A proposito di John Zorn…
//di Gianni Morelenbaum Gualberto//
I settant’anni di John Zorn sono stati giustamente celebrati: siamo in presenza di un artista di genio, che ha saputo raccogliere l’eredità del radicalismo sviluppatosi nel cosiddetto post-free jazz riversandola nell’eclettica frenesia fagocitante del postmodernismo e mediandola attraverso un’indomita e inarrestabilmente curiosa tradizione ebraica. Intellettuale pragmatico, essenzialmente autodidatta, di vivissima intelligenza, egli ha incarnato nel corso degli anni Novanta lo spirito di Downtown e della Radical Jewish Culture, forse la sua più grande, meritevole e memorabile realizzazione artistica. La vitalità del negativo che egli ha manifestato nei confronti delle avanguardie del tardo Novecento ha contribuito a smantellare e a destrutturare l’apparente e immutabile integrità di più linguaggi storici, sia accademici che popolari.
La sua capacità di negoziare una propria individualità linguistica in un territorio occupato contemporaneamente da più realtà diverse e significative, rimane esempio illuminante di costruzione di un vocabolario musicale originale quanto fortemente contaminato, che lo stesso Zorn fa fatica a sistematizzare fra scrittura e improvvisazione, fra interpretazione e adesione ad una testualità, fra libertà e il rigore di forme fortemente strutturate, fra personaggio pubblico e autore, fra autonomia ed eteronomia. Il musicista ha saputo delineare una propria filosofia musicale fatta di contraddizioni irrisolte eppure decisamente omogenea e ben felice di porsi al di fuori delle regole di qualsiasi musicologia. La sua abilità nel giocare con formule consolidate, alterandole costantemente, di modificare e creare formazioni avvalendosi di strumentisti eccellenti quanto a lui vicini culturalmente, insomma di sparigliare senza sosta, gli ha permesso di godere anche in età non più verde della fama di assoluto wunderkind, di intellettuale ironico e ombroso eppure popolare e amato, di «personaggio» dalla verve creativa incessante. In realtà, come è inevitabile, pur con una superba capacità di maquillage intellettuale, Zorn nel peggiore dei casi ripete sé stesso, nel migliore affina, perfeziona la propria opera: egli ha raggiunto da quasi due decenni una brillante classicità, per quanto talvolta segnata da momenti di velleitaria involuzione, come nel caso di un lavoro esageratamente esteso e fragile, sclerotico quale «Bagatelles».
Nella sua capacità mimetica, Zorn ha saputo rinverdire i fasti della propria classicità raccogliendo ulteriori successi e onori in ambito fortemente accademico, un contesto non esattamente uso a certe camaleontiche abilità: influenzato da compositori di illuminato conservatorismo come Charles Wuorinen, egli si è rivelato, con delizia di mecenati tradizionali e fondazioni generose ma non scapigliate, un autore quasi démodé, memore di formule espressioniste e post-espressioniste (il suo Concerto per violino, «Contes de Fées», è quasi imbarazzante per intrinseca quanto ben mascherata vetustà), in cui, pur senza grande esperienza artigianale, egli riversa e manipola, talvolta senza neanche un vero trattamento e in semplice successione, una pletora di materiali di diversa provenienza: è quanto succede in diverse pagine pianistiche bravamente eseguite da Stephen Gosling o in un opera quale «Jumalattaret», scritta per l’entusiasta Barbara Hannigan. Questa è, d’altronde, la forza del tutto moderna di Zorn: di rappresentare un vasto territorio culturale e linguistico-misterioso ma inclusivo, attraente e vario, in cui anche le imperfezioni e le incongruenze diventano parte apprezzabile e da amare- del quale egli è il solo a possedere l’accesso e la mappatura integrale.