lungo periodo di otium artistico trascorso prima della stesura di «Blue Electric Light», Kravitz abbia ascoltato molta musica anni Ottanta, non a caso il terzinato in puro stile AOR di «Love Is My Religion» ricorda Heuy Lewis & The News calati in un’atmosfera REM.
A quarant’anni di distanza, nella dinamica compositiva di Kravitz che guarda sempre indietro, l’inossidabile Principe di Minneapolis deve essergli sembrato il personaggio più attuale nell’ambito della black music, tanto che il Nostro in «Heaven» ne indossa ancora le armi, ma combattendo a suo modo una singolar tenzone con il groove ed fraseggio chitarristico, mentre il testo, attualissimo, lamenta la mancanza di crescita spirituale dell’umanità, soggiogata da una cappa virtuale. In «Spirit In My Heart», che riprende addirittura certe atmosfere retro-soul-cool degli Style Coucil, Kravitz ritorna al potere redentivo dell’amore che su tutto vince, cantando: «Tu tiri fuori il meglio di me, ti amo all’infinito». In chiusura, la title-track che si solidifica intorno a un’idea di ballata psichedelica alla «Purple Rain» ma imbastita con mano leggera, voce ruffiana, al netto di qualche piccola sporgenza chitarristica. A conti fatti, «Blue Electric Light» è l’album più concreto e riuscito di Lenny Kravitz da quindici anni a questa parte; un lavoro vivace, cristallino, facile da fruire, con riferimenti chiari al passato e punti di sutura esposti senza remore, quasi a voler dire: questi sono i miei idoli, i miei tormenti e le mie ferite sottocutanee, così è, se vi pare. Soprattutto in un’epoca di trippe, tricche, trappe e ballacche, dischi del genere, portatori di una positive vibration, sono una manna dal cielo. Come si dice: in terra caecorum beati monocoli. Durante le ultime esibizioni Kravitz propone una quindicina di brani, bis compresi, muovendosi in un range di una ventina di canzoni provate per i concerti, di cui tre o quattro vengono pescate nel nuovo album.