Ascoltando i dieci componimenti dell’album, si intuisce che il sassofonista non stia cercando di «vincere facile»: non sarebbe da lui. Eppure la sue capacità esecutive e narrative, anche quando si muovono sull’orlo del precipizio riescono a trovare sempre un visibile legame con l’hic et nunc, senza precipitare mai nel vuoto.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Claudio Fasoli è portatore di una creatività geneticamente irrequieta, non facilmente perimetrabile. Sin dal suo primo apparire sulla scena ha mostrato di essere un artista costantemente in itinere, pronto a rigenerarsi per partenogenesi: Claudio Fasoli è sempre avanguardia, perfino avanguardia di sé stesso. Il classico sperimentatore, mentre alambicca, ha un obiettivo ben preciso, per contro l’obiettivo del sassofonista è un perenne mutatis mutandis nella forma, nella sostanza e perfino nelle regole d’ingaggio, forte di una padronanza strumentale non comune. Il suo nuovo album «Ambush» offre una visione sinusoidale e lungimirante del jazz, in cui l’elettronica arricchisce lo spettro percettivo di una contemporaneità a presa rapida.

Il Claudio Fasoli NeXt Quartet è una perfetta combinazione di personalità apparentemente opposte che si attraggono come poli magnetici, sviluppando un involucro sonoro dalle sfaccettature molteplici in cui la chitarra elettrica di Simone Massaron, foriera di un linguaggio multicromatico, vaporoso e trasversale, trova la propria compliance nel contrabbasso di Tito Mangialajo Rantzer che si nutre di pozioni armoniche ben tracciabili e allo stato solido. Dal canto suo, il batterista Stefano Grasso alimenta soluzioni ritmiche che delimitano il territorio facendo da asse portante alla struttura, ma senza dare mai dei precisi punti di riferimento, mentre il sax di Fasoli si staglia con disinvoltura, penetrando il telaio ritmo-armonico preparato dai sodali, attraverso uno sviluppo tematico di ampio respiro, dove momenti di enfasi e di concitazione, si alternano a soluzioni più sotterranee e ricche di pathos. Già l’opener, «Dortni», appare come il manifesto programmatico di una costruzione circolare, dove il lavoro in prima linea viene suddiviso tra sax e chitarra: nelle prime battute i due sembrano studiarsi a vicenda, per poi liberarsi in una piacevole alternanza di ruoli nel gioco delle parti che prosegue, dopo un paio di minuti, nella seconda traccia «Dec.»6th». Il meccanismo melodico di Fasoli non è mai banale, prevedibile o fine a sé stesso. Ne è una dimostrazione «Belly» che inizia a sondare terreni più impervi ed accidentati, su cui tutti i musicisti procedono con mano ferma e piede sicuro, mentre, a tratti, il sax diventa quasi liturgico ed ostinato come una novena: un conto, però, è ascoltar messa, un altro è sentir messa, avrebbe detto il poeta. «Arogarb» inizia con una chitarra dalle note languide e dall’incedere cupo e spaziato, mentre la tensione cresce fino all’arrivo del sassofono, il quale sembra liberarsi dalle catene di un martirio con un suono abrasivo ed arabescato, la cui melodia si spinge ai confini di un mondo lontano, tra l’esoterico e l’esotico.

S’intuisce subito, ascoltando i dieci componimenti dell’album, che il sassofonista non stia cercando di «vincere facile»: non sarebbe da lui. Eppure la sue capacità esecutive e narrative, anche quando si muovono sull’orlo del precipizio, riescono a trovare sempre un visibile legame con l’hic et nunc, senza precipitare mai nel vuoto. «Off» è quasi un risveglio epocale, l’alba di un nuovo giorno un «the day after» in cui sembrano emergere progressivamente insolite forme di vita e creature aliene, il cui tratto somatico è ben evidenziato dal sax, il quale, come un pennello, sembra disegnare uno scenario apocalittico dai contorni cinematografici.» «Sqero» è solo l’ombra del basso che cammina materializzandosi progressivamente e spianando il terreno a «Diachromo», in cui il sax di Fasoli libera un’aura di suspance shorteriana, evocando un fitto dedalo di misteri: sul finale, perfino, con sottile filo d’ironia. Non vi sono tracce di manierismo, ostentazione e ridondanza. «Stucky» è l’apoteosi di una chitarra che scava negli abissi più reconditi dell’anima con un abbrivio e un finale quasi pinkfloydiano, mentre il sax e le altre stelle stanno a guardare. Trattandosi di un concept, sembrarebbe che tutte le composizioni siano concatenate e, laddove una finisce l’altra comincia. «Covent Garden», è il climax del modale spinto, mentre si riaccende perfettamente il match a due tra chitarra e sassofono, rinvigoriti dall’ottimo carburante ritmico proveniente dalle retrovie. «Venezia» si sostanzia attraverso un riuscito di interplay /byplay e una ridda di sonorità che mettono in luce magnificenza e decadenza della città più bella del mondo, mentre il racconto del sax sembra descrivere l’idea di un luogo ideale, punto di confluenza tra Occidente ed Oriente.

«Ambush», edito dalla Abeat Records, è un lavoro fatto di folgorazioni e visioni che oltrepassano l’idea dello spazio e del tempo ma, sia pur declinato attraverso un linguaggio complesso ed sostenuto dal pensiero laterale, risulta facilmente decriptabile ed in a talune partiture è piuttosto immediato, mentre il sax emana una cantabilità, perfino divertita, quale conseguenza di un modus operandi che coniuga abilmente attualità e tradizione, senza che tra il passato ed il presente del jazz vi siano fratture, separazioni o alternanze: il flusso sonoro è omogeneo e gli elementi costitutivi perfettamente compenetrati.

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