Sabrina Sparti: del sé intimo o di ciò che siamo o vediamo nella società
// di Guido Michelone //
d Sabrina, anzitutto, così un po’ a bruciapelo, tre aggettivi per definire te stessa?
R Definirmi con tre soli aggettivi non mi è cosa facile. Sono una donna eclettica, curiosa e piena di energia. Bene! Ci sono riuscita.
D E adesso raccontaci gli inizi della tua carriera musicale…
R Come dicevo poc’anzi, sono un’artista poliedrica e multiforme, spazio dal jazz alla musica classica, dal cabaret al musical, dall’avanguardia accademica fino alla musica di confine. Ho studiato canto lirico da privatista e iniziato la mia carriera cantando come voce solista in diversi cori gospel, mi sono avvicinata al Jazz quando ho iniziato a seguire i corsi di canto e musica presso il CPM di Milano con Tiziana Ghiglioni, Roberto Cipelli e Andrea Bianchi. Questo è stato il punto di partenza di una sempre più estesa ricerca nella vocalità, anche estrema. A questo scopo ho seguito molti seminari con importanti figure del panorama internazionale, quali: Wes Carrol dei House Jack, Kaya M. Anderson del Roy Hart Theatre di Londra, l’attore e cantante Carl Anderson, Jonathan Rathone dei Single Singers, Barbara Baker della Eleonor Roosevelt High School di Greenberlt, Albert Hera, Lorenzo Pierobon per il Canto armonico, Wes Carroll per Month Drumming.
D Possiamo parlare di te come jazz singer, popsinger, folk singer o altro ancora?
R Non mi definirei una jazz woman o jazzsinger, o comunque, non soltanto, la mia ricerca vocale mi ha portato a varcare tanti confini. Mi sono cimentata e divertita a fondere generi, stili e modalità canore. Non amo avere dei limiti, sono troppo curiosa e ricolma di vitalità per fermarmi ad esplorare un solo ambito e rimanere incastrata in una definizione. Mi piace pensare alla musica, non come a un genere, ma a come uno stratificato e complesso insieme di suoni. In fondo ciò che ci ha insegnato il Jazz è proprio questo: la ricerca, la sperimentazione e la fusione.
D Ha ancora senso oggi la parola ‘jazz’?
R Il jazz oggi è accademia o ricerca. Nei conservatori si insegna la sua struttura e la sua storia passata, ma i musicisti, sempre che non rimangano incastrati in un contesto accademico, possono ancora dire molto attraverso il jazz, ma solo pensando al Jazz come ad un’idea e non ad un genere musicale. Penso che oggi il jazz dovrebbe essere inserito in ambiti pluridisciplinari per poter avere una scappattoia, se così possiamo dire, dalle briglie squisitamente accademiche. Il jazz conserva ancora intatta la sua anima, i suoi principi di libertà, espressione sociale e personale e interscambio culturale, anzi fusione culturale. E’ questa sua natura democratica e libera, che può insegnare molto anche alle nuove generazioni. Personalmente cerco sempre di lavorare a progetti pluridisciplinari, dove la musica non è la prima protagonista, ma una componente di una performance complessa, penso che lavorando in questa maniera, si lasci sempre uno spazio aperto alla creatività musicale e si ispiri l’improvvisazione fornendo spunti inaspettati, aiutandoci a non cadere in cliché. A questo scopo, come ho già anticipato sopra, mi sono divertita moltissimo lavorando con artisti di diverse arti, scultori, pittori, fotografi, ballerini, attori, registi.
D Esiste invece qualcosa di definibile come jazz italiano?
R Il jazz come dicevo è fusione, quindi il jazz italiano non è altro che la nostra cultura che ne incontra altre e da libero sfogo alla creatività improvvisativa. La musica è come l’acqua si adatta a diverse forme senza cambiare la sua essenza.
D Cosa distingue, per te, l’approccio – anche nel canto – del jazz americano da quello europeo?
R Io ho una formazione classica, ho studiato canto lirico anche se poi la mia ricerca, come dicevo, si è orientata in diverse direzioni e il mio vagare fra diversi generi, mi ha portato a contaminarmi. La voce ha delle potenzialità così immense, che sarebbe un peccato non provare ad usarne il più possibile.
Io ho fatto free jazz, classical jazz e contemporary jazz, fondendo diverse tecniche vocali, anche estreme. Le differenze stanno nel modo di usare i risuonatori, la nostra lingua madre ci modifica per pronunciare in determinate maniere, ma il canto ci insegna a riappropriarci di tanti suoni che generalmente non utilizixamo nella nostra lingua d’origine. E per questa ragione che preferisco usare la voce come fosse uno strumento, mi libero volentieri dal vincolo delle parole, anche se ne riconosco l’immenso fascino, di significato e fonetico.
D Come si può invece e vedere la questione da un punto di vista politico?
R Il Jazz ha rappresentato qualcosa di estremamente importante per gli americani e afroamericani. In Italia si conobbe il jazz a partire dagli anni 20/30 quando arrivarono delle piccole formazioni orchestrali Swing dall’America. Gli italiani, allora, percepirono questa nuova musica americana come divertente e adatta a far ballare nei locali notturni di Roma, Milano, Torino e Napoli. Poi col fascismo non la si sarebbe più sentita neppure alla radio. E’ in seguito, dopo la seconda guerra mondiale, che si cominciò a sentire nei Hot Clubs quelle forme di jazz artistico e di conquista intellettuale rivendicata dalle comunità afro-americane. Gli italiani, penso che ne percepirono da subito il grande potere comunicativo, emencipativo e di libertà ed è a questo punto della storia che comparvero sulla scena grandi artisti autoctoni come Gorni Kramer, Franco Cerri, Gilberto Cuppini. Mio padre, insieme ai suoi amici, amava seguire i concerti Jazz, al tempo soprattutto di genere dixieland, delle neonate formazioni lombarde, mi parlava spesso della Original Lambro Jazz Band e quando arrivarono a Milano e Roma grandi nomi quali Carlie Parker, Dizzy Gillespie, Ella Fitzgerald, lui e la sua compagnia di amici matti per il Jazz, si diedero una gran daffare per partecipare e conquistarsi le prime file, anche se spesso non ci riuscirono. A Milano il jazz si poteva sentire al Capolinea, alle Scimmie, al Santa Tecla e in altri jazz club. Poi è diventato molto bourgeois. Il Jazz ora si è allontanato dalla gente, è diventato un genere musicale da preservare, studiare e suonare, non è più l’espressione di un’idea di emancipazione, liberta espressiva e di ricerca. Forse perchè i tempi sono cambiati, prima tutto era visto in un’ottica politica, ma oggi come si può pensare di fare politica vera in un mondo in cui i politici si promuovo, non attraverso dei programmi con dei contenuti sociali e d’ideali validi, ma come farebbe un personaggio dello spettacolo, è tutta una “messa in scena”. Senza contare che le opinioni delle masse sono in mano a dagli “influencers”.
R Ma il jazz deve parlare – attraverso i suoni o i testi dei brani – di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?
D Attraverso dei suoni, anche solo un vocalizzo, si possono dire molte cose, anche più che con un testo ricco ed articolato. Il jazz può essere espressione del sé intimo o di ciò che siamo o vediamo nella società, questo dipende da come l’artista preferisce fare, dipende dalla sua personalità. A volte ci si trova a fare politica senza neanche saperlo, basta un atteggiamento, un invito, un’ispirazione, per smuovere nelle persone diverse reazioni o interpretazioni. Io personalmente osservo molto la nostra società, mio marito, mi prende in giro, dice che mi diletto nelle mie ricerche antropologiche, il fatto è che incontro molte persone nel mio lavoro d’artista ed insegnante e spesso ho tratto ispirazione, per le mie composizioni, pittoriche o musicali, dai comportamenti che ho potuto osservare ed dai pensieri che le persone hanno voluto condividere con me. La politica, le tematiche sociali ed ambientali, la filosofia sono solo espressione delle azioni e delle idee delle persone. Il Jazz che mi piace è quello che ci da la possibilità di metterci in discussione. Lev Tolstoj diceva che l’uomo vuole cambiare il mondo, ma mai sé stesso, per questo il mondo non cambia mai. Prima dicevo che la musica è come l’acqua, si adatta a diverse forme, senza mai cambiare la sua essenza. È da questa straordinaria caratteristica della musica che dovremmo tutti prendere ispirazione per imparare a cambiare, a trasformarci per incontrare ciò che è fuori da noi e gli altri.
D Il jazz è un mondo maschilista? Ti ha pesato o ti pesa essere donna nel jazz?
R Molte cose e molti ambiti sono maschilisti, i miei colleghi comunque mi hanno sempre trattato con molto rispetto e considerandomi al loro pari. Ho avuto la fortuna di fare musica con dei signori del jazz, uno fra tutti, Renato Sellani, un vero gentleman. Solo raramente mi sono sentita a disagio con dei musicisti e solo una volta mi sono sentita il soggetto di un atteggiamento maschilista, mi sono sentita come fossi un oggettino ornamentale, non dirò con chi per educazione.
D Sabrina, infine cosa pensi dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana (jazz compreso=?
Siamo stati la culla della civiltà mediterranea, ora non lo siamo più. In Italia ci sono ancora degli ottimi creativi, ma non hanno spazi, soldi e sostegno per esprimersi e questo succede in ogni campo.
R Ciò non significa che comunque, chi lavora in ambito culturale, debba arrendersi. Bisogna ingegnarsi per trovare fondi, per destreggiarsi in un mare di burocrazia che certo non aiuta. L’unione fa la forza! Dov’è possibile, è necessario cercare di unire le competenze, le disponibilità finanziarie, gli spazi, il tempo (preziosissimo) dei volontari e darsi una mano per non interrompere il progredire e l’evolversi della cultura in Italia.