Tra tutti i «parkeriani», Bobby Watson è colui che riesce da sempre, insieme a pochi altri, ad imprimere ai suoi assoli un timbro, una «voce» ed un colore del tutto personale.

// di Francesco Cataldo Verrina //

In quella «Milano da bere» della metà degli anni Ottanta, alimentata dallo yuppismo rampante, tra edonismo reaganiano ed ottimismo craxiano, forse pochi avrebbero scommesso che il jazz sarebbe potuto allignare e dare un frutti così preziosi. Il jazz, dopo stagioni di fervente antagonismo militante, si era assopito divenendo un orpello per nostalgici e veterani di un’epoca che sembrava così lontana, ma che in realtà non lo era. In quella «Milano vicino all’Europa, Milano che banche che cambi, Milano gambe aperte, Milano che ride e si diverte», come cantava Lucio Dalla, che vendeva moda, abitata da paninari, fast food e sfitinzie con le spalline imbottite, Milano soffocata nella morsa dello smog, assumeva il suo status di metropoli ed i milanesi (quelli veri) fuggivano in campagna, mentre Sergio Caputo cantava: «vado alle Hawai, all’idroscalo non m’imbarcano mai». Tra wild boys, broker ed allegri finanzieri, il jazz, che in USA si leccava le ferite, grazie alla Red Records, all’epoca sotto l’egida di Sergio Veschi, ritrovava le carte nautiche della navigazione in mare aperto, definendo i canoni di un modello di Be-bop contemporaneo immediato ed intellegibile, una sorta di Red-bop a trazione anteriore, che travalicava le riletture calligrafe e manieristiche del vernacolo jazzistico tradizionale, tipico di un certo mainstream dilagante, ma che non oltrepassava mai la linea Maginot della lecito sonoro, tentando una via di fuga tra gli anfratti dello sperimentalismo post-coltraniano. La Red Record operò una sorta di svecchiamento della tradizione boppistica, anche se l’appuntamento con Bobby Watson non fu, semplicemente, il tentativo di fare un vestito nuovo a Charlie Parker o di prenderlo a calci come aveva fatto metaforicamente anni prima Jackie McLean.

Esistono dei momenti unici nell’universo umano ed astrale, quando i pianeti si allineano perfettamente e gli uomini si dispongono in maniera ottimale sull’asse degli eventi: può accadere anche ad un line-up jazz, che per combine o per fortuna si trovi ad un appuntamento con la storia, fortuito o casuale che sia. Sergio Veschi, che aveva vissuto i moti insurrezionali del jazz degli anni Sessanta/Settanta di una Milano in bianco e nero, intercettò l’ultimo vero grande erede testamentario della tradizione parkeriana e, in un solo giorno, aggiunse un capitolo importante alla storia del jazz moderno. Tra tutti i «parkeriani», Bobby Watson è colui che riesce da sempre, insieme a pochi altri, ad imprimere ai suoi assoli un timbro, una «voce» ed un colore del tutto personale. Basta iniziare dalla fine per capire che egli raggiunge il climax in un brano che appare come una sorta di peana innalzato in onore del sommo Bird. L’assolo aria ferma, senza accompagnamento di Watson in «If Bird Could See Me Now», ossia «se Bird potesse vedermi adesso», non solo costituisce un’interpretazione da case study o da manuale, ma rappresenta una sorta di manifesto programmatico del suo album capolavoro: «Appointment in Milano».

Fu proprio fra il 1983 ed il 1986, momento di stretta collaborazione con la Red Records, che Bob Watson fissò alcuni precisi punti di ancoraggio, definendo il proprio stile, al fine di ritagliarsi uno spazio preciso nell’ambito del jazz moderno, ben presto riconosciuto ed apprezzato Urbi et Orbi: veloce, profondo e con un innato senso della melodia, anche quando l’altoista cerca di eludere ed infrangere le regole del tradizionale bop per praticare vie più angolari e spigolose. Come racconta il produttore Sergio Veschi: «Lo studio era stato prenotato per due giorni, ma «Appointment In Milano» venne registrato in un solo pomeriggio, dopo alcune tensioni mattutine. Praticamente tutte take one. Per occupare il tempo rimasto si decise di registrare degli standard a largo spettro che spaziassero all’interno di diversi modelli espressivi. A suo modo una summa del jazz». Le parole di Veschi sono importanti per confermare l’idea che molti hanno di «Round Trip», l’album ricavato da questa seconda sessione di lavoro, che pur incentrato su alcuni standard, sia davvero il fratello gemello di «Appointment in Milano», dove si respira la stessa atmosfera e si percepisce la medesima tensione emotiva. Milano portò davvero bene a Bobby Watson, il quale liberò tutti i suoi demoni creativi, cimentandosi su alto e soprano, affiancato dall’Open Form Trio, formato dal pianista Piero Bassini, dal bassista Attilio Zanchi e dal batterista Giampiero Prina, una sezione ritmica italiana di tutto rispetto, che si pose nei confronti dell’altoista statunitense in maniera aperta, paritetica e senza complessi d’inferiorità, anzi per dirla tutta: suddetto triunvirato è stata forse il migliore team d’accompagnamento che Watson abbia mai avuto nella sua carriera di solista. Il costituito quartetto operò inte pares ed in maniera piuttosto sinergica. Si verificò, come dicevamo prima, quel perfetto allineamento fra pianeti. Il sassofonista non mancò, dunque, all’appuntamento con la sua storia personale, assestando alla discografia mondiale il colpo più geniale di una carriera, comunque costellata da momenti rilevanti, tra cui possiamo includere le altre uscite con l’etichetta di Veschi, su tutte l’impareggiabile «Love Remains», recentemente ristampato in vinile dalla nuova Red Records di Marco Pennisi.

«Appointment In Milano» si sostanzia attraverso sei composizioni originali, di cui tre a firma Watson, tra cui la title-track, che sembra riportare in auge talune atmosfere dei Messengers di Art Blakey, in cui elementi urbani e funkfied si mescolano ad un clima dal retrogusto italico che aggiunge al componimento una differente solarità, merito delle zampillanti ed aperte progressioni pianistiche di Piero Bassini ed all’intrigante basso ad arco di Attilio Zanchi; «Ballando (Dancing)» racchiude un’euforia, contagiosa, saranno stati gli effetti collaterali di quella «Milano da bere», ma c’è tutto il mood della festa italiana su una pista da ballo, in cui «il turista americano con il sax» si ritrova a volteggiare. Nella già citata «If Bird Could See Me Now», Watson entra in una dimensione altra, una sorta di confessionale sonoro, misurandosi in solitudine con sé stesso, i propri demoni creativi e la voglia di ascesi spirituale tesa ad raggiungere un contatto ideale con Parker. La B-side si apre con «Watson’s Blues», a firma Bassini, una delle punte di diamante dell’album, insieme alla stessa «Appointment In Milano». L’omaggio al band-leader si staglia su una complessa e labirintica struttura blues, quasi rapsodica, in cui il contraltista è velocissimo, decisamente in overclocking, magnificato dal sistema accordale disegnato da Bassini, con il quale ingaggia un suggestivo scambio e un gioco di ruolo basato su un magnifico interplay. Immancabile il solido e concreto supporto della retroguardia con Zanchi e Prina che non lasciano aria ferma. «Always Missing You» è una divorante ballata dai toni bruniti e crepuscolari composta da Watson a quattro mani con Attilio Zanchi, autore anche della vivace e scanzonata «Funcalypso» un componimento dai tratti somatici piuttosto esotici su cui campeggia il ghigno sornione di Sonny Rollins.

Registrato il 5 febbraio del 1985 allo studio Barigozzi di Milano, oggi ristampato in vinile da tape originale e distribuito in un elegante confezione gatefold, l’album coglie Bobby Watson ed i suoi sodali in momento di grazia e di perfetta intesa. «Appointment In Milano» è un’equilibrata combine di bop post-moderno, venato di soul-funk, con lievi influenze d’avanguardia e qualche scintilla di latinità italica, dove si verifica una non comune quadratura del cerchio. Parliamo di un must have da aggiungere alla vostra collezione di dischi jazz. Magari la nuova ristampa in vinile arriva giusto in tempo a colmare qualche lacuna.

Bobby Watson

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