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Nel momento in cui il sassofonista venne cooptato da Davis all’interno del second great quintet, iniziò a manifestare i primi segni di un’evoluzione creativa e compositiva non comune, cavalcando il modale spinto d’ispirazione coltraniana.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Innovatore in un’epoca di cambiamenti , Wayne Shorter è stato uno dei personaggi fondamentali per l’evoluzione dal jazz moderno. Un vero traghettatore dai vecchi stilemi al nuovo modo di concepire la musica improvvisata africano-americana. La sua carriera di influente sassofonista tenore e compositore ha attraversato più di mezzo secolo, seguendo la complessa rivoluzione del jazz per tutto quell’arco di tempo, attraverso mutamenti e contaminazione fino a diventare uno dei paladini della fusion con i Weather Report. Wayne Shorter, l’enigmatico e intrepido sassofonista che ha plasmato il colore e il contorno del jazz moderno come uno dei compositori più profifici, innovativi ed immediati, raccogliendo l’eredità coltraniana, è morto a Los Angeles. Aveva 89 anni. Shorter era nato nel 1933 a Newark nel New Jersey ed aveva iniziato a suonare il clarinetto a 15 anni. Il suo agente, Alisse Kingsley, ha confermato il decesso, avvenuto in ospedale. Non sono state, però, fornite informazioni sulle cause, ma i sassofonista era da tempo malato e sofferente

Nel uso del sax tenore Shorter aveva uno stile sornione e confidenziale, ma non privo di improvvise folate verticali, immediatamente identificabile per il suo tono basso e adamantino e per il senso ellittico della frase. Capace di una sonorità più brillante sul sax soprano, strumento sul quale ha lasciato un’influenza incalcolabile, riusciva essere trasversale, intrigante o sfuggente, ma sempre con un’intonazione mercuriale ed una precisione d’attacco da manuale. Venuto alla ribalta negli anni Sessanta come sassofonista tenore e compositore interno per alcune formazioni di punta come i Jazz Messengers di Art Blakey ed il Miles Davis Quintet, due dei più rinomati line-up della storia del jazz moderno, seppe ritagliarsi presto una carriera come band-leader imponendo uno stile del tutto personale. Quando Wayne approdò nell’entourage del decano dei batteristi, forse neppure Art Blakey era consapevole del potenziale di questo eclettico sassofonista, ignaro perfino del fatto che, tra il 1963 ed il 1964, gli avrebbe conferito la carica di direttore musicale dei Jazz Messengers. Shorter dovette attendere, però, prima di trovare la cosiddetta quadratura del cerchio, passando attraverso il quintetto di Miles Davis. I suoi primi lavori d’esordio per la Vee Jay erano stati puramente interlocutori e legati all’hard bop di maniera.

Nel momento in cui il sassofonista venne cooptato da Davis all’interno del second great quintet, iniziò a manifestare i primi segni di un’evoluzione creativa e compositiva non comune, cavalcando il modale spinto d’ispirazione coltraniana. Il passaggio alla Blue Note non solo fu il riconoscimento di un talento straripante, ma per Shorter divenne uno spartiacque rispetto al vissuto precedente. Dal lì in avanti la sua sarebbe stata una delle voci più espressive ed autorevoli all’interno del post-bop a trazione anteriore, talvolta confinante con le nuove istanze del free jazz. Abbandonato l’hard bop di maniera, nell’aprile del 1964, Shorter registrò il suo primo album per Blue Note, «Night Dreamer», che ne evidenzia tutte le qualità di leader, direttore musicale, arrangiatore e compositore, ma al contempo mette in risalto dei lievi difetti dovuti ad alcuni antichi retaggi ed a certe ridondanze tipiche di una prima linea condivisa; più semplicemente si potrebbe parlare di necessità di adattamento ad una nuova struttura che, in quel periodo, stava cambiando direzione e finalità d’intenti, ma che non riusciva a liberarsi definitivamente da alcuni legami con la tradizione. Al sassofonista bastarono pochi mesi per prendere le misure e ricalibrare il tiro, tanto che durante la sessione del 3 agosto 1964 strutturò il suo primo incrollabile pilastro discografico marchiato Blue Note.

LO RICORDIAMO CON UNO DEI SUOI CAPOLAVORI DEL 1964

«Juju» fu un set a pochi passi dalla perfezione. Archiviata l’idea del quintetto a favore di un quartetto e lasciato a casa il trombettista Lee Morgan, Shorter si concentrò su tre fronti: l’individualità del sassofono tenore, quella del pianoforte di McCoy Tyner ed infine le possibili interazioni tra i due strumenti. Il quartetto gli permise di esprimersi liberamente, mettendo a tacere tutte le critiche che gli erano state rivolte in passato. Il risultato fu un album descrittivo, in cui ogni titolo ha un significato ben preciso che Shorter spiega nelle note di copertina; sicuramente, «Juju» è il suo disco più coltraniano, caratteristica accentuata dalla presenza di McCoy Tyner ed Elvin Jones, ma anche dall’identificazione di Shorter con le strutture armoniche non dissimili a quelle praticate da Coltrane, nonché dalla stessa audacia nel gestire lo strumento e dalla vastità del costrutto sonoro. Il percorso indicato da Shorter fu, però, differente da quello tracciato dall’inquieto Trane, il quale tendeva a destrutturare la parte compositiva, semplificando la componente armonica al fine di muoversi agilmente rispetto alle più impiglianti trame fitte di accordi. Dal canto suo Shorter puntò più sulla scrittura e sul plot narrativo del tema.

«Juju» si sostanzia come un figlio legittimo della rivoluzione modale, ma nonostante la presenza di sequenze di accordi non legati da relazioni tonali, non archivia del tutto la tradizione. L’album estremamente razionale e ben bilanciato evidenzia una visione compositiva del tutto personale. Shorter mise in luce la propria capacità di scrivere temi seducenti quasi empirici, composizioni senza tempo dai tratti mistici, etnici e contemplativi. Per contro dimostrò di essere a suo agio nella scrittura di brani vivaci ed energici, piuttosto che di rilassati componimenti dal sangue blues, ma sempre con un’impronta unica e non scontata che finì per diventare il suo marchio di fabbrica. Non importa quanto lontano vadano i suoi assoli, ma dopo gli estenuanti voli pindarici, il sassofonista torna spesso ad armeggiare con la melodia iniziale, alla medesima stregua di un esploratore consapevole che conosce bene la strada di casa e sa come ritornare sui propri passi. Ascoltando attentamente «Juju» ci si accorge che il quartetto riuscì a trovare un asse su cui muoversi in maniera circolare, dove il bassista Reggie Workman diventava un modello di duttilità e precisione, incuneandosi tangenzialmente a metà strada tra gli accenti percussivi, le ragnatele poliritmiche di Jones e le trappole armoniche di Tyner, mentre Shorter poneva abilmente le solide fondamenta di una struttura improvvisativa che non perde mai la quadratura melodica.

La title-track, «Juju» evoca divinità pagane in un rituale apotropaico propiziato da un vorticoso pianoforte, da una trance percussiva e dalla potenza estatica dell’assolo del sax tenore. «Juju», come spiega lo stesso Shorter nelle note di copertina, è una parola africana, adottata ad Haiti con il termine Vodoo, a rappresentanza delle pratiche magiche e dei riti religiosi provenienti dal continente nero che, in quegli anni, stava diventando il punto di riferimento di tanti jazzisti afro-americani, quale idea di patria naturale. Il titolo dell’album non deve comunque fuorviare, non siamo di fronte ad un disco dedicato all’Africa in senso stretto, piuttosto ad un itinerario virtuale, di cui il continente africano diventa il punto di partenza. In «Deluge» (diluvio) le onde di un mare di note, durante un temporale, sembrano scontarsi con la terra ferma, prima di sviluppare un piacevole andirivieni ritmico. «House Of Jade» è una suadente ballata, parzialmente scritta dalla moglie di Shorter: sarebbe bastato un colpo di gong per richiamare alla mente una cerimonia tipica dell’estremo Oriente, tra surreali contemplazioni ed appaganti sensazioni meditative.

«Majhong» (titolo mutuato dal classico gioco cinese), si materializza come un componimento dalla forma piuttosto biunivoca, nel quale l’Oriente e l’Africa sembrano fondersi attraverso le melodie pentatoniche del sax e del piano magnificate da una ritmica progressiva che coglie batteria e basso sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda, soprattutto le partiture risultano assegnate secondo una precisa sequenza. «Yes Or No» è un costrutto imperniato sulla contrapposizione di due stati d’animo, uno positivo ed armonicamente maggiore (come spiega lo stesso Shorter) ed uno negativo, ricco di scetticismo e basato su un’armonia minore. In conclusione, «Twelve More Bars» si sostanzia come un bop mid-range dalla struttura blues, che si muove su binario deragliante alimentato da uno strisciante groove funkfied non facile da perimetrare, ma che si adatta correttamente al tono generale dell’album. «Juju», pur evidenziando un perfetto equilibrio tra composizione ed improvvisazione, non è il disco di Shorter per antonomasia e non contiene neppure le sue più celebri composizioni, ma fu l’opera che lo consacrò come band-leader.

Miles Davis & Wayne Shorter

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