L’album appare come un costrutto immersivo e multitematico che lascia l’idea di jazz sullo sfondo, sfruttandone solo il modulo esecutivo ed espressivo.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Ci sono dischi che non sono peculiarmente jazz nella struttura, ma ne contengono l’essenza, specie quando c’è molta interazione ed empatia tra glia attanti. Nel caso di «Diffrazioni» di Luca Crispino, edito da Dodicilune, si tratta di musicisti che si ascoltano a vicenda». In fondo, è anche una questione di equilibrio tra libertà e disciplina, dove l’improvvisazione è informata dalla passione e condizionata dalla conoscenza. In verità, l’album appare come un costrutto immersivo e multitematico che lascia l’idea di jazz sullo sfondo, sfruttandone solo il modulo esecutivo ed espressivo, così come suggeriscono le note di copertina: «Il quintetto usa l’improvvisazione come uno dei suoi grandi fili conduttori. Improvvisazione non solo per i due brani di pura creatività catturati dal vivo «di getto» durante le sedute di registrazione, ma anche perché ogni composizione scritta da Crispino nasce da idee estemporanee sorte sul momento e poi fissate sul pentagramma».
Il merito va anche al sinergico line-up che accompagna il chitarrista padovano (il quale si cimenta anche al synth e con l’effettistica elettronica) e che sembra captare la medesima lunghezza d’onda: Federico Zoccatelli (sax soprano/alto), Stefano Benini (flauto, flauto basso, didgeridoo), Riccardo Ferfoglia (basso elettrico), Luigi Sabelli (batteria). Calandosi nel pieghe del disco ci si avvede subito che parlare di jazz, nell’accezione più larga del termine, sarebbe piuttosto riduttivo: le dinamiche compositive e le regole d’ingaggio oltrepassano ogni semplicistica catalogazione di genere e di stile, nonostante un garbato citazionismo di elementi molteplici emerge più volte nell’arco delle otto composizioni originali di Crispino, le quali vengono proposte come un package dial dotato di un sorgivo senso di continuità, ma disponibile a differenti chiavi di apertura e di lettura. Si precisa ancora nelle liner notes: «I rimandi sono innumerevoli (ognuno ne troverà vari e a piacimento) e forse è anche in questo tentativo di superare il senso del limite, dello steccato, delle definizioni troppo anguste che si può interpretare la forma di suite del disco, in cui ogni brano sfocia o, meglio, cade, in qualche modo e irrimediabilmente, in quello successivo».
L’opener è «Ziggurat» una composizione a tratti progressiva da contorni dilatati e sfumati che si proietta nell’empireo sonoro attraverso un’iperbole improvvisativa informale e profondamente libera, dove il sistema armonico appare dapprima frantumato in una bolgia assecondata dall’elettronica e poi ricomposto in costrutto concettuale coerente, per quanto con circoscrivibile. «Monci» ha i filamenti genetici di una approccio rock arricchito da potenti contrafforti jazz che mettono in risalto il talento chitarristico del band-leader, quale vessillifero di una fusion contemporanea e lungimirante, a cui l’energivoro assolo di batteria di Sabelli, per quasi un minuto e mezzo, aggiunge intensità e valore narrativo. «Vecchie case che non conosco» ha le sembianze di una ballata dal un sapore retro, profonda, introversa e ricca di accentazioni soulful, a cui il suono flautato aggiunge un sapore di luoghi lontani ed inesplorati., così come la successiva «Comete» si inabissa in un coacervo di sonorità che sembrano provenire da più punti dello scibile sonoro e che il sax riveste con un intrigante afflato orientaleggiante. «Libanza» è una composizione duale basata su un groove ed un incedere funkfied, ma con uno sviluppo melodico incastrato fra Mediterraneo e Balcani, su cui il sassofono di Federico Zoccatelli ricama una piacevole melodia a facile combustione. «Galaverna» si sostanzia come una ballata mineraria che emerge progressivamente sulle corde della chitarra di Crispino, vibrate su un’abrasività psichedelica, le quali sposano le istanze del flauto quasi danzante e cameristico di Stefano Benini e del digeridoo che ammanta l’habitat sonoro con nebulosità quai esoterica ed ancestrale. L’effettistica serve solo per creare una dimensione altra, mentre «Il cielo sopra Pozzolengo» diventa gravido di presagi e di nubi minacciose, ma sono solo suggestioni. «Grande Talpaplan» è un’endovena fusion, quale raccordo di elementi confluenti, che colgono aspetti differenti della narrazione sonora di ogni epoca. In chiusura compare l’unica composizione non originale, «Danza del cerchio», un tributo al musicista ungherese Béla Bartók, di cui Luca Crispino e i suoi pards dilatano lo spettro percettivo, pur mantenendo gli assunti basilari della partitura e quell’aura di sacralità quasi divinatoria.
In concreto «Diffrazioni» si dipana fra fusion-jazz espansa e improvvisazione come punto cardine del progetto, ma non mancano i ripetuti riferimenti etnici ed una certa visione onirica e sospesa di un universo rock sfaccettato e friabile, nonché incursioni nel progressive e nel new-folk. Sono molti gli ambiti musicali che hanno ispirato il quintetto di Luca Crispino, il quale basa il proprio concept una sorta di intimo scandaglio fatto ascolti, scambi, incontri ed esperienze soggettive e mai come aderenza manieristica e didattica ad una sorta di pattern mentale e creativo già precompilato e basato su teoremi e formulette facilmente applicabili alla bisogna.