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// di Francesco Cataldo Verrina //

Bobby Jones – «Hill Country Suite», 1974 (Enja)

Bobby Jones è stato un musicista di talento, sassofonista tenore e clarinettista, in parte sconosciuto alle cronache del jazz moderno. Al netto delle innumerevoli collaborazioni in veste di sideman, ha lavorato a fianco di Charles Mingus per alcuni anni ed ha registrato con lui ben otto album. La sua carriera solista fu interrotta dalla morte prematura a soli 51 anni. Come band -leader ha inciso solo due album, il primo nel 1971, «Arrival Of Bobby Jones» ed il secondo, un vero gioiello di post-bop espanso sfuggito ai radar, «Hill Country Suite», dedicato alla sua terra d’origine, il Kentucky. L’album fu prodotto dalla tedesca Enja nel 1974 e registrato il 30 agosto dello stesso anno al Trixi Studio di Monaco in pianoless con George Mraz al basso e Freddie Waits alla batteria. Tutte le tracce sono originali e composte da Bobby Jones e posseggono quell’aura struggente delle melodie del Southeastern intrise di soul, blues e gospel. Ne vale davvero la pena cercarlo in vinile, oltremodo di eccellente qualità sonora come tutti i dischi della Enja Records.

Jon Faddis e Billy Harper – «John & Bill», 1974 (Trio Records)

Jon Faddis e Billy Harper fecero squadra nel 1974, periodo un po’ difficile per mantenere vivo il fuoco della tradizione. Il jazz mainstream subiva attacchi da tutte le parte, la contaminazione del vissuto precedente e l’accettazione di differenti codici sonori nel tessuto jazz, oltre che tendenza erano per molti una questione di sopravvivenza. In quegli anni il jazz cercava rifugio nei paesi scandinavi o in Giappone, come in questo caso. Faddis, in quel periodo, stava faticando a trovare una sua dimensione ed un timbro particolare con la sua tromba, mentre il suo mentore, Dizzy Gillespie, rimaneva l’elemento predominante di influenza nella sua musica, quanto lo spirito guida a livello stilistico. Dal canto suo, Harper aveva ottenuto le attenzioni e il plauso della critica per il suo lavoro con Lee Morgan. Il robusto «canto» del suo sax tenore si era magnificamente caratterizzato in quella recente session. «Jon & Bill» è un ottimo album di jazz tradizionale con qualche fuga verso la modernità, forse un segno dei tempi: Roland Hanna a volte si rivolge al piano elettrico; le sue figure eleganti, le melodie precise e l’interazione armonica sono, comunque, abilmente articolate sia sul pianoforte elettrico che acustico. Il valore di questo disco consiste nel sentire che Harper e Faddis, così come tutto jazz degli 70, pur venendo da molto lontano, poteva vantare ancora uomini e idee per andare oltre, soprattutto perché contiene materiale inedito, appositamente composto e ben suonato con un tocco personalissimo da parte dei due co-leader. Non è la solita operazione commerciale, ossia la ripresa di una manciata di standard. L’album, registrato il 13 marzo del 1974 al Teichiku Studio di Tokio con Roland Hanna al piano elettrico ed acustico, George Mraz al basso, Motohiko Hino alla batteria e Cecil Bridgewater al kalimba, è nel complesso un valido esempio di hard-bop con qualche variazione sul tema. La qualità sonora della stampa giapponese è ovviamente indiscutibile.

All Stars – «A Tribute To Monk And Bird», 1978 (Tomato Records N.Y.)

Ci siamo più volte domandati come dovrebbe essere un disco tributo ai mostri sacri del jazz mondiale, pratica peraltro molto diffusa tra i giovani artisti. In generale, i tributi più riusciti, nel caso specifico prendiamo Bird e Monk, dovrebbero essere espressi attraverso una sintassi ed un modulo espressivo piuttosto imprevedibili, senza il rischio d’incappare in una sorta di rappresentazione manieristica e calligrafica al limite del karaoke. «A Tribute To Monk And Bird», realizzato nel 1978 con la produzione di Michael Cuscuna, è uno dei migliori tributi della storia del jazz moderno. Al netto della presenza all-stars di musicisti di elevato prestigio, il disco fu strutturato attraverso una formula esecutiva originalissima ed uno stile free-form che ricontestualizza sia le composizioni di Charlie Parker che quelle di Thelonious Monk. I tributari del progetto furono Thad Jones tromba, George Coleman sassofono, George Lewis trombone, Stanley Cowell piano, Reggie Workman basso e Lenny White batteria. Un album così non dovrebbe mancare nella vostra collezione.

George Robert /Tom Harrell Quintet – «Sun Dance», 1987 (Contemporary)

«Cosa resterà degli anni ’80?», recitava una nota canzone di Raf. Potremmo stendere il concetto e dire: che cosa resterà del jazz degli anni ’80? Il jazz del «decennio freddo», della «plastic age» e dell’elettronica a buon mercato, quando distillato in purezza nella sua dimensione acustica è stato una jazz di alta qualità. I musicisti sono stati meno stanziali, talvolta itineranti, e tra Europa ed USA c’era un ponte facilmente transitabile in entrambe le direzioni. Va detto che per molti jazzisti americani il Vecchio Continente, Italia compresa, era diventato come il grasso ventre della balena. Uno svizzero George Robert, alto e soprano sax, un americano Tom Harrell tromba e flicorno, un italiano Dado Moroni pianoforte, il bassista Reggie Johnson e il batterista Bill Goodwin a supporto, entrambi, come lo stesso Harrell di area Sud-West-Coast condivisero un progetto interessante, oggi sfuggito al controllo dei radar. Possiamo parlare di una formazione cosmopolita. I Cinque musicisti eseguono quattro originali di Robert e due di Harrell che si rifanno alla tradizione jazz prevalentemente del Pacifico, per quanto lo spirito ribollente del sassofonista svizzero, nella sua breve vita, non sia mai riuscito a staccarsi di dosso l’ombra di Phil Wood. Non a caso l’album, registrato in un dimensione studio/live alla Radio Svizzera, venne pubblicato nel 1987 della californiana Contemporary. Tom Harrell è il vero piatto forte dell’album, il motore mobile, la marcia in più: la sua tromba è una spanna superiore a tutti gli altri., tanto che Robert da titolare diventa comprimario, mentre la retroguardia ritmica si mostra piuttosto dinamica ed è un piacere sentire l’allora giovane Moroni in un contesto internazionale inter pares. L’impianto del disco, oggi diremmo modern mainstream, è di natura bop, ma le atmosfere sono più vicine a quelle della Costa Ovest, non dissimili da quelle di alcuni dischi di Shorty Rodgers, Frank Rosolino o Conte Candoli, ma fosse sono solo suggestioni. L’album non è mai stato pubblicato in CD, ma meriterebbe certamente un posto nella vostra discoteca personale, soprattutto in vinile.

Bill Dixon – «Son Of Sysifus», 1988 (Soul Note)

Per coloro che amano le cose più sperimentali, ecco un ottimo lavoro di Bill Dixon considerato un artista seminale dalle avanguardie free jazz. Valido trombettista e flicornista, in questo album il suo fraseggio e la sua progressione armonica ricordano vagamente il Miles Davis di Aura, dove il capovolgimento delle intenzioni è palese, a volte la melodia sembra ispirata ed improvvisata sugli stimoli provenienti dalla struttura ritmica. Il disco fu registrato in Italia allo Studio Barigozzi di Milano nel giugno del 1988. Bill Dixon, tromba e flicorno condivide il set con Mario Pavone al basso, Laurence Cook alle percussioni e John Buckinngham alla Tuba. L’album si sviluppa su un tappeto morbido, mentre il ricamo melodico-armonico come un colorato arazzo sembrerebbero descrivere scenari arcani e modi sconosciuti. Molto fluido e fruibile, anche per chi non possiede taluni enzimi. Il Titolo dell’album è emblematico «Son Of Sysifus», che nella mitologi sarebbe Ulisse. Quindi alcuni aspetti dell’album da cogliere: l’apertura al viaggio sonoro e alla ricerca, nonché le difficoltà dell’animo umano: Sisifo, nell’iconografia dantesca, è anche colui che spinge in sasso che gli ritorna sempre indietro.

Bill Barron – «Higher Ground» , 1993 (Joken Records)

Come Alan Shorter, Tommy Turrentine e altri, Bill Barron ha sofferto molto della sindrome del fratello trascurato. Eccellente il suo lavoro negli anni ’60 al fianco Ted Curson. L’album in oggetto viene indicato come il suo canto del cigno. Barron non era un gigante del sax, ma certamente possedeva un discreto talento. Sedici anni più anziano del fratello Kenny, era all’incirca coetaneo di altri due tenori di Filadelfia, John Coltrane e Benny Golson, che inevitabilmente gli sbarrarono il cammino. Non è difficile individuare tracce dei suddetti nei suoi dischi, piuttosto che di Clifford Jordan o Booker Ervin. Il suo stile non è sorprendente o innovativo, ma possiede sprazzi di idee originali, nello specifico in «I Thought About You». L’album è un riuscito mix di standard ed originali in puro stile straight-ahead moderno con qualche sommesso pensiero al modale-lydiano. Coinvolgente il pianoforte del fratellino Kenny ed il lavoro in prima linea di Eddie Henderson alla tromba con il sostegno di Rufus Reid al basso e Ben Riley alla batteria. Barron, che di solito non amava suonare gli standard, ne esegue quattro, tra cui «Caravan» ed «Alone Together».

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