Intervista a Guido Giazzi, direttore di Buscadero. «In Prima Media avevo citato Duke Ellington»

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Guido Giazzi

// di Guido Michelone //

Guido Giazzi è per tutti il direttore di «Buscadero», il mensile che da circa un quarantennio meglio identifica il rock d’autore con le scelte dei critici e i gusti di un pubblico coerente, affezionato, ma anche versatile che non disdegna il country, il blues, il folk, il soul e ‘di recente’ anche il jazz grazie a una rubrica di due pagine – iniziata e fino al 2022 condotta dal sottoscritto – che ogni mese dal 1999 presenta le principali novità del jazz americano ed europeo, pescando tra gli album di vecchie glorie e giovani emergenti per illustrare una costante indefessa attività. Guido è un fiume di parole che svela a tutti un’attività professionale che può ritenersi un fiore all’occhiello nella cultura italiana anche se ancora poco riconosciuta per colpa del solito amichettismo romanesco.

D Innanzitutto, chi è Guido Giazzi ?

R Settantun anni, sposato con un figlio (amante della musica rap). Vive a Milano. Laureato in Chimica, per più di quarant’anni product manager in una società americana, leader nel settore della strumentazione scientifica. Dal 1983 direttore della rivista musicale Buscadero. Nel 1986 ha creato con amici Vinilmania , la prima e più importante fiera del collezionismo discografico in Italia. Da alcuni anni è Presidente dell’associazione L’Isola della Musica Italiana. Oggi è molto attivo nel comitato di quartiere a Nord di Milano, la Bovisasca.

D Il primo ricordo musicale?

R Un flexidisc, pubblicità omaggio della Cera Grey con il brano Tom Doodley. E poi ricordo che al sabato mattina mio padre ascoltava Renato Carosone e i brani scelti dalle operette (Madame di Tebe le carte fa / Principe e plebe vengono qua…). Ricordo poi un bellissimo Giradischi Lesa, una fonovaligia di color bianco e rosso, con 4 opzioni 16 (mai usato), 45, 33 e 78 giri. Il passo successivo fu un giradischi del Reader’s Digest con cui si potevano ascoltare diversi LP in sequenza automatica. Un gioiello della tecnologia anni Sessanta.

D Ricordo infantile o giovanile legato al jazz ?

R Avevo visto dei filmati in televisione e questo genere di musica mi aveva particolarmente attratto. Ricordo che in Prima Media in un tema avevo citato Duke Elligton e la professoressa, sorpresa , sicuramente appassionata di jazz, mi fece molte domande per capire da dove usciva questa citazione. Negli anni Sessanta seguivo mio cugino Mario che con il suo gruppo dei Free Men si cimentava nei brani beat di successo. Alla sera io seguivo le prove del gruppo con il permesso dei miei genitori perché Mario, più grande di me, faceva da garante. Al termine delle prove, di notte, ci si sedeva fuori sul marciapiede in strada ad ascoltare il suono che usciva da una cantina limitrofa dove provava la Bovisa Jazz Band. Altro genere di musica suonato da professionisti.

D Quali sono i motivi che ti hanno spinto a occuparti di musica a livello giornalistico?

R Mi piace molto ascoltare la musica. Non ho o meglio cerco di non avere limiti. Musica a largo spettro, il linguaggio universale della musica arriva a tutti anche se non conosci il compositore, anche se non comprendi le parole delle canzoni anzi a volte è meglio non conoscere nulla per non farti influenzare sui giudizi. Poi amo molto scrivere. Mi piace molto il rapporto con la pagina bianca. A volte non so come affronterò il tema – l’editoriale, una recensione, un articolo monografico – ma è sufficiente porre le dita sulla tastiera e come per incanto si apre un mondo. Questo mi diverte moltissimo, mi auguro che sia lo stesso per chi mi legge.

D Il tuo nome per molti versi è indissolubilmente legato al mensile «Buscadero»: ci sveli il tuo pluridecennale rapporto con la testata sponsorizzata da Paolo Carù?

R Paolo Carù per chi non lo conoscesse è il responsabile di un negozio di dischi a Gallarate. Secondo il quotidiano inglese «The Guardian» il suo negozio in Piazza Garibaldi è stato valutato tra i primi dieci record shop europei in base alla qualità, alla conoscenza e alla varietà dell’offerta. Carù insieme ad altri amici ha fondato nel 1980 il mensile musicale Buscadero. Che la rivista sia ogni mese nelle edicole italiane da 44 anni è un piccolo miracolo: purtroppo ne sono accorti in pochi, ma per noi è importante resistere e promuovere gli artisti che più ci piacciono in completa libertà, senza ingerenze delle etichette discografiche. Io ho conosciuto Paolo molti anni fa durante un concerto di John Cale dei Velvet Underground al Rolling Stone di Milano. Era il 1983 e da poco era stato annunciato il primo concerto milanese di Van Morrison. Il tour italiano era stato organizzato da Claudio Trotta e con Paolo studiammo come poterlo intervistare. Il concerto fu bellissimo e alla sera, timidamente, ebbi una lunga chiacchierata con l’artista irlandese. Da quel momento la mia amicizia con Paolo e sua moglie Anna non si è mai interrotta: ricordo anche una stupenda vacanza in America con mia moglie e i Carù. Una vacanza ricca di ricordi ed emozioni tra bellissimi paesaggi e incontri incredibili con Johnny Cash, Jimmy Buffet e David Bromberg

D Come mai a un certo punto (lo ricordo anch’io perfettamente perché coinvolto in prima persona ) attorno al 2001 «Buscadero» si è aperto al jazz ?

R È una questione di crescita. Il piacere di ascoltare musica ti porta ad allargare i confini e ad abbattere le barriere mentali. Quando ero ragazzo ricordo Don’t let me be misunderstood nella versione di Eric Burdon e gli Animals poi scoprii l’interpretazione di Nina Simone e di molti altri artisti e ognuno arricchiva il brano con una intensità diversa. Stesso brano, nuove sensazioni. Agli amici rocker che non amano il jazz faccio loro ascoltare la versione di No Woman, No Cry di Bob Marley eseguita dall’Art Ensemble of Chicago (dall’album Ancient to the future vol.1 / Dreaming of the master series , inciso per la label giapponese DIW Records nel 1987). In questa versione che si apre con una rumoristica chiassosa, gli strumenti – le percussioni e soprattutto la tromba di Lester Bowie – creano un effetto particolare. Anche se non sai chi sono gli Art Ensemble non puoi non farti coinvolgere dalle loro magie sonore: è lo stesso soggetto di un quadro che conosci, riproposto con nuovi colori.

D E perché «Buscadero» invece non ha mai voluto occuparsi di rap, hip-hop, techno, dance che oggi piacciono tanto ai giovani?

R Avverto l’importanza della musica rap e dell’hip-hop come ribellione sociale. Quando noi eravamo ragazzi c’erano i figli dei fiori, la Summer of Love, pace e amore, il beat con i colori sgargianti e le minigonne, i fiori nei cannoni, poi la politica era interpretata da personaggi se non amati, sicuramente preparati e seri e la scienza era intesa con esse maiuscola. Oggi molte di queste certezze sono svanite: la politica interessa sempre meno, l’io è diventato più importate del noi, il narcisismo, amplificato dai social, ha toccato vette impensabili solo a qualche anno prima. Il rap con il maschilismo, il lusso strabordante, le catene, gli anelli, i tatuaggi, le auto sportive, i SUV, le piscine, le ville, le donne oggetto, il turpiloquio, non mi ha mai impressionato. Anni fa a Milano andai con mio figlio a vedere un concerto di Fifty Cent, braccio destro di Eminem: una delusione cocente. Comprendo la nascita del rap nelle periferie di tutto il mondo ma ho la sensazione che sia più un fenomeno sociale che una cultura musicale. Il rap italiano lo conosco poco anche se apprezzo molto il lavoro di Caparezza, trovo i suoi testi per nulla banali. Se la dance posso comprendere che diverta chi ama ballare, la techno la trovo davvero fredda e incapace di regalare emozioni.

D Esiste ancora un pubblico giovanile che come voi, ragazzi di mezzo secolo fa, ama il vostro rock intriso via via di folk, country, blues e r’n’r ?

R Sì, molto più di quanto si creda. Esistono per esempio anche molti artisti e molte band che si rifanno al blues riproponendolo in maniera originale. Recentemente ho ascoltato gli I Shot A Man, una band di Torino, che ripropongono uno stile chitarristico alla Ry Cooder impreziosendolo con toni afro, alla Bombinò. Molto bravi. È un peccato che queste band – folk, country e blues – non riescono ad avere passaggi televisivi. Sono completamente ignorati dai media, ed è un vero peccato. Veronica Sbergia e Max De Bernardi, lui il miglior interprete italiano e forse europeo di finger picking, sono molto più noti all’estero, grazie alle continue tournée e ai festival a cui sono invitati, che sul suolo nazionale.

D Ma chi è il lettore-tipo di «Buscadero»? Quali i gusti musicali? Come si rapporta al jazz?

R Il lettore tipo è un uomo di mezza età che nonostante Spotify ed altre meraviglie continua mensilmente ad acquistare ed ascoltare LP e CD. Hai presente quando Dylan, Cohen, Neil Young ed altri grandi personaggi promuovono album o cofanetti limited edition: ecco molti lettori buscaderiani che hanno già la discografia completa degli artisti che più amano, non si lasciano sfuggire queste rarità. Molti dei nostri lettori ci seguono fedelmente dal primo numero ed è questo zoccolo duro, uno dei punti di forza della rivista. In molti casi alcuni genitori riescono a trasmettere la passione della musica ai propri figli. Ed è un piacere incontrare genitori e prole durante i Buscadero Day, vera festa degli appassionati buscaderiani. Il Buscaderiano è un lettore attento che consulta o meglio divora, la rivista da cima a fondo, si annota le considerazioni e non dimentica nulla. Se qualche anno prima hai recensito un album dandogli solo tre stellette di merito, quando il Buscaderiano ti incontra ai concerti, anche se è passato molto tempo, non dimentica di ribadirti il giudizio, secondo lui, eccessivamente negativo. Il «Buscadero» è quindi una guida agli acquisti per i nostri lettori che si basano molto sul giudizio dei redattori per valutare al meglio un album. Oltre allo stuolo di fedeli lettori devo segnalare il team di redattori e di collaboratori che ci accompagna da lunga data: Mauro Zambellini, Lino Brunetti, Andrea Trevaini, Gianfranco Callieri, Raffaele Galli, Helga Franzetti, Marco Verdi, Daniele Ghiro, Guido Michelone, Luca Salmini, Paolo Carnevale e molti altri. In breve, un ottimo e preparato team.

D La rivista ha altre pecularità in merito alle scelte artistico-musicali?

R Compito poi del «Buscadero» è quello di individuare gli artisti emergenti che potrebbero diventare in seguito le colonne della rivista come Bob Dylan, Van Morrison, Tom Waits, Johnny Cash, Nick Cave, Neil Young, Bruce Springsteen, Joe Ely e molti altri. Il «Buscadero» nasce come rock magazine ma oggi è una rivista aperta a vari generi e il jazz gioca un ruolo importante , perché pur rimanendo di nicchia, attrae moltissimo i lettori del Busca e poi i festival estivi danno una grande visibilità a molti artisti e oltre ai classici senza tempo – Miles Davis, Duke Elligton ed altri – personaggi quali Paolo Fresu, Stefano Bollani ed altri sono molto seguiti.

D Parlando di jazz, tu lo ascolti ? Quali jazzmen preferisci?

R Sì, lo ascolto e mi piace molto. Non amo, lo dichiaro subito, il free jazz perché faccio fatica a comprenderlo. Amo molto Duke Elligton e i suoi solisti – per esempio Johnny Hodges (Side by Side e Back to Back, su tutto), apprezzo molto Thelonious Monk e le sue pause pianistiche. L’album Monk (Columbia 1964) lo ritroverai tra i miei album preferiti. Tra i pianisti jazz ho una passione particolare per Art Tatum, Lennie Tristano e Earl Hines. E poi Charlie Mingus, conosciuto attraverso il gruppo folk inglese dei Pentangle, il chitarrista Charlie Christian, Kenny Burrell e la formazione di John Coltrane di Traneing In (Prestige 1959) con Red Garland al piano e Paul Chambers al basso.

D Sei d’accordo che senza la grande musica afroamericana di oltre un secolo fa – non solo jazz ma anche blues e spiritual – forse il rock (e quello che è arrivato dopo) non sarebbe esistito?

R Verissimo. Il rock ha preso a pieni mani dal blues e dal gospel, e se ascolti un po’ di musica non puoi non comprendere come la musica nera sia stata la base di tutto. Anni fa per lavoro ero a New Orleans e la moglie di un mio collega , appassionata di musica e frequentatrice del festival locale, una sera mi invitò a sentire un big band . Il concerto iniziava alle 20.00 ma lei mi confermava che era necessario arrivare prima. Il locale era quanto di più anonimo (e squallido) potesse esserci, sembrava una autofficina senza macchine. Alle sette con un bicchiere di birra in mano mi chiedevo dove diavolo mi aveva portato la mia amica. Poco prima delle otto arrivò la band: un gruppo , non esagero, di venti persone di età variabile dai sedici agli ottant’anni. Gli abiti lasciavano a desiderare posso solo dire che erano molto molto casual. (Molti americani non amano N.O. è troppo distante , e non solo spazialmente, da New York o Los Angeles). Poi la band iniziò a suonare e lì capii molte cose. Capii qual è la forza della musica e qual è l’impatto della musica dal vivo. La band ci dava dentro : dopo pochi minuti l’anonimo hangar era diventato una bolgia incredibile. Il pubblico che qualche minuto prima attendeva con il bicchiere in mano, ora si scatenava sulla pista – le donne reagivano prima, molto prima degli uomini – i brani duravano 20 – 25 minuti per dare a tutti la possibilità di improvvisare e fare gli assolo. Il trombonista, dopo aver eseguito il suo solo, scese dal palco fece una telefonato col cellulare, risalì sul palco, si inserì tra i componenti del gruppo e riprese a suonare, inserendosi perfettamente, come se nulla fosse successo. Quello che mi colpi fu l’onda d’urto: furono sufficienti pochi minuti per scatenare il pubblico, innalzare la temperatura e vedere la gioia sui volti dei presenti mentre i musicisti, senza spartiti e senza direzione, improvvisano sul palco. Una esperienza bellissima e unica.

D Tra i milioni di dischi che hai ascoltato ce n’è uno a cui sei particolarmente affezionato? E perché?

R Sicuramente più di uno. Il primo che mi vieni in mente è senza dubbio Sonny & Brownie di Sonny Terry & Brownie McGhee (A&M , 1973). Questo album mi ricorda un bel periodo della mia vita, studiavo all’Università e spesso ci si trovava in casa di amici ad ascoltare gli album in religioso silenzio. A volte, per gli album lungamente attesi, si abbassavano le tapparelle, si accendevano le candele e in silenzio, si ascoltavano le canzoni. Altro che i due minuti di YouTube. I bluesmen Sonny Terry, armonicista, e Brownie McGhee, chitarrista avevano inciso questo album per la prestigiosa label A&M e avevano invitato in sala di registrazione molti artisti di fama quali il bluesman inglese John Mayall, il violinista Sugacane Harris, Arlo Guthrie, John Hammond jr. e altri ospiti. La scelta del repertorio aveva fatto poi storcere il naso ai puristi perché insieme a brani religiosi (Jesus gonna make it alright ) e a brani quali People Get Ready di Curtis Mayfield, splendida versione, e Bring it home on me di Sam Cooke avevano poi inserito brani pop quali l’ironica Sail Away del musicista americano Randy Newman.

D Ancora un disco, se vuoi…

R Oltre a questo Sonny & Brownie, che ho ascoltato, regalato e pubblicizzato in ogni modo (oggi ahimè fuori catalogo) vorrei segnalare anche l’album di John Lee Hooker, altro grandissimo bluesman, dal titolo Never Get Out Of These Blues Alive (ABC Records 1972). In questo album vi è un brano, notturno lo stesso che dà il titolo all’album in cui John Lee si esibisce in duetto con Van Morrison, il mio artista preferito. La canzone è cupa e ipnotica e a questo brano ci lego un ricordo personale. Intervistai Hooker per telefono e tra il mio inglese non perfetto e il suo American slang un po’ difficile da comprendere, ci facemmo molte risate ma quando gli chiesi se si ricordava del brano cantato con Morrison lui me lo improvvisò al telefono a cappella per tre minuti. Una delle maggiori soddisfazioni avute nella mia vita: John Lee Hooker che canta solo per me.

D E tra i dischi che hai amato quali porteresti sull’isola deserta ?

R Ti rispondo immediatamente: Veedon Fleece di Van Morrison, Blood on Tracks di Bob Dylan, Heartattack and Vine, Tom Waits, Monk di Thelonious Monk, Amtrak Blues di Alberta Hunter, Radici di Francesco Guccini. Ma, come il protagonista di Alta Fedeltà, il romanzo di Nick Hornby, se la domanda me la riproponi tra due ore, i titoli potrebbero cambiare…

D Quali sono stati i tuoi idoli o maestri nella musica, nella cultura, nella vita?

R Senza dubbio Primo Levi, chimico e scrittore. Il libro La chiave a stella ma anche Il Sistema Periodico, mi ha insegnato l’etica del lavoro, il cercare di fare bene le cose, per te stesso e per gli altri. Mio padre, mantovano di origine, quando uscivo per andare a scuola mi diceva sempre «Fa bello» che voleva non solo dire comportati bene ma cerca di dare il massimo, dai tutto quello che hai. È uno stimolo che mi è servito molto nell’ambiente del lavoro e in ambito giornalistico. Musicalmente parlando noi del «Buscadero» siamo molto attratti dalla personalità di Van Morrison. Van the Man è un po’ il simbolo della nostra rivista perché continua a produrre ininterrottamente album incidendoli come piace a lui, senza subire le ingerenze dei marketing manager delle major, sempre con la massima libertà di scelta, a volte in netto contrasto con le più elementari forme promozione discografica. Uno spirito libero che a 78 anni continua a registrare ottimi album e a divertirsi a suonare.

D Il momento più bello della tua carriera giornalistica?

R Molti sono stati gli incontri che mi hanno fatto amare questo lavoro. Il poter dialogare con Francesco Guccini o Fabrizio De Andrè, conversare con Leonard Cohen o Van Morrison mi ha aperto il cuore. Ho dei bellissimi ricordi anche di Virgilio Savona del Quartetto Cetra, a casa sua a Milano in Zona Fiera. Un incontro che doveva durare 40 minuti si prolungò per quattro ore e lui davanti al pianoforte dove il Quartetto si trovava a provare, mi ha raccontato la sua vita e molti aneddoti . E poi John Martyn, Maria Monti, Giovanna Marini, una fragile e indifesa Sinead O’Connor e molti altri. E poi l’incontro con il chitarrista blues Roy Buchanan a Brisbane in Australia. Lui aveva suonato in un locale, ma alle 22.00 il club si trasformava in una discoteca . E ricordo che nel backstage parlammo molto e vedevo lo stupore negli occhi di quest’uomo mite, stupito di parlare di notte con un italiano che veniva dall’altra parte del mondo. Quando Buchanan si tolse la vita per me fu un grande dolore.

D E l’intervista che più ti sta a cuore?

R Forse è quella con Giovanni Sinchetto della EsseGEsse. Santon con Guzzon e Sartoris erano i creatori di Blek Macigno, un fumetto che mi aveva appassionato quando ero ragazzo nei primi anni Sessanta. Blek, era un uomo molto forte, ma non aveva superpoteri inoltre la sua strategia “politica”, rendere l’America libera dal giogo inglese, era guidata dall’Avvocato Connolly, l’uomo pensante del movimento. Quindi il forzuto Blek era il leader carismatico alla guida dei suoi trapper ma sapeva essere umile nel comprendere e seguire quelli che avevano studiato. Blek poi era onestissimo, e per me e per molti miei coetanei questo credere negli ideali fu un insegnamento importante. E per questo sono molto grato al sig. Sinchetto.

D Come vedi la situazione della musica in Italia ?

R È senza dubbio un periodo interessante. Molti artisti giovani si affacciano alla ribalta musicale , purtroppo i tempi sono cambiati. Anni fa gli A&R delle case discografiche avevano modo di seguire e veder crescere gli artisti – John Hammond, grande talent scout americano scopritore di Aretha Franklin, Bruce Springsteen, Billie Holiday e molti altri diede fiducia al giovane Dylan che vendette 300 copie del suo primo album ma nel successivo Freewheelin’ (che includeva Blowin’ In The Wind) ripagò Hammond della lungimiranza – oggi purtroppo non c’è più tempo. Prima l’artista poteva dedicarsi alla composizione oggi deve valutare il look, deve avere un social manager molto attivo, deve curare i propri video e la propria immagine. Il successo dei recenti Festival di Sanremo sancisce la vittoria del download sulla qualità degli artisti: hai milioni di followers, devi essere bravissimo.

D Intendi dire che oggigiorno tutto risulta più comodo o semplicistico?

R Prima, arrivare in sala d’incisione era un traguardo, adesso è tutto molto facile. Incidere è semplice, puoi farlo da casa tua senza grossi investimenti. Il problema è come emergere tra migliaia di giovani autori. Tornando alla domanda finale: la situazione musicale italiana è molto interessante ci sono molti artisti che meriterebbero una maggior e visibilità. Forse, piccolo consiglio, la televisione e le radio dovrebbero aprirsi maggiormente alle giovani band. Ricordo che nel Late Show di David Letterman, famoso programma televisivo americano, vi era sempre un ospite musicale che suonava dal vivo. Una sera poteva essere la rock star che veleggiava ai primi posti in classifica, altre sera una band senza contratto discografico. Un bel modo per farsi conoscere davanti ad una vasta platea. Ci vorrebbe solo un po’ di coraggio.

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