// di Francesco Cataldo Verrina //
George Benson è un Giano Bifronte che guarda sempre al passato ed al futuro e che nelle sua discografia ha sempre alternato dischi mutevoli per stile e dimensione: a volte più legati al jazz e alla fusion; altri allo smooth e alla soul-dance, specie dopo il successo planetario e milionario di “Give Me The Night”
Lunedì 15 luglio 2019, una data da ricordare, per la musica, ma anche per il freddo. All’arena Santa Giuliana ci sono i segni di un recente nubifragio, le temperature sono planate su valori autunnali. Giove pluveo minaccia ancora pioggia. Un gelido vento del Nord sferza i corpi poco vestiti delle centinaia di persone che riempiono l’arena, quasi tutte in assetto da combattimento estivo. Molti stranieri, sempre più informali, sono a maniche corte e calzoncini; gli Italiani sono stati più previdenti, soprattutto gli “indigeni” che conoscono la mutevolezza del clima perugino. Il passaggio è stato brusco, da 30 a quasi 15 gradi nel giro di poche ore, quindi non sarebbe facile resistere se la ricompensa musicale non fosse ambita, soprattutto mentre il vento insiste in tutte le direzioni, scongiurando comunque la pioggia.
Quello di George Benson è un vero spettacolo: tanti musicisti, tanti strumenti, tanti suoni, c’è il jazz, lo smooth jazz, qualche accenno di fusion più impegnata, c’è il soul, il funk e la pop-dance di lusso. George Benson canta un po’ sottotono, non è più la voce di un tempo, ma incanta quando brandisce la sua Ibanez. Nelle mani c’è tutta la sapiente maestria di chi è cresciuto alla grande scuola del jazz e dei maestri ideali come Wes Montgomery. Non importa se in quel momento venga eseguito un brano dance o una ballata pop, l’anima del jazz c’è. La band offre un ottimo sostegno al chitarrista, soprattutto la corista in alcune parti vocali dalle tonalità impervie. È comunque una alternanza di famosi strumentali e successi da hit-parade.
L’arrivo di “Give Me The Night”, proposto in una versione più dilatata, fa esplodere l’Arena Santa Giuliana, l’ordingo era stato già parzialmente innescato dalla precedente “Turn Your Love Around”: tutti in piedi a ballare, quasi un’estasi collettiva, mentre la tramontana del Nord sferra ancora bordate micidiali, mitigate dalle bollenti note di un calorifero soul-jazz-dance-pop a presa rapida. La band si congeda, ma puntuale arriva il bis con una toccante e sofferta “Greatest Love Of All”, quindi gran finale con una spettacolare e lunghissima versione di “On Brodway”. Umbria jazz ha bisogno di grandi numeri, quindi jazz o non jazz, quella proposta da George Benson è sicuramente musica di lusso per palati sopraffini. Il suo eclettismo è universalmente riconosciuto, ma dire che George Benson non sia jazz, mi sembra pretestuoso e significa prestare il fianco ad una polemica oltremodo sterile.
“Questa chitarra l’ho fatta realizzare prima di tutto per avere uno strumento solido da portare in tour con me e poi non va sottovalutata la sua duttilità esecutiva. La mia chitarra mi permette di decidere che suono esprimere a seconda dello stile senza che io sia troppo prigioniero dei suoi vincoli acustici e ritmici. La mia educazione compositiva deve molto a Nat King Cole ma altrettanto a Charlie Parker. Quando ho sentito le sue sperimentazioni ai fiati ho compreso che dovevo osare di più nelle mie esecuzioni. E forse per questo facevo difficoltà a trovare band che volessero suonare con me. Ero un po’ troppo fuori dalle regole…”
EXTRA LARGE
George Benson – “Blue Benson” , 1976
Molti autorevoli critici, nel corso degli anni, hanno ravvisato nel binomio chitarra/voce di George Benson l’equivalente di ciò che furono la voce e il piano in Nat King Cole. Fu proprio la scoperta delle sue capacità vocali a trasportare Benson verso la dimensione del jazz d’intrattenimento, divenendo un punto di riferimento per più d’una generazione di musicisti, i quali vedevano in lui un chitarrista dallo stile inconfondibile, forgiato sull’esempio di Charlie Christian e Wes Montgomery, veri precursori della chitarra jazz ed un cantante, quasi un intrigante crooner, dal timbro vellutato, attrattivo e seducente.
Il George Benson degli anni ’60, ancora lontano dai lustrini e dalla mondanità, è un affare ben diverso, rispetto all’affabulatore degli anni ’70 e ’80, quando l’abile chitarrista-cantante, riusciva a passare con successo da un genere all’altro, dimostrando in ogni occasione buon gusto, eleganza e virtuosismo strumentale. Il suo nuovo modus operandi diede inizio a quel metalinguaggio jazzistico di facile ascolto e comprensione, indicato come smooth jazz, una sorta di fusion leggera, molto inclusiva che legava con estrema disinvoltura buona parte degli stilemi tipici degli Afro-Americani, fino a sfociare nel pop di lusso. Quando «Blue Benson» venne editato per la prima volta nel 1976, in tanti pensarono che si trattasse di una sorta di pentimento sulla via di Damasco da parte di un musicista che, pur spaziando a 360 gradi, non sapeva rinunciare al suo imprinting jazz.
In verità il materiale contenuto nell’album risale al periodo 1966 /1968, e fra le varie tracce registrate per la Verve ne furono assemblate alcune che presentano differenti line-up, per quanto il nucleo centrale graviti intorno ad un ispirato George Benson alla chitarra, accompagnato da Herbie Hancock al piano, Billy Cobham alla batteria, Ron Carter al basso e Johnny Pacheco alle percussioni. La set-list denota un ottimo lavoro di squadra, fatto di impeccabili arrangiamenti, melodie pulite e snelle che attingono alle tradizionali radici soul-jazz, ma che già guardavano, per la facilità di fruizione, ad un pubblico molto più ampio.
Il tutto viene eseguito con estrema spontaneità e senza calcolo alcuno: Benson era ancora lontano da quella che sarebbe stata la seconda fase della sua carriera. Fra i titoli segnaliamo: «Billie’s Bounce», «Low Down & Dirty», «Thunder Walk», «Doobie, Doobie Blues», «What’s New» ed una toccante «I Remember Wes», dedicata al suo mentore ideale. «Blue Benson» è un album piacevolissimo e scorrevole, da riscoprire e ricollocare nel suo alveo naturale: il jazz nella sua forma ed espressione più pura.