Michelone-Verrina-Cappello

//di Kater Pink //

Abbiamo raccolto questo serrato dialogo tra Guido Michelone e Francesco Cataldo Verrina, dove si affrontano molte problematiche legate al mondo del jazz, in cui emergono talune interessanti riflessioni, a tratti velate di ironia, ma ammantate da una punta di marezza per quei difetti struttarali e storici nell’ambito dell’organizzazione eventi jazzistici, della discografia e dell’editoria; nonché dell’atavico ritardo culturale dell’Italia rispetto ad altre realtà europee.

Michelone. Parliamo di questo 2022 jazzistico che sta per volgere al termine. Non ho trovato grosse novità sul piano del rinnovamento del jazz, come poteva accadere per esempio nel 1969 con l’intensificazione dei rapporti tra jazz e rock da entrambe le parti, per intenderci Miles Davis da un lato, Blood Sweat & Tears dall’altro. Certo nel 2022 sono usciti tanti buoni dischi jazz, tante utilissime ristampe anche e soprattutto in vinile. E poi, dopo due estati difficili, il ritorno alla normalità dei jazz festival da giugno a settembre, pur con tutti i limiti che, almeno in Italia, presenta questo tipo di iniziative. Vogliamo partire da quest’ultima delicata questione?

Verrina. Credo che la nostra epoca non sia paragonabile a nessun altra. Faccio una premessa: gli abitatori del pianeta terra, nella zone ad economia avanzata, migrant-analogici, baby boomers, xennial, millennials sono tutti soggiogati e terrorizzati (siamo tutti soggiogati) dalla paura di perderci qualcosa. C’è una corsa contro il tempo per cercare di avere e fare tutto ed il contraio di tutto. Il lockdown ha dimostrato che molti individui costretti in casa, non potendo più frammentare il loro tempo in tante attività, stavano quasi impazzendo, in parecchi sono finiti in analisi. Tutto ciò ha determinato una situazione per cui, soprattutto i giovani, che in ogni epoca, dovrebbero essere il presiodio della musica, almeno in questa stagione della loro vita, hanno perso qualsisi interesse che vada oltre qualche mese o qualche stagione per questo o quel fenomeno musicale di moda o di tendenza. Le nuove generazioni sono afflitte da una sorta di spleen baudeleriano, per cui anche la discogarfia annaspa in uno stagno d’incertezza. Non ci sono più i fenomeni discogarfici innovativi, seminali ed epocali, perché non esistono più i movimenti di opinione, le rivoluzioni culturali, le lotte di classe. La creatività è figlia della sofferenza e della conflittualità. Il benessere genera noia ed appiattimento, instabilità, irequetezza e continua voglia di cambiamento del nulla con il niente, quindi la musica diventa lo specchio di un’epoca deformata, di una società liquida. In Italia non difettiamo di genialità musicali, non mancano i buoni dischi, noi ne recensiamo a decine ogni anno, la media è alta. Il mercato del vinile, sia nuovo che usato, è alquanto elitario e non alla portata di tutti. I mercatari e i commercianti hanno alzato molto l’asticella. Non vedo particolari iniziative autunnali, se non il cambio di governo, le polemiche di Ballando con le Stelle e i mondiali di calcio in Qatar. Battute a parte, ho vsito solo RAI 5 che rimanda dei frammenti di DOC con Arbore e Telesforo. Nostalgia canaglia? I jazz festival mi sembra che lascino sempre uno strascico di polemiche. Poco jazz, molto pop, sempre i soliti noti.

Michelone. Altra questione che mi ha fatto molto alterare in questo 2022 jazzistico: come il 90% dei jazzmen italiani si lamenta giustamente del fatto che 4-5 nomi occupano quasi tutti gli spazi concertistici, non per loro prepotente volontà imperialista, ma per il fatto che gli organizzatori inventano solo loro (spesso perché, ‘ignoranti in materia’, invitano solo loro), così anch’io sono inalberato perché 2-3 critici – dei quali diplomaticamente non faccio i nomi- occupano il 99% dei posti disponibili per dibattiti, conferenze, seminari, tavole rotonde, più o meno per lo stesso motivo o con analoga tecnica degli organizzatori (che poi sono gli stessi del festival). Ho ragione o no?

Verrina. Hai argione da vendere, ma credo che in Italia sia così dai tempi di Giulio Cesare: congiure ed intrigi a palazzo. Considera che le leggi feudali in molte parti d’Italia sono state abolite nel 1805 con l’editto napoleonico, se non sbaglio, per cui ci ritroviamo in un paese di feudatari, vassalli, valvassori, valvassini, massoni, mammasantissima, uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaquaraqua. Il nepotismo nel nostro paese sembrerebbe scritto in un’articolo della costituzione, la raccomadazione è una prassi, il caporalato culturale fa concorrenza a quello della sacra corona unita. La logica spartitoria è alla base di ogni manovra politica, finanziaria, sportivo e culturale. Gli Italiani secernono dal sedere un particolare collante che li fa rimanere attaccati alle poltrone a vita. Purtroppo com diceva “Il Buono” nel film di Sergio Leone: il mondo si divide in due categorie, chi ha la pistola carica e chi scava..e tu, scavi!

Michelone. Restiamo sempre in Italia: di recente la nomina dello studioso Stefano Zenni a direttore del Torino Jazz Fest al posto del trombettista Giorgio Li Calzi sta suscitando un sacco di polemiche nel capoluogo piemontese, in tutta la Regione e di riflesso nell’intero Paese. Di fatto si sono formati due schieramenti: da un lato i musicisti che difendono Li Calzi per solidarietà quasi corporativa, dall’altro critici, giornalisti, intellettuali che preferiscono un uomo di cultura (ovviamente esperto di jazz ai massimi livelli) in quanto super partes. Sappiamo che la posizione non è così netta perché da un lato non sempre i jazzisti-direttori fanno suonare (solo) gli amici e dall’altro non è detto che un professore abbia le proprie fissazioni in fatto di gusti e di scelte. La tua opinione?

Verrina. Stefano Zenni è persona estremamente preparata e raccoglie intorno a sè una certa credibilità, non conosco però le sue capacità manageriali. Certo può attrarre qualche nome importante del jazz, avere addentellati con il mondo dell’informazione, ma so per certo che organizzare un festival non è impresa da poco. Io in passato ho fatto uffici stampa e promozione per alcuni piccoli eventi, concerti, serate e ti garantisco che l’organizzatore, il deus ex-machina, era tutt’altro che un esperto di musica o un musicista, ma piuttosto un contabile, alle prese con i budget e le questioni logistiche di varia natura. Se parliamo di una figura simbolica di direttore artistico, allora può andare benissimo qualsiasi personaggio di spicco in ambito giornalistico, universitario e musicale, ma se pensiamo ad un manager che deve organizzare “fisicamente” l’evento, un manager puro con un un piccolo staff di consulenti sarebbe meglio, sia di un musicista che di uno studioso o di un intelettuale poco avezzo con le questioni pratiche. In ogni caso, “il qualunque di turno” si porta dietro un suo carrozzone pieno di amici, giannizzeri,lustrascarpe e collaboratori genoflessi. Comunque facciamo un in bocca al lupo a Zenni, a cui credo abbiano fatto un’offerta che non poteva riufiutare. Insomma, come dicevano gli antichi: chi fotte beve dalla botte e chi zappa beve acqua. Oggi sono sentenzioso!

Michelone. Altra questione spinosa: la cultura del jazz. Dove la si fa? A livello accademico i DAMS dove si insegna Storia del Jazz sono pochi (ed è una materia fra le tante), i Conservatori badano soprattutto a formare musicisti che sappiano suonare, le riviste cartacee tentano di sopravvivere con svariati escamotages (concentrandosi sull’informazione e sull’attualità), l’editoria guarda solo ai grandi numeri e non esistono più situazioni come l’Einaudi, la Feltrinelli, la Marsilio, persino la Mondadori degli anni Sessanta-Settanta quando pubblicavano grandi libri sul jazz, sul blues, sul rock. Gli unici a rischiare sul jazz oggi sono piccoli editori come Quodlibet, Arcana, EDT, Minimum Fax, Melville, mentre qualcuno come te (o come Max Stefani per il rock) preferisce autogestirsi: come organizzi quest’epserienza?

Verrina. Sai che mi piace ragionare per pardossi, qundi ti rispondo con un’altra domanda: la cultura in genere dove si fa, in Italia? Nelle scuole non di certo! Cambiano i governi, i politici, ma non si fa nulla per incrementare il livello culturale medio degli Italiani. La musica poi è considerata come “arte frivola”. I libri si pubblicano ancora, magari con meno budget e spinte promozionali, rispetto ad un tempo, ma mancano i lettori, a parte una nicchia di appassionati. Molti preferiscono frugare sul web in maniera frammentaria, piuttosto che leggere ed apparofondire. L’editoria soprattutto non fa più scouting, cercando qualche nuovo scrittore, ma si affida spesso a firme sicure e personaggi che hanno avuto visibilità in altri ambiti. In quanto ai conservatori, è vero ci si concentra molto sullo strumento con poche nozioni di storia e di cultura generale sulla musica. Tanti giovani musicisti di estrazione classica ignorano completamente altre forme di musica, specie l’enorme serbatoio della tradizione afro-americana, da cui si sono nati tutti i genere ritmici moderni, jazz compreso. La cultura della canzonetta e del talent-show regna sovrana. È convinzione diffusa che si possa suonare bene uno stromento pur essendo ingoranti. Una volta nelle bande di paese c’erano persone analfabete che avevano imparato a leggere uno spartito, ma poi fimavano con una X in presenza di due testimoni. Parabola significa: nella mentalita e nella genetica italica, a differenza della Francia o dei paesi nordici, la musica è sempre vista come intrattenimento e non come cultura, eccezione fatta per la sinfonica o la lirica. Il jazz rimane in un limbo. Il rapporto tra scrittori e case editrice è difficle, perche le piccole realtà editoriali promettono e poi non mantengono. Per quanto mi riguarda, dopo alcune spiacevoli sperienze, negli ultimi vent’anni ho deciso di fare l’editore di me stesso e qualche risultato s’è visto, lavorando soprattutto sul web, attraverso una costante operazione di promozione e di marketing diretto e circolare.

Michelone. I social sono, come dicono tutti, uno specchio della realtà e da questa realtà si deduce che l’italiano medio che si definisce ‘amante del jazz’ o ‘esperto’ o ‘buon ascoltatore’ è ancora a un’idea concentrata quasi unicamente sull’hard bop di casa Blue Note. È pur vero che si tratta di un grande periodo, ma non è l’unico e soprattutto la storia del jazz si evolve in fretta. È come chi ama follemente la pittura del Rinascimento e in fatto di conoscenze non va oltre gli Impressionisti francesi. Non saprei dire se è pregiudizio o una lacuna culturale o pigrizia dell’intelletto o altro ancora: che mi dici.

Verrina. Magari l’idea di jazz diffuso fosse concentrata sull’hard bop della Blue Note, o della Impulse! ed a cascata sul periodo aureo anni ’50/’60, magari sulla nascita del post-bop e del free-jazz. Credo piuttosto che la facilità di fruizione di certi classici della Blue Note et similia trovi un terreno fertile più nei neofiti e coloro che non vogliono andare oltre una certa nomencatura, che comunque resta di tutto rispetto. Credo invece che ci sia una generazione di ultrasessantenni ancorata, per motivi anagrafici, ad un periodo ibrido e transgenico dal jazz, quello degli anni Settanta. In quel momento la cultura antagonista post-sessantottina aveva avvicinato i giovani di allora ad una sorta di jazz contaminato ed a forme derivative, ma alterate di jazz europeo, che restano geo-localizzate nel tempo e che appaiono quanto mai superate. Parlo di quelle forme di para-jazz o pseudo jazz in seguito esaltate da certe etichette scandinave e tedesche, che oggi, con correità da parte di alcuni organi d’informazione hanno ricreato ed inculcato un idea di non-jazz, sostitutivo della grande tradizione americana ed afro-americana. Il paesaggio è desolante e sullo sfondo compaiono, spesso, perfino i fantasmi dell’era swing pre-bellica, coloro che non potrebbero vivere senza acoltare un disco di Chet Baker o di Bill Evans, un giorno sì e un giorno no, quelli che il Miles elettrico non mi piace, il free-jazz non lo capisco, quelli che Jarrett è antipatico, i Soft Machine sono più jazz che rock, i Perigeo erano meglio dei Weather Report, gli Area erano vero jazz, i neri suonano troppo veloce, Sonny Rollins troppo forte, preferisco il cool jazz. Insomma credo che ce ne sia per tutti gusti, ciò che manca, in generale, è l’obiettvità e la capacità di analizzare con distacco uomini e dischi nel loro contesto sosciale, storico ed ambientale; in tanti trovano disdicevole uscire dal propria zona comfort.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *