La «calcofonia» diventa cacofonia dissonante e ripetitiva, fatta di segnali subliminali che inondano la mente e paralizzano il corpo. Il fruitore si trasforma in un cyborg che si nutre di bit e micro onde sonore, mentre l’elemento residuo di umanità è da ricercare nel rapporto viscerale che Braxton ha con il suo strumento.
//di Francesco Cataldo Verrina //
«For Alto» è un album epocale, il cui codice diventa indecifrabile per il comune mortale. Il jazz si era dipanato e dispiegato con il free, mentre il free, alla fine degli anni ’60, con l’ondata di piena proveniente da Chicago, andava disintegrandosi lungo territori ipercreativi senza recinzioni esplorative e limiti perimetrali, aperti e teorizzati dagli assemblatori di suoni dell’avanguardia bianca e del minimalismo senza schemi: da John Cage a Stockhausen. Definire la musica di Anthony Braxton come free jazz potrebbe essere una sorta di eufemismo. Il suo è un precipitare agli inferi del non-suono, in un baratro infinito sino alla crosta della musica, per poi risalire portando in grembo un non sense, dove forma e struttura sono ridotti ad un concetto di suono impalpabile che oltrepassa i limiti consueti della percezione: più che un altrove sonoro è un ultra-suono smaterializzato, nel quale l’esperimento non sintetizza, ma anestetizza la musica, privandola del costrutto concettuale coerente, della sintassi e delle regole.
«For Alto» è una rapsodia non scritta, racchiusa nell’effluvio di un sassofono contralto e stritolata nel minimalismo siderale della solitudine. Il virtuosismo solistico dei grandi improvvisatori viene elevato al rango di assolutismo, dove il concetto di forma non trova mai il suo omologo nella sostanza musicogena. La sostanza diventa distanza da tutto ciò che era stato fissato dalle dissonanze armolodiche di Ornette, dalle distonie clacsonate e primitive di Ayler, dall’iperbole dilatata e deformante di Coltrane e dal pianismo schiacciato, compresso e radicale di Cecil Taylor, mentre l’animismo africano del jazz esce dal corpo e si solidifica negli impulsi mutuati dell’elettronica.
Le note si diradano, il sudore gela sulla pelle, raggiungendo lo zero idrometrico della liquidità, mentre il cervello assume le sembianze di circuito stampato. Non è un errore di codifica genetica, ma è tutto voluto e desiderato: una creatività tracciata con mano ingegneristica su un diagramma, fatto di asimmetrie e schemi fuori asse. La musica perde il suo stampo ed il suo calcolo alfanumerico, fatto di note e di accordi sequenziali.
La «calcofonia» diventa cacofonia dissonante e ripetitiva, fatta di segnali subliminali che inondano la mente e paralizzano il corpo. Il fruitore si trasforma in un cyborg che si nutre di bit e micro onde sonore, mentre l’elemento residuo di umanità è da ricercare nel rapporto viscerale che Braxton ha con il suo strumento. L’accoppiamento tra il «suonato» ed il «suonante» è quasi fisico, compenetrante, semantico, fatto di un significato e di un significante. Calcolo algebrico ed improvvisazione si compensano e confluiscono in un concetto rigoroso, ma estremo. Anche i titoli contenuti nell’album celano un aspetto umano, essendo dedicati a persone fisiche e musicisti in carne ed ossa come «Dedicated To Multi-Instrumentalist Jack Gell» o «To Composer John Cage», dedicata al suo spirito guida, lo sciamano dell’avanguardia bianca, ma è lo spirito di un Coltrane, inquieto e vagante, ad apparire come una diafana ed impalpabile figura in lontananza, mentre il sax glissa in un guazzabuglio sonoro stirato fino allo spasimo. «To Artist Murray De Pillars» o «To Pianist Cecil Taylor» cercano nel fiato, portato all’estremo, il tocco pianistico di Taylor, roteando come una trottola impazzita intorno alle stesse note, senza una precisa tonalità.
«Dedicated To Ann And Peter Allen» è un flusso sonoro che, come un blob appiccicoso, colma lo spazio, creando una pre-forma di musica per ambienti, un archetipo sonoro senza precisi contorni e punti cardinali di riferimento, mentre «Dedicated To Susan Axelrod» è il simbolo della materia inerme che prende vita, attraverso note scandite secondo una logica progressiva, quasi comprensibile. «To My Friend Kenny Kentucky» o «To Multi-Instrumentalist Leroy Jenkins» rappresentano una lunga perifrasi sonora, un complicato logaritmo, dove le note sembrano radici quadrate e la melodia una risoluzione algebrica. «For Alto», registrato nel febbraio del 1969, è un sostanzioso doppio album, una lunga carezza sottocutanea che non produce brividi a livello fisico. Richiede sensori e non sensibilità. Il senso tattile della musica rimane ad una distanza infinitesimale, ma se l’ascoltatore non rimane atterrito, viene risucchiato in una spirale di piacere subliminale senza limiti. Per arrivare in fondo, però, occorrono nervi saldi e spirito di abnegazione.