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// di Francesco Cataldo Verrina //

Il jazz americano nell’accezione più larga del termine vive e si rivitalizza costantemente grazie alla nuova diaspora terzomondista, che continua a vedere negli USA un sorta di terra promessa ed un approdo sicuro per iniziare una nuova vita e partecipare a pieno titolo al lauto banchetto del «sogno americano», che continua ad esistere come opportunità da cogliere per migliorare la propria condizione sociale. Il Grande Paese, pur fra mille contraddizioni, rimane ad oggi la meta preferita di ingenti masse umane, profughi o immigrati commerciali (come vengono chiamati alcuni) in fuga dall’Est Balcanico, dall’Oriente, dall’universo latino-ispanico e dall’Africa, desiderosi di sfuggire alla fame, alle guerre o a regimi repressivi ed autoritari. Musicisti, o sedicenti tali, in arrivo dai quattro punti cardinali della terra, ma soprattutto dal Sud del mondo, apportano nuovi contributi ad una cultura ibrida e multi-etnica, già di per sé frutto di un melting-pot umano, nato da civiltà tra le più disparate, fatto di usi, lingue, tradizioni e costumi molteplici, sedimentati ed acquisiti nel corso degli anni da una società onnivora e polimorfica. In America tutto ha il sapore di una galassia multirazziale, dal cibo ai vestiti, dalle abitudini quotidiane all’arte, dallo sport alla musica, mentre molte città si sono ingrossate di umanità varia creando periferie urbane ricche di contraddizioni, dove non sempre i vari gruppi etnici s’incontrano e si compenetrano. Il jazz ed altri linguaggi di matrice afro-americana, possedendo una membrana geneticamente permeabile, s’imbevono costantemente di nuove istanze e contenuti provenienti da ogni dove.

Un caso eclatante riguarda, Somi Kakoma, cantante, compositrice e scrittrice conosciuta nell’universo jazzistico semplicemente come Somi. Nata nell’Illinois da genitori emigrati dall’Uganda, Somi è stata consacrata ed acclamata dai media statunitensi: il New York Times l’ha definita come «un’interprete dotata della piena padronanza del suo strumento e nel pieno dei suoi poteri artistici». Somi ha avuto l’estro e la forza di gettare un ponte tra Africa ed Afro-America, introiettando gli aspetti salienti di entrambe le culture sonore ed elaborando un costrutto concettuale coerente capace di travalicare le barriere doganali della discografia contemporanea. Prosegue il New York Times: «un’elegante amalgama delle musiche che ama e delle esperienze bi-continentali che hanno plasmato la sua vita». Il suo ultimo lavoro, «Zenzile: The Reimagination Of Miriam Makeba» è un tributo personale all’innovativa cantante e attivista sudafricana che fu capace, nei trentuno lunghi anni di esilio durante l’era dell’apartheid, di trasformare la propria condizione in una cassa di risonanza in grado di sensibilizzare costantemente l’opinione pubblica internazionale sulle problematiche del suo popolo. Il progetto dei Somi, si basa su un crogiolo di stili ed influenze ritmiche e musicali che spaziano dal soul-funk all’afro-jazz con qualche lieve concessione al pop da airplay radiofonico, contemplando quella costante tipica della cosiddetta BAM: black american music, che sa essere autoctona nella forma, ma abile ad intercettare al proprio interno istanze molteplici. Non a caso, il disco le è valso una nomination ai Grammy 2021 per il miglior album vocale jazz. Con questa nomination, Somi è stata la prima donna africana ad essere in lizza in una delle categorie jazz dei Grammy. L’album ha vinto anche il NAACP Image Award 2021 come Outstanding Jazz Vocal Album. Inoltre, nell’ottobre 2022, «Zenzile» è stato premiato come miglior performance vocale jazz ai Jazz Music Awards. Zenzile era il nome africano di Miriam Makeba, ed il tributo di Somi ne rievoca la vita e la musica, l’impegno per i diritti sociali e politici nei paesi del terzo mondo Non si dimentichi che la Makeba fu anche la compagna di Stokely Carmichael, leader del Black Panther Party. La ricchezza dell’album è stata locupletata dalla presenza di ospiti di tutto riguardo: i cantanti Gregory Porter, Angelique Kidjo, Msaki, il pianista Nduduzo Makhathini e altri, sostenuti da un ottimo line-up strumentale comprendente Nate Smith alla batteria, Mino Cinelu alle percussioni, Lakecia Benjamin al sax contralto, Herve Samb alla chitarra.

Somi si distingue per una vocalità pura ed adamantina, raffinata nell’espressione e con in dote una non comune estensione timbrica che la porta ad avere un’ottima resa interpretando il songbook della Makeba. La cantante ugandese-americana fa suo quel ricco bagaglio musical-canoro e lo restituisce al mondo degli uomini attraverso un’interpretazione personalissima, ma non meno efficace rispetto alle versioni originali come il famoso «Pata Pata», vero e proprio cavallo di battaglia della Makeba, che nello specifico assume una connotazione più lirica, arricchito da un tappeto di archi dal sapore quasi sinfonico, mentre la parte più groove e tribale diventa più incisiva, quasi discorsiva e declamata. Al fine di evitare confronti antipatici («Pata Pata» è un pezzo ballato perfino in discoteca ed usato per spot pubblicitari, quasi di dominio pubblico), Somi inserisce effetti elettronici e spezzoni della voce di Miriam ricavati da una vecchia intervista radiofonica. La ricerca dell’elemento di diversità nasce da un’esigenza, sicuramente di copione o di un’opportunità, ma soprattutto da una naturale diversità di Somi rispetto all’idolo tributato che la cantante american-ugandese sottolinea in tutte le tracce dell’album, le quali sembrano guardare verso una contemporaneità dilatata ed influenzata da linguaggi molteplici, più che nello specchietto retrovisore. Fra gli altri svettano brani come «Umhome» che ne mette in risalto tutta la ricchezza vocale, fitta di sfumature e cromatismi, dolce e combattiva, ruffiana e solerte al contempo, soprattutto magnificata dal sostegno del sax tenore di Lakecia Benjamin, oppure «Milele» in cui è stato coinvolto il figlio più piccolo di Fela Kuti, Seun. Il tipico afro-groove è caratterizzato da un chitarra suonata in maniera percussiva, quasi come un basso slap. Non si dimentichi che Somi è un’artista Web 4.0, frutto di una cultura musicale frammentaria e non facilmente geo-localizzabile. Pur avendo avuto ottimi maestri come il trombettista Hugh Masekela, Somi si è ritagliata un percorso del tutto autonomo come artista, studiosa e attivista, acquisendo una propria visione della musica e dei fatti del mondo. Laureata in Antropologia culturale e Studi africani presso l’Università dell’Illinois a Urbana Champaign, la cantante ha conseguito un Master in Performance Studies presso la Tisch School Of the Arts della New York University, mentre il suo precedente lavoro «Petite Afrique» nasce da un contatto diretto con la realtà africana, dopo un periodo di 18 mesi passati a Lagos in Nigeria.

Come non rilevare elementi di forte originalità in un classico come «House Of the Rising Sun», canto tradizionale lanciato in versione rock-blues dagli Animals di Eric Burdon negli anni Sessanta. Rispetto alla versione di Miriam Makeba, l’ambientazione ed il mood risultano più jazz e sono caratterizzati da un prodigioso assolo di Jeremy Pelt alla tromba. Nonostante il testo canzone sia aspro e combattivo, la voce di Somi appare distesa, completamente priva di rabbiosità blues ed elegantemente pop’n’soul. «Hapo Zamani» riporta alla mente gli Steely Dan e Donald Fagen, e forse una certa fusion-jazz anni Ottanta, perfino talune sonorità terzomondiste alla Zawinul, a dimostrazione di un asse sonoro che si sposta continuamente fra suggestioni africane e reminiscenze americane. Tutto l’album è una terra di confine. Non mancano gli accenti fortemente lirici ed intrisi di un pathos quai primitivo: «Khuluma», dai contrafforti marcatamente drammatici, beneficia del controcanto della vocalist inglese di origine sudafricana Msaki. «Kiwedini», che ricorda nella parte iniziale «Biko» di Peter Gabriel, ma forse sono solo suggestioni, è un canto dalla progressione crescente che unisce un mood tipicamente afro-tribale ad un’ambientazione più urban-soul. «Mbobeda» è un afro-beat dalla struttura reggae-style, imperniato su sonorità acidule e vagamente rock, che ricordano l’incedere di Peter Tosh nei suoi album più afro-centrici sotto l’egida dei Rolling Stones. «Jike’lemaweni» trasuda Africa fino al midollo, con qualche primordiale scream alla James Brown, ma la voce aggiuntiva, che fa da guida e contrappunto, appartiene a Angelique Kidjo, cantante africana del Benin. Nel complesso «Zenzile: The Reimagination Of Miriam Makeba», pubblicato lo scorso anno dall’etichetta Salon Africana, è un tributo nella sua forma più immaginifica, sinestetica e meno calligrafa. L’essenza della Makeba viene enucleata e ricollocata in un contesto di bruciante attualità (mentre le problematiche del terzo o del quarto mondo non sembrerebbero mai risolte) attraverso una forma mentis figlia di una cultura meticcia, in cui s’incrociano e s’innestano universi mutevoli, affini, distanti o sinergici. Per chi vorrà approfondire la conoscenza di Somi, l’appuntamento è all’Arena Santa Giuliana di Perugia, il 9 luglio, in occasione di Umbria Jazz 2023.

Somi

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