Sacco1

Pier Luigi Sacco

// di Guido Michelone //

Nel nostro Paese il discorso sulle arti – dove il jazz naturalmente rientra a pieno titolo – andrebbe inquadrato in un più ampio ragionamento sul mondo della cultura, partendo magari dalle riflessioni, risalenti a circa vent’anni fa (ma tuttora attualissime, anche perché ‘tradotte’ nel libro Italia reloaded del 2019) del sociologo Pier Luigi Sacco, docente ordinario di Economia della Conoscenza, il quale trova che in Italia persiste un singolare atteggiamento che, istituzionalmente, riguarda anzitutto l’impossibilità di valutare la percentuale dei beni artistico-culturali rispetto all’intero territorio: si tratta di una lacune che ha quale negativa conseguenza la mancanza di statistiche credibili sul patrimonio medesimo (basti pensare, nel caso del jazz, al numero di festival presenti o a quello dei dischi pubblicati annualmente, su cui mancano dati concreti oggettivi e soprattutto disponibili). A molti basta consolarsi con questo grande patrimonio italiano – per alcuni i due terzi di beni artistici dell’intero Pianeta – per essere contenti e soddisfatti, mentre invece costoro assomigliano un po’ ai nipotini scemi eredi di chi ha costruito con le proprie mani una grande ricchezza.

La cultura – di cui l’arte è un elemento indispensabile – invece necessita oggigiorno, a maggior ragione, di un atto di coraggio, di fiducia nelle proprie capacità realizzative per combattere la paura del futuro che genera nevrosi. E infatti i paragoni con l’estero sono schiaccianti: in Svezia il 93% dei cittadini partecipa ad attività culturali, in Italia solo il 49%, perché l’italiano medio – la cui ‘medietà’, aka ‘mediocrità’ è soprattutto mentale non socioeconomica, come mostrano i caso di analfabetismo di ritorno di molti neo-arricchiti – pensa comunemente che l’arte e la cultura siano irrilevanti, che non facciano parte della vera vita, ma siano soltanto da collegare al tempo libero o al passatempo inutile o disimpegnante. Nel resto d’Europa, soprattutto al Nord, arte e cultura – e a maggior ragione la musica, in particolare il jazz – sono invece elementi portanti di un processo civile ed educativo che è in grado di produrre valore sociale (e volendo anche valore economico).

Sacco, da buon sociologo, divide la cultura in tre macro-settori rispetto all’economia moderna, per un totale di undici settori. Il primo riguarda i tre settori di nucleo che, per tradizione, se sponsorizzati dalle istituzioni pubbliche, non producono direttamente i profitti: le arti visive, le arti performative (teatro, concerti, opera, danza), il patrimonio storico (musei compresi). Il secondo concerne le cinque industrie culturali nate tra Otto e Novecento: editoria, musica (dischi), cinema, radiotelevisione, videogiochi. Il terzo le tre industrie creative del design (moda compresa), della pubblicità, della progettazione urbanistico-archittetonica.

Breve digressione, per capire meglio: il jazz dal vivo è un’arte performativa alla stregua del rock, del pop, del rap e della classica e dunque rientra nel primo macro-settore; ma è pure presente nel secondo con l’industria musicale (discografica) e anche con riflessi indiretti su cinema e radiotelevisione, anche alcune attività creative del terzo macro-settore utilizzano direttamente (pubblicità) o indirettamente (design e architettura), dove l’immagine o l’idea del jazz vengono impiegate scopi extramusicali (nella produzioni ad esempio di oggetti e gadget o fabbricati quali teatri, club, auditorium).

Tutte assieme i tre macro-settori fatturano in Italia il doppio dell’industria automobilistica, confermandosi una priorità economica nazionale. Ma l’arte e la cultura restano un settore dell’imprenditoria trascurato sia dall’agenda politica sia da quella culturale, mentre sarebbe necessario poter integre le competenze culturali alla qualità della vita, poiché tali competenze costruirebbero un processo esistenziale importantissimo, come dimostra un documento dell’Unione Europea del 2009 in cui si spiega che esiste un rapporto profondo tra cultura e innovazione. A questo proposito si nota facilmente come gestione, organizzazione, informazione, sponsorizzazione del jazz medesimo vengano gestite in modo dilettantesco, approssimativo, clientelare (talvolta anche in buona fede) non solo per la cronica ‘mancanza di soldi’ (di cui tutti si lamentano, spesso a ragione), ma per le maniere di cercare, spendere, elargire il denaro medesimo da parte di presunti ‘addetti ai lavori’ portati avanti da politici, amministratori, amici, colleghi, parenti di dubbie capacità realizzative. Dunque meno improvvisazione e più economia della conoscenza, perché non si sta ovviamente parlano di improvvisazione jazzistica.

Pier Luigi Sacco

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *