«Forgotten Matches – The Worlds Of Steve Lacy (1934 /2004)» di Roberto Ottaviano, un piccolo capolavoro senza tempo (Dodicilune, 2014)

// di Francesco Cataldo Verrina //
Steve Lacy è stato un artista circolare con oltre un’ottantina di dischi come band-leader e collaborazioni a vario titolo. Da molti considerato come il padre del moderno sassofono soprano, Steve è stato un autore fecondo e prolifico con il baricentro sempre spostato in avanti. Sulle molte polemiche relative all’avvento del free jazz e la istanze propugnate da Ornette Coleman, il giovane Lacy che, negli anni 50’ e nei primi 60’, viveva a New York dove fu parte di molti processi di cambiamento che portarono alla definizione delle avanguardie, in un’intervista radiofonica dichiarò: «Da una parte c’erano tutti i musicisti accademici, gli hard boppers, quelli della Prestige e della Blue Note che facevano cose con una leggera tendenza progressista. Ma quando entrò in scena Ornette Coleman, allora fu la fine delle teorie (…) Ricordo che in quei giorni disse, cercando con cura le parole: ciò che abbiamo è una certa quantità di spazio e ci si può mettere dentro tutto quel che si vuole. Questa fu la grande rivelazione». Tutto ciò la dice lunga sull’evoluzione di un artista che, per certi aspetti, rimane un unicum nell’ambito della storia del jazz moderno, perennemente alla ricerca di uno spazio espressivo che, pur partendo dalla lezione monkiana, ha sempre agognato una forma mentis ed un modulo espressivo basato sulla libera improvvisazione e capace di condurlo al di là delle convenzioni. Ciononostante la musica di Lacy, nel corso degli anni, non ha mai perso la quadratura melodica: la sua capacità di innovare dall’interno il linguaggio e la predisposizione genetica a guardare avanti non l’hanno mai spinto smarrire il legame con le tradizioni.
Roberto Ottaviano, che di Lacy è stato allievo, ha incrociato spesso il proprio cammino con quello del sassofonista statunitense e, dopo la scomparsa avvenuta nel 2004, si è fatto carico più volte di raccoglierne la lezione e l’eredità ideale per approdare a nuove soluzioni. Nel 2014 l’esplorazione dell’universo lacyano da parte del musicista pugliese si è solidificata in un doppio album, «Forgotten Matches – The Worlds Of Steve Lacy (1934 /2004)» suddiviso in due parti e declinato con due differenti formule espositive, ma saldamente legate, in cui Ottaviano ed i suoi sodali propongono una visione nitida, consapevole e scevra da ogni tentativo di tributarismo calligrafo nei confronti del repertorio del sopranista bostoniano. Sin dal primo ascolto si percepisce che Ottaviano schiva il sentimentalismo e trova una via di fuga da ciò che avrebbe potuto divenire un ricalco o un falso d’autore, operando come in teatro attraverso una sorta di Verfremdungseffekt brechtiana. Il sassofonista pugliese evita così il coinvolgimento emotivo e l’effetto melassa, ponendosi piuttosto in una posizione analitica e distaccata rispetto al materiale trattato e aggiungendo una sua personale cifra espressiva e stilistica. Ciò trova ampia contemplazione nell’anti-sentalismo monkiano, che vedeva nel jazz anche una funzione formativa, sociale e civile. Le parole di Ottaviano sono una conferma: «Steve Lacy era un artista di origine russa, il quale aveva sviluppato una tendenza musicale che qualcuno prima di me ha definito ascetica. Certo ne sono una conferma i tantissimi concerti e dischi in solitudine, imperniati su un materiale in bilico tra formule modali asiatiche e strutture ripetitive come fossero kõan del pensiero Zen. Tutta questa attenzione verso un approccio orientale, unito al policromo mondo newyorchese degli anni Quaranta e Cinquanta, filtrato dalla lente ebraica delle sue reminiscenze, già pongono il mio mentore in una dimensione a me non proprio vicina (…) Sebbene io non mi sia sentito mai particolarmente legato a un certo cliché di artista del Sud, non posso negare che in qualche modo un temperamento più mediterraneo abbia giocato un ruolo importante nell’affermazione della mia personalità. È naturale quindi che sul piano strumentale e compositivo io abbia mostrato un volto, diciamo, più volitivo ed estroverso».
Nel primo disco il sopranista barese è alla testa di un compatto line-up comprendente Glenn Ferris al trombone, Giovanni Maier al contrabbasso e Cristiano Calcagnile alla batteria. Il repertorio è costituito da componimenti di Lacy, tranne l’ultimo a firma congiunta dei membri della formazione. Il secondo disco è basato su un intenso dialogo fra Ottaviano e il pianista britannico Alexander Hawkins, complice l’idea del duo Lacy-Waldron. In questo caso le composizioni di Lacy vengono affiancate da temi di Mal Waldron e Harry Miller, oltre ad original dei due coprotagonisti. In totale il doppio album si sostanzia attraverso ventitré brani scelti per ricordare, nel decennale della scomparsa, il musicista statunitense. Un’operazione riuscitissima che solo per comodità possiamo chiamare tributo, poiché – come già detto – Roberto Ottaviano affronta l’impegno da una prospettiva nuova, rielaborando quel suono che, nel corso dei decenni, si è addentrato nel parenchima di ogni stile e tendenza contaminandolo senza rimanervi impigliato, sempre attuale e con lo sguardo proiettato al futuro sin dagli anni 50, nonché foriero di un levato livello di virtuosismo per timbro, sviluppo melodico, groove ed estensione. «Più cerco di distaccarmi dal suo potere musicale, artistico, e più mi rendo conto di quanto Lacy sia davvero un gigante ancora misconosciuto», sottolinea Ottaviano nelle note di copertina. «Tutte le volte che da musicista, da pensatore, da esteta e da ricercatore, mi pongo dei quesiti esplorando in direzioni diverse, inevitabilmente trovo nella sua produzione e nel suo modus operandi, le risposte che cerco». In quanto a «Forgotten Matches – The Worlds Of Steve Lacy (1934 /2004)», il sassofonista pugliese ed i suoi sidemen riescono ad imprimere al costrutto sonoro lacyano elementi di novità e di evidente diversità senza snaturarne le strutture originarie. Dice Ottaviano: «… ho selezionato alcuni brani per il lavoro discografico, fra i quali un paio registrati da Steve forse solo una volta. Nell’affrontarli poi ho scelto un approccio oggettivo, come fossero dei grandi classici, e quindi lasciandone pressoché intatta la natura formale piuttosto che trasfigurarli attraverso un improbabile arrangiamento. Mi ha fatto piacere però al termine della registrazione sentire Glenn Ferris, che ha suonato tanto con Lacy, affermare di aver scoperto un lato diverso della musica del sassofonista. Come se questi brani avessero ripreso una vitalità più giocosa e diretta, meno ermetica». Da considerare che lo stesso titolo assume un significato importante nell’economia del progetto. La parola «matches in inglese significa alternativamente e contestualmente incontro, partita, fiammifero, comparazione. «Forgotten Matches», insieme alle malinconiche fotografie che appaiono in copertina, induce ad una riflessione su cosa abbia rappresentato Steve Lacy nella storia del jazz moderno e quanto ancora le sue creazioni siano motivo di studio e punto di partenza per nuovi microcosmi da sondare.
Quello di Ottaviano e soci è un progetto esemplare, ma certamente di non facile costruzione per chiunque, soprattutto partendo dal concetto che Steve Lacy è stato un musicista cinetico, complesso, ricco di articolazioni e sfumature, il quale fu capace di riportare in auge un strumento dimenticato, riscrivendone di sana pianta la storia e confrontandosi con la vulcanicità di Coltrane e, di conseguenza, con Dave Liebman, con la vocalità di Wayne Shorter o di John Surman. Quello del musicista pugliese è un «sopranismo» a sé stante come egli stesso conferma: «Io non nasco come sopranista e quindi tutto ciò che ho elaborato all’alto o al tenore anni fa è certamente ricaduto nella costituzione sonora del mio modo di suonare il soprano. Caratterizzato da un accentuato gusto per la parte scura, ed da una articolazione varia e mossa, quasi più da tenore». Il primo volume s’ispira alle tante esperienze lacyane in quartetto senza pianoforte ed al rapporto con il trombonista Roswell Rudd, in particolare «Early and Late» da cui, ad esempio, provengono «The Rent» e «Bookioni». Nello specifico il trombone è suonato da Glenn Ferris. Tutti i musicisti sono svincolati dallo stereotipo strumentale e da una supposta gerarchizzazione, intervenendo sul materiale di Lacy in maniera paritetica, ma non scontata ed accademica: il gioco a quattro si basa su una sorta di by-play che non consente a nessuno di sistemarsi in una zona comfort, ma di sviluppare idee in tempo reale. «That’s For JJ (Dedicated To The Late Jean Jacques Avenel)» è un l’unico componimento inedito a firma collettiva, il quale consente ai quattro sodali di misurasi anche su materiale inedito, più adatto a situazioni non consuete ed imprevedibili, ma senza allontanarsi troppo dal concept complessivo del progetto.
Ottaviano e Hawkins nel secondo volume ripercorrono la passione di Steve Lacy per il duo e la stagione del sodalizio con Mal Waldron. L’incontro a due risulta dinamico e libertario, mai però caotico e sregolato, rigorosamente equilibrato tra tecnica, disciplina, anima e cervello. L’esempio fornito da Lacy e Waldron viene preso a modello, ma non c’è mai emulazione: bastano le prime due tracce «Flakes» e «What It Is», questa a firma Mal Waldron, per capire che il riferimento ai due fari guida sia nel metodo, mentre il tragitto si svolge su una strada tracciata con differenti proiezioni prospettiche, senza seguire pedissequamente le orme dei due maestri. Si consideri che in questo secondo disco solo quattro brani portano la firma del sopranista di Boston. Come gia spiegato, «What It Is» e «The Seagulls of Kristiansund» appartengono a Waldron, a cui si aggiunge una composizione di Hawkins, tre brani nati dall’interazione tra Ottaviano ed Hawkins e «Orange Grove» firmata Harry Miller che rimanda al rapporto tra Lacy e la scena sudafricana londinese. A proposito di decennale della morte di Steve Lacy (il doppio album fu realizzato nel 2014), dischi così capitano una volta ogni dieci anni, conservando un’universalità ed un’attualità sorprendente, merito dei fautori, ma soprattutto dell’universo sonoro di Steve Lacy, figura prominente del Novecento jazzistico, che ne ha propiziato la nascita.
