«DOUSSOUN’ GOUNI» DI ROBERTO OTTAVIANO, TRA AFRICA, EUROPA E AMERICA, LE TANTE GENIALITÀ DI UN ARTISTA PROTEIFORME

// di Francesco Cataldo Verrina //
Volendo usare un’espressione omerica, Roberto Ottaviano è un «uomo di multiforme ingegno», una sorta di (artisticamente) irrequieto ed insaziabile Ulisse, sempre proteso verso nuovi territori e linguaggi sonori da esplorare. Non a caso Roberto, nel 2022, è stato eletto da una giuria Top Jazz quale musicista dell’anno con la seguente motivazione: «Con grande tenacia e lungimiranza prosegue nella sua fervida attività di ricerca». Da lungo tempo il musicista-docente barese è uno dei protagonisti assoluti della scena contemporanea italiana ed europea, propugnando una personalissima visione del jazz e della musica quale terreno di libertà, di impegno e sperimentazione senza confini. Scorrendo la discografia di Ottaviano si apprende che il sassofonista è dotato di un eclettismo e di un nomadismo esplorativo e compositivo senza eguali, ma soprattutto di una forma mentis ad ampio spettro che ha progressivamente intercettato ed incorporato innumerevoli moduli espressivi, grazie anche alle collaborazioni e agli scambi osmotici con numerosi jazzisti di fama mondiale. Ci sono artisti che nella lunga storia della musica improvvisata, difficilmente hanno fatto un disco che sia la copia speculare del precedente, e costoro sono tutti nel Pantheon del jazz. Senza tentare una beatificazione in vita: Roberto Ottaviano appartiene a questa categoria di musicisti alimentati da una dinamo creativa che si autorigenera spingendolo sempre altrove per mezzo di un costante mutatis mutandis.
L’album «Doussoun’ Gouni» del 2021 si traduce nello stretto legame con l’Africa che la ricerca sonora di Roberto Ottaviano ha da tempo stabilito ed esperito, spesso sotto forme ritmiche, cromatiche, armoniche e narrative differenti. «Il Dousson’gouni – spiega il sassofonista – è lo strumento africano dei cantastorie, i Griòts, che custodiscono e trasmettono antiche storie. L’ispirazione deriva dal mondo dei fumetti del disegnatore Jacopo Starace. Le otto «canzoni non cantate», parlano di amore, vulnerabilità, incertezza, solitudine, filtrate da un lieve distacco. Otto brani che, pur rimandando ad ispirazioni popolari in una sorta di folk immaginario sospeso tra tradizione e sperimentazione, trovano una difficile collocazione di genere in quanto non legate a un tempo, a una moda. Gli equilibri compositivi tendono a volte verso il blues, ma rappresentano una miscela irresistibile tra l’intelligenza e l’anima dei quattro musicisti coinvolti». Aggiungo che l’africanismo di Roberto Ottaviano non è di tipo idiomatico, accademico o manieristico, quindi scontato, ma come ogni sua produzione, subisce il filtro di una conoscenza e di una cultura legata anche alla visione che tutti i jazzisti di rilievo hanno avuto della Grande Madre Africa. Nel parenchima sonoro di «Doussoun’ Gouni», corroborato attraverso sei composizioni originali, ci sono tracce di un Mediterraneo intriso di suoni e culture che guarda ad Oriente, fino a giungere in un fumosa Grande Mela contaminata delle musiche del Sud del mondo.
Nell’album c’è quasi la speranza e la voglia di riscatto del genere umano o come dice lo stesso Ottaviano «è metafora e spirito propiziatorio della convivenza e del passaggio di testimone tra vecchie e nuove generazioni». Il musicista barese diventa, metaforicamente complice il percussionista Cesare Pastanella, il «saggio della tribù», il cerimoniere che racconta le sue parabole in musica «senza parole», accompagnato da un collettivo di ottimo livello, in cui compaiono anche dei suoi giovani ex-studenti: Giuseppe Todisco (tromba e flicorno) Francesco Schepisi (tastiere), Gianluca Aceto (basso elettrico), Dario Riccardo (batteria). Chi ama il jazz, anche nell’accezione più larga del termine, quando si affaccia all’Africa subisce una sorta di fascinazione, che si traduce in un’immersione ancestrale in un bagno mistico, dove le poliritmie e i tempi multipli nella loro più naturale essenza tornano a incarnare quello spirito di «musica totale» che spesso sembra smarrito o occultato dal fragore della civiltà Nord-Occidentale.
È piuttosto interessante il ghiribizzo letterario che Ottaviano si concede nella titolazione delle varie composizioni, che diventano i capitoli di una novella che musicalmente non è proprio fedele a certi linguaggi primitivi del «triangolo nero», ma si sostanzia attraverso un costrutto fusion-jazz a larghe maglie, il quale ne incorpora gli umori e talune modalità ritmiche. L’opener «Wadud», ricrea l’atmosfera di una danza propiziatoria inizialmente lenta e progressiva, che cambia di umore e di latitudine man mano che emerge. Gli strumenti a fiato si liberano verso latitudini molteplici, specie quando entrano in ballo le ance del capo clan, il quale viaggia con disinvoltura verso i quattro punti cardinali della musica. «Joy» ha una struttura afro-fusion bene evidenziata che riporta alla mente le atmosfere di «Black Market» dei Weather Report, con il basso elettrico che diventa dominante insieme alle percussioni, mentre Ottaviano versa qualche tributo nelle casse di Wayne Shorter con tanto di ritenuta d’acconto. «Ode» è una ballata soulful, piuttosto descrittiva e dai contrafforti documentaristici. Si ha l’impressione di sorvolare le sconfinate terre africane, mentre gli strumenti a fiato diventano l’io-narrante come una voce fuoricampo. «Wights Waits For Wheights», uno dei dee brani non originali contenuti nel album, appartiene a Steve Coleman e si sostanzia come un incisivo afro-funk, caratterizzato da un riff ostinato che diviene propedeutico a una danza iniziatica. «River Of Our Ancestors» è un «canto» ricco di pathos, dove il lirismo strumentale risulta rappresentativo di un sentimento che alimenta paure e conflitti: il sax di Ottaviano descrive alla perfezione il lento fluire dell’esistenza umana. «Bebey», dedicata ad un vero Griots, Francis Bebey, sostiene l’idea di un’Africa traslata in un contesto metropolitano, alimentato da atmosfere funkified alla Curtis Mayfield, da angiporti newyorkesi e da telefilm modello Blaxploitation. «Black Train» ha i tratti somatici del tipico modello di fusion-jazz sostenibile divisa tra Africa Europa ed America con l’aggiunta di un tema melodico vagamente arabescato. In conclusione, « I Got Rock» di Massimo Urbani, che riproposta con impianto free form procede per vie oblique ed accidentate, mutando nell’epitome di un’Africa tormentata e lacerata dalle guerre intestine e sfruttata dal colonialismo finanziario. «Doussoun’ Gouni», come tutte le opere di Ottaviano, più che una genesi ed uno sviluppo del jazz e dei linguaggi affini, diventa una palingenesi, un completo rinnovamento ed ampliamento del modulo espressivo.
In un’intervista per Doppio Jazz Magazine, Guido Michelone ha chiesto a Roberto una definizione della sua musica: «Forse non esiste operazione più rischiosa e critica che «definire» qualcosa. Già faccio fatica a definire ciò che fanno gli altri. Ma poi, ha un senso ? Guarda ciò che è avvenuto più di recente con la questione BAM. Molti afroamericani hanno alzato una barricata su definizioni consolidate attribuendole ad un mercato controllato e manipolato dai bianchi, e del resto anche Ellington e pure Coltrane guardavano al termine Jazz con un certo sospetto. Non so, forse era giustificato creare delle distinzioni fino agli anni ’50, ma poi il Jazz è andato in pezzi e l’evoluzione del linguaggio, pur nella convivenza con un regolare flusso mainstream, ha cominciato a polverizzarsi in una miriade di diverse entità. Ancora per questioni di comodo per esempio si è ficcato tutto ciò che si faceva difficoltà a catalogare, sotto l’etichetta «Free». Ma poi, cosa c’entra Ornette con Ayler, o Cecil Taylor con Trane ? Se parliamo di Bop, allora stilemi, stilisti, umori, strutture, riferimenti tecnico espressivi convergono, ma quando abbiamo cominciato a parlare di Fusion ? È possibile associare la scrittura dei Weather Report a quella dei Return To Forever ? Io la sento come una semplificazione se non come una forzatura, per non parlare del panorama contemporaneo in cui tutto è Jazz e niente è Jazz. Steve Coleman e Samara Joy, il trio Tapestry di Lovano e Jakob Collier…Non so, davvero è un esercizio cui volentieri faccio a meno».
