«Lacy In The Sky With Diamonds» di Ottaviano, Gallo e Faraò, un volo pindarico sulle ali dell’iconico sopranista Steve Lacy

…una rivelazione inattesa basata sulla scoperta di un nuovo elemento aggregante che nasce dalla combine dei tre musicisti coinvolti in maniera paritetica nel progetto, i quali evidenziano la complessità tonale e l’intelligenza strumentale di Lacy.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Roberto Ottaviano, sopranista di fama mondiale, ha un cordone ombelicale legato all’opera e alla musica di Steve Lacy: in Italia, per i suoi trascorsi, è certamente il più titolato a poterne perpetuare la specie e divulgarne il verbo. Ottaviano lo fa spesso ed in maniera non convenzionale. Ad esempio, nel suo nuovo lavoro realizzato con la complicità di Danilo Gallo al contrabbasso, banjo e chitarra e di Ferdinando Faraò alla batteria, il sassofonista pugliese evita accuratamente il percorso filologico ed agiografico muovendosi sul piano inclinato di una libertà espressiva e compositiva, utilizzando inedite regole d’ingaggio intorno alla multiforme figura geometrica di Lacy. Scorrendo «Lacy In The Sky With Diamonds», immesso sul mercato di recente dalla Clean Feed Records, si ha come la percezione che Ottaviano e i suoi pards intendano «conficcare» delle immagini nella testa dell’ipotetico fruitore, un insieme di stimoli sonori, da cui non si possa distogliere lo sguardo, tanto da creare una bidimensionalità, al punto da poter definire l’ascoltatore anche spettatore. Ne scaturisce un intenso coinvolgimento, paradossalmente sinestetico, che rende Lacy – e le sue molteplici sfaccettature stilistiche – vivo, attuale, emotivo e passionale, sulla scorta di un costrutto concettuale coerente che oltrepassa l’intelletto e la sfera psichica, raggiungendo l’elemento fisico attraverso le viscere, il cuore, il sangue e il sudore.
L’album, giocando sulla metafora beatlelsiana, si misura con agilità strumentale ed espressiva su sette componimenti lacyani rivisitati, cui si aggiungono quattro improvvisazioni inedite ricavate in studio, durante un sinergico by-play. «I brani del disco sono stati scelti casualmente – spiegano Ottaviano, Gallo e Faraò – sulla base delle nostre preferenze. Ai pezzi originali ne abbiamo aggiunto altri, per così dire, estemporanei, improvvisazioni che hanno preso spunto grazie al clima che si è creato in sala di registrazione“. «Lacy In The Sky With Diamonds» si materializza come una rivelazione inattesa basata sulla scoperta di un nuovo elemento aggregante che nasce dalla combine dei tre musicisti coinvolti in maniera paritetica nel progetto, i quali evidenziano la complessità tonale e l’intelligenza strumentale di Lacy, sia quando agiva su un terreno più tradizionale e monkish, sia quando, nel tratto sperimentale, forniva una pompa di calore basata su ciclici vagabondaggi, talvolta astratti e pindarici, pesino infantili, in cui semplicità non era mai sinonimo di banalità. Ottaviano e compagni agiscono perfettamente su queste leve, restituendo un Lacy a loro immagine e somiglianza. Le parole del sopranista barese sono alquanto eloquenti: «Lacy è stato uno degli ultimi jazzisti mosso da un’autentica curiosità nel costruire un mondo non autoreferenziale. Basta guardare le sue partiture: sono come un misterioso cruciverba che comprende testi provenienti da ogni dove… Una cartolina ricevuta da un amico africano, un antico haiku zen, un vecchio diario di bordo e così via. Per non parlare della stravagante architettura della sua scrittura musicale, che spazia dal piccolo carillon per bambini ai temi del teatro musicale brechtiano. Il gioco di trasfigurazione visionaria di Lacy-Lucy nel cielo, visto attraverso la rifrazione di un diamante multifaccia, è naturale. A vent’anni dalla sua scomparsa si sente più che mai la sua mancanza».
Scomparso vent’anni fa, Stevy Lacy fu uno sperimentatore insonne (ma anche divertito, non c’è pesantezza nella sua musica) ed un incallito esploratore delle varie soluzioni jazzistiche, usando il sax soprano come unico strumento, di cui era diventato negli anni il più autorevole rappresentante, indicando le coordinate principali dello strumento a tanti succedanei ed allo stesso Coltrane, il quale se innamorò proprio dopo aver sentito ciò che Lacy riusciva a fare con quel «piccolo sax» che, sino ad allora, aveva avuto il suo massimo esponente nell’anziano Sidney Bachet. Lacy però aveva superato il melodismo ludico usando le dinamiche del bop e l’insegnamento monkiano collocandosi, così, in una prospettiva di modernità proattiva. Ottaviano, Gallo e Faraò sposano appieno il principale assunto, racchiuso nella classica dichiarazione del sopranista americano: «Risk is at the heart of jazz, every note we play is a risk» (Il rischio è il nucleo centrale del jazz, ogni nota suonata è un rischio». Un rischio calcolato che i tre sodali si assumo subito a partire dall’opener «Esteem», da cui sobbalza immediatamente un elemento quasi sganciato dalla realtà, mentre l’iniziale aura di tensione sviluppata dalla proiezione asimmetrica di Ottaviano, fatta di note slargate e abrasive, si ricongiunge formalmente al flessuoso pulsare di Gallo e al percuotere staccato e divincolato di Faraò. Non c’è aria ferma i pensieri sembrano sospesi e rimandati, mentre «Deadline» s’insinua in un dedalo di interscambi sorretti sul tipico assioma tensione e rilascio, ricongiungimenti ed allontanamenti, in un perfetto tris di angolature volte ispide altre smussate. «Napping» apporta un clima di esotismo su una piattaforma blues, in cui il banjo funge da diversivo ma anche da fluidificante; quasi uno spartiacque rispetto al primo blocco di dissertazioni create in tempo reale dai tre sodali durante le sessioni al Crossroad Recording Studio di Cologno Monzese: «And The Sky Wheps», «No One Flew Over The Cookoo’s Nest» diventano una prima enclave, in cui la musica si deforma e si disperde in un continuo rompersi e ricomporsi, come accade alla luce che si rifrange e si diffonde attraversando un diamante.
Il flusso sonoro si dipana costantemente sui carboni ardenti dell’imprevedibilità, così «Bones / These Foolish Things «, mostra aspetti molteplici dell’estetica lacyna cogliendone appieno, in taluni frangenti, le antinomie, le antitesi e i contrasti spigolosi, spesso segnati da passaggi discordanti e dall’urgenza di un’improvvisazione viscerale; per contro, in altri momenti, a cui la batteria fa da intermedio e spartiacque, i tre colgono gli aspetti più surreali ed impalpabili dello scibile sonoro del sopranista americano. A questo punto, Ottaviano si concede una fuga in solitaria con il soprano in «The Owl«, ottenendo un elevato score di sobillante melodismo: poco meno di due minuti, quasi una camera di decompressione sino allo scoccare di «Hard Landing, a firma Ottaviano e Gallo, dove la creatività diventa il messaggio, oltre ad essere il mezzo espressivo, così come «Diamond Flock Accident», altra improvvisazione a tre, tenta qualche sortita nel tentativo di immaginare un Lacy calato in un contesto più simil-rock-fusion e meno legato alla tradizione, ma «Bound» e «Prospectus», pur giurando fedeltà alla tradizione, aprono una finestra su un mondo nuovo, misterioso e da esplorare, all’interno del microcosmo di un artista irrequieto. In special modo, per Roberto Ottaviano – grazie al sostegno di due perfetti compagni d’arme – «Lacy In The Sky With Diamonds» diventa una quadratura del cerchio, un’ulteriore vivisezione delle sue radici culturali, delle sue passioni e dei suoi interessi musicali, da sempre declinati attraverso una quotidiana ricerca di sonorità e linguaggi, unitamente ad un’improvvisazione non convenzionale legata alla tradizione jazz ma con un occhio sempre vigile sulla realtà in divenire.
