Guido Michelone intervista il jazzista napoletano Daniele Sepe
// di Guido Michelone //
D. Così, a bruciapelo chi è Daniele Sepe ?
R. Un musicista napoletano da sempre interessato a tutte le maniere di fare musica nel mondo. Sicuramente non un jazzista in senso puro e tradizionale.
D. Ci racconti ora il primo ricordo che hai della musica e del jazz?
R. Ho iniziato a suonare nelle scuole medie, nel ’72 penso, ma dopo tre anni già andavo in autostop Umbria Jazz per ascoltare Mingus e Basie. In quegli anni era normale per un quindicenne fare politica, leggere Maikovsky e Marx, ascoltare Archie Shepp, gli Area e Matteo Salvatore.
D. Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista?
R. L’amore ovviamente. Mi ero innamorato di una ragazzina che suonava il flauto. Non mi ci sono mai fidanzato, ma mi sono fidanzato con la musica.
D. E in particolare un sassofonista?
R. Il primo amore Sonny Rollins, poi arrivarono i Weather Report con Wayne, e quando ho incontrato Gato Barbieri ho capito che si poteva mettere insieme la propria cultura popolare con il jazz.
D. Ti definiscono via via musicista jazz, etno-jazz, napoletano, world music, mediterraneo: quale preferisci e perché?
R. Musicista basta e avanza. Nel 2023 è ridicolo disegnarsi dei confini intorno da soli. C’è troppa musica bella nel mondo, e troppo poco tempo nella vita per dedicarsi solo ad una cosa.
D. È vero che il cinema di Totò conta quanto il sound di John Coltrane e Ornette Coleman nella tua formazione?
R. Mbè da napoletano viene naturale. E lui era un jazzista, no? Improvvisava, il recitare a soggetto è come interpretare uno standard. E a me è sempre piaciuto il jazz con una buona carica di ironia e sarcasmo, pensa a Mingus o Rollins.
D. Ma cos’è per te il jazz?
R. Quella musica che fa du dum dum dum dum… a parte gi scherzi fortunatamente è un contenitore tallente grande da poterci fare entrare dentro tutto. Di base basta ricordare ogni tanto che siamo tutti figli del Delta del Mississippi.
D. Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
R. Libertà, rigore, rispetto, interazione. Come nella vita. Anarchia responsabile.
D. Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?
R. Sono tutti figli miei. Vite Perdite è quello che mi ha fatto ascoltare dalla maggior parte della gente, The Lost album quello in cui ho fatto jazz dall’inizio alla fine, ed è una rarità per me mantenermi un ora sullo stesso registro.
D. E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?
R. Uno dei Weather. Con Zawinul ti porti indietro la tradizione classica europea, la musica popolare del mondo e il jazz.
D. Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
R. Mbè come per tutti mio padre e mia madre, quinta elementare e terza media, comunisti e innamorati dei libri e dei dischi, da proletari ignoranti, o meglio ricchi di un altra cultura.
D. E i sassofonisti che ti hanno maggiormente influenzato?
R. Rollins, Dexter, Wayne, Gato, Coltrane.
D. Pensi che debba esistere un rapporto diretto tra musica e politica?
R. Non può non esistere. Se lo ignori vuol dire che ti sta bene il mondo com’è. Se preferisci suonare come 60 anni fa hai una piccola propensione al tornare indietro ed essere dopo tutto reazionario, se vuoi cambiare il mondo di conseguenza usi la musica che è il fucile.
D. Come vedi la situazione del jazz a Napoli?
R. Molti ragazzi molto bravi. Ma spesso accademicamente legati a un linguaggio elitario. Spero capiscano che c’è bisogno di andare incontro alla gente comune.
D. E più in generale della cultura in Italia?
R. Direi che Napoli è come il resto del paese.
D. Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
R. Sto rimettendo insieme un concerto dedicato a Victor Cara, di cui ricorre il cinquantesimo delle scomparsa, quindi molto Sudamerica, sempre con un pizzico di jazz dentro, e porteremo in giro il progetto dedicato alle musiche dei film di Totò, Trovajoli, Piccioni, Rustichelli, Luttazzi…tutti grandi pionieri del jazz italiano.