// di Francesco Cataldo Verrina //

È convinzione largamente diffusa che tutti gli album di Woody Shaw debbano essere presi in seria considerazione e che difficilmente all’interno del catalogo dello «sventurato» trombettista esistano dischi che non riescano a soddisfare lo studioso, come il jazzofilo più esigente, dai gusti ricercati. Si potrebbe affermare, senza tema di smentita, che nella musica di Shaw esista una naturale magniloquenza e che il suo intero corpus discografico andrebbe studiato ed analizzato con attenzione. Sappiamo bene che il trombettista ha non avuto una vita facile, sia artisticamente che sul piano personale: ipovedente sin dalla nascita, morì tragicamente in un incidente della metropolitana a soli quarantacinque anni, mentre la sua carriera cominciava lentamente a decollare e qualche riconoscimento iniziava ad arrivare, nonostante il ritardo della critica, talvolta distratta ed intenta a sguazzare in una sorta di zona comfort. Woody Shaw, nasce in North Corolina, ma presto i genitori si trasferiscono, armi e bagagli, nel New Jersey; la sua unica fortuna fu quella di crescere in una famiglia che amava la musica. Il padre faceva parte di un gruppo gospel, Diamond Jubilee Singers, mentre la madre aveva frequentato la stessa scuola secondaria di Dizzy Gillespie, quindi, per ammirazione verso l’ex-compagno di liceo, pensò di avviare il figlio allo studio della tromba.

Il giovane Woody mostrò di avere un talento precoce, ciononostante la sua tormentata carriera fu tutta in salita. Le collaborazioni importanti non bastarono ad aprirgli subito le porte delle case discografiche, che stentarono ad intercettarne la genialità e la lungimiranza. Dopo un primo album «In The Beginning» (conosciuto anche come «Cassandranite», in parte rifiutato dalla Blue Note), pubblicato dalla Muse nel 1965, il trombettista dovette attendere almeno cinque anni prima di inciderne un altro come band-leader. Diversamente, negli anni Settanta, in cui il jazz si aprì alla sperimentazione e alle avanguardie, molti artisti post-bop capaci di svecchiare il vernacolo bop, trovarono più calda accoglienza nell’ambito della discografia e Shaw pubblicò, quasi con cadenza annuale, ben undici album. Oggi, ex-post, Woody è considerato come l’ultimo vero innovatore del linguaggio improvvisativo della tromba moderna ed è spesso indicato da molti musicisti venuti dopo come un’influenza imprescindibile; soprattutto alcune delle sue produzioni migliori sono legate agli anni Ottanta, fino alla sua morte avvenuta nel 1989: sono di questo decennio quindici album ed una serie infinita di collaborazioni eccellenti.

In questo ventaglio di pubblicazioni spicca «Lotus Flower» registrato Il 7 gennaio 1982, presso i Vanguard Studios di New York, ed immesso sul mercato lo stesso anno dall’etichetta Enja. Woody Shaw, tromba e flicorno, è alla testa di uno dei quintetti più compatti di quel decennio, con Steve Turre trombone, Mulgrew Miller pianoforte, Stafford James contrabbasso e Tony Reedus batteria. Il line-up si misura su cinque composizione di durata variabile, alcune piuttosto dilatate; due scritte dallo stesso band-leader, mentre le altre tre vedono in calce la firma, rispettivamente, di Mulgrew Miller, Stafford James e Steve Turre. Anche in tale circostanza il trombettista diede prova di essere un rivoluzionario in grado di espandere le tecniche melodico-armoniche del costrutto jazzistico e di giocare sugli andamenti melodici, solitamente impiegati dai sassofonisti, attraverso l’uso frequente di intervalli di quarta e di quinta durante la fase improvvisativa.

«Lotus Flowers» è un disco che guarda avanti, pur raccogliendo vari stimoli dalle passate stagioni del jazz moderno. La prima facciata, che possiamo considerare come la camera degli ospiti, contiene le tre composizioni dei sodali e si apre con «Eastern Joy Dance» a firma Miller. Il pianista è autore di un serpentino mid-range disteso sulla lunghezza di oltre nove minuti, costruito su una tela sonora a maglie larghe, tanto da consentire ai compagni di squadra di inerirsi agevolmente. La consistente introduzione dominata dal pianista-autore, quasi a voler apporre un sigillo sulla sua creatura, sembra un’appropriazione indebita dello spazio da parte di un piano trio, mentre i fiati sono a riposo forzato, ma ce n’è per tutti. L’arrivo dei degli ottoni, i quali si lanciano in un dialogo chiaro e convincente, ci ricorda che le coordinate del progetto sono altre; nello specifico, per tutto l’asse centrale del brano, la sezione ritmica fa il suo compito agevolando le variazioni tematiche del front-line. Sul finale una cambiamento di mood consente al pianoforte di inserirsi nelle serrato dibattito sonoro con innesti rapidi, adattandosi all’indole dei fiati. «Game», uscito dal cilindro magico di Stafford James, dopo un inizio a fanfara, concede al basso l’onere e l’onore di introdurre il tema. Trattasi di un post-bop intarsiato di funk e propedeutico all’ingesso del trombone. Lo svolgimento tematico risulta locupletato da un groove costante che si intensifica con l’arrivo della tromba di Shaw, il quale ne amplia la visuale attraverso una spirale concentrica di mutazioni melodiche che costringono la sezione ritmica a girare su sé stessa; persino il piano deve mettere le ali ai piedi quando arriva il suo turno. Il finale è il classico tutti per uno, uno per tutti, come nella migliore tradizione bop. La prima parte si chiude con la title-track, «Lotus Flower», scritta dal bassista. Musicalmente non v’ è nulla di Giapponese, ma sappiamo che in quegli anni la terra del Sol Levante era una meta molto ambita dai jazzisti americani. Si potrebbe pensare ad una captatio benevolentiae, ma in realtà è solo un modo come un altro per declinare un post-bop corazzato e ricco di combinazioni contrappuntistiche, dove ognuno dei solisti trova la sua giusta collocazione ed lo spazio abitativo ideale.

La B-side si apre con una delle due composizioni di Shaw, «Rahsaan’s Run», impiantata su una struttura armonica che consente subito alla prima linea di scattare in velocità, senza esitazione senza aria ferma e con il respiro trattenuto. Ciononostante Shaw, imbeccato da Turre, disegna un tema ricco di cromatismi melodici. L’arrivo del pianoforte mantiene il livello della performance ad una temperatura costante con una serie di note zampillanti che fuoriescono dalla tastiera a getto continuo, mentre nella seconda parte, i fiati battibeccano con la retroguardia ritmica, specie la batteria che fa da rampa di lancio ai riff veloci, quasi ostinati, del band-leader. In conclusione, l’altra zampata creativa del trombettista, «Song Of Songs», un’espressione per dire il «cantico dei cantici», ma di biblica c’è innanzitutto la lunghezza, ossia oltre undici minuti, e la struttura narrativa che sembra basata su varie strofe, come se fossero i capitoli di un racconto. Il movimento, a tratti orientaleggiante e progressivo, possiede qualcosa di evocativo e di spirituale, rappresentando sicuramente il climax compositivo dell’album. L’ampiezza del costrutto, ricco di incontri e scontri al vertice, consente a tutti i sodali, in special modo ai solisti, di esprimersi in maniera sostanziosa. «Lotus Flower», che non dovrebbe mancare in nessuna collezione di dischi jazz che si rispetti, pur non essendo un disco rivoluzionario, è la conferma del talento di uno dei più innovativi trombettisti della storia del jazz, spesso ignorato o sfuggito al controllo dei radar.

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