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Herbie Hancock - Roma

Sottotitolo: «Age Ain’t Nothing But A Number» (L’età non è nient’altro che un numero)

// di Marcello Marinelli //

Come cantava Aaliyah, la giovane interprete R’n’B, nel 1994 sul suo primo disco «Age Ain’t Nothing But A Number», l’età non è nient’altro che un numero. Infatti, la sfortunata cantante aveva solo 15 anni quando raggiunse il successo e quando il suo produttore di allora, il farabutto R. Kelly, la sposò illegalmente, costringendola nel suo mondo fatto di angherie, sfruttamento, riduzione in schiavitù, il tutto sempre a sfondo sessuale. Sfortunata cantante perché il 25 agosto del 2001, tornando negli Stati Uniti dove aveva girato un video di una sua canzone e dopo aver cercato di decollare, il piccolo aeroplano Cessna 402B si schiantò 60 metri dopo la pista di atterraggio dell’aeroporto di Marsh Harbour, nelle isole Bahamas, con tutti gli otto passeggeri a bordo. Nessun sopravvissuto.

Questo incidente ha lasciato aperti degli interrogativi, che alcuni reputavano «strano» per via del rapporto che si andava deteriorando con il suo «protettore» di allora, il famigerato Puff Daddy, le cui malefatte successive sono oggetto di un processo in corso in attesa di una sentenza che, almeno per quattro dei cinque capi d’accusa, sembra di colpevolezza. In ogni caso, morti sospette ce ne sono state a decine, e tutte legate allo ‘show business’ nell’ambito della musica pop, R’n’B e hip hop: Michael Jackson, Prince, Notorious B.I.G., Tupac le più illustri. Che c’entra tutto questo con Herbie Hancock? Ora ci arriviamo, non andate di fretta, mica vi corre dietro qualcuno, no? Sempre della tradizione afroamericana stiamo parlando, almeno nella concezione allargata di questa tradizione. Prima di tornare a Herbie Hancock, che per il momento ho accantonato, ultima considerazione su R. Kelly, che ho chiamato farabutto e che, per inciso, è stato il mio cantante R’n’B preferito negli anni ’90. Si è macchiato di crimini atroci, tutti a sfondo sessuale, e sta scontando una pena a trent’anni di reclusione che, vista la sua non più giovane età, è praticamente un ergastolo. Sembra che a certi livelli di successo i crimini sessuali siano un obbligo, visti i casi reiterati e diffusi.

R. Kelly ha cantato l’amore e anche il sesso esplicito, l’ha fatto in maniera sublime, e poi è finito in disgrazia per le sue turbe mentali. Io continuo a sentirlo schizofrenicamente, combattendo tra l’artista e l’uomo. Ovviamente, Herbie Hancock con tutto questo ciarpame sessuale non c’entra niente; c’entra solo con il titolo «Age Ain’t Nothing But A Number»dove, in Aaliyah, si riferiva alla sua giovane età, mentre nel caso di Hancock è riferita alla sua veneranda età. Ha raggiunto gli 85 anni, e appunto si dice «L’età non è nient’altro che un numero» vista l’incredibile capacità di tenere il palco, dirigere un gruppo e saltare come un grillo dopo due ore di concerto insieme al chitarrista. Un’energia straordinaria alla sua età. Ho fatto tutta questa introduzione e questo collegamento solo per l’età; lo so, mi lascio guidare dall’accostamento arbitrario e dall’inconscio. Voi siete avvertiti: posso dilungarmi in questioni secondarie, quindi la prossima volta, se non volete perdervi nei meandri dei miei pensieri in libera uscita, non dovete leggermi. Sarebbe un peccato, però, visto che sempre di musica stiamo parlando. Comunque, mi affido al giudizio insindacabile dell’eventuale e ipotetico lettore e mi affido alla sua clemenza o alla sua critica feroce, ma sempre con toni pacati, stiamo parlando solo di musica.

Herbie Hancock: un pezzo di storia, una leggenda quando l’appellativo «leggenda» non è abusato. La sua incredibile versatilità e il suo sperimentare le ha apprese dal suo mentore, mentore di tanti altri grandi musicisti, il grande inarrivabile Miles Davis, che fiuta i grandi musicisti come un cane da tartufi. Dopo il suo debutto discografico con la Blue Note, «Taking Off», lo ingaggia nel suo quintetto insieme a Wayne Shorter, Tony Williams e Ron Carter, uno dei migliori quintetti di sempre. Avevo visto l’ultima volta il pianista in concerto a Umbria Jazz in duo con Chick Corea e pensavo che gli ultimi anni della sua vita musicale fossero indirizzati verso ambiti acustici; era il 2015. Invece, con questo gruppo solca i palcoscenici del mondo da più di un decennio. Il solo giovanissimo batterista Jaylen Petinaud suona con lui da pochi anni, tutti gli altri sono collaboratori di vecchia data, relativamente di vecchia data vista l’età del leader. Dall’introduzione al sintetizzatore si capisce che l’atmosfera sarà elettrica, come la tensione positiva che aleggia nella Cavea ‘esaurita’ per l’occasione, ‘esaurita’ come una donna al volante nel traffico caotico di Roma. Un’introduzione quasi free da gruppo elettronico. Quando entrano in scena i musicisti – Terence Blanchard (tromba), Lionel Loueke (chitarra & voce), James Genus (basso) e Jaylen Petinaud (batteria) – l’effetto elettrico si consolida e il ritmo funk jazz comincia a diffondersi come un virus uscito da un laboratorio segreto. Il repertorio va a pescare nella discografia degli anni ’70 e ’80. Un concerto che potrebbe non piacere a chi non ha mai digerito la conversione elettrica dei grandi musicisti della grande tradizione acustica. Il leader suona una miriade di strumenti elettrici, insieme ovviamente al pianoforte acustico, ma in un contesto elettrico. Sia Hancock che il chitarrista Loueke, un musicista africano del Benin trapiantato negli States, usano effetti; entrambi, tra le altre cose, usano la voce filtrata.

Nel caso di Hancock direi che usa il vocoder o il talk box, aggeggi simili per modificare il tono della voce, per me impossibili da distinguerli. Nel caso del chitarrista non saprei lo strumento per modificare la sua voce, si è esibito in un paio di canzoni. Il chitarrista è tutto tranne uno strumentista convenzionale e il suo modo di suonare è originalissimo. Usando una moltitudine di effetti, crea un sound particolare, un suono di origine africana ma manipolato, a tratti ricco di dissonanze, un suono futuristico della serie: «2050 Fuga da Lagos». Praticamente un musicista ad effetto, oserei dire il musicista effetto; lo stile è per lo più percussivo e il suo accompagnamento scarno ed essenziale, ma le sue influenze nascondono origini diversificate. Tra le altre, si produce in un bell’assolo rock che nel contesto non guasta. La musica continua nel suo incedere elettrico, ma il Nostro (Herbie) usa sapientemente anche il piano elettrico che ci ricorda il suo passato grandioso acustico. La sua energia è straripante, gli argini non reggono e il torrente immaginario esonda. Io che ho apprezzato anche, e non solo, la svolta elettrica del divino Miles, da dove tutto ha origine in tal senso, non posso che godere e mi accontento della proposta musicale, perché chi si accontenta gode.

Mia figlia, compagna di avventura per l’occasione, anche se predilige il soul sound, si accorge che l’evento a cui sta assistendo è un grande evento, e il suo sorriso spontaneo e meravigliato mi fa aumentare il mio godimento; godo del suo godere. La sezione ritmica è robusta ed efficace. James Genus e Jaylen Petinaud assecondano il leader come da accordi preventivi sottoscritti, in cui in una clausola che sono riuscito a vedere, recitava: «Assecondate Herbie perché potrebbe essere pericoloso mettersi di traverso». E i musicisti, per non correre rischi, suonano alla grande esplorando tutti gli anfratti della grande tradizione afroamericana in maniera impeccabile. Terence Blanchard alla tromba, anche lui con effetti elettronici, mi evoca Jon Hassell, un precursore degli effetti sulla tromba, ovviamente fatte le debite e doverose precisazioni su contesti musicali diversi. Ho sempre ascoltato Terence Blanchard alla tromba acustica e apprezzo anche questa versione, ma devo dire con tutta franchezza che, in qualche brano, avrei riascoltato con piacere il suono della sua tromba acustica come ai tempi del suo sodalizio con Donald Harrison. Queste sono bazzecole, e dimentico il suono acustico senza effetto della tromba; in questo turbinio elettrico rischio di prendere la scossa, ma sono scariche a bassa definizione e l’effetto che produce è positivo.

L’album più citato degli anni ’70 è «Thrust» con due brani – almeno io ho riconosciuto questi due brani: «Actual Proof» e il mio preferito di sempre «Butterfly», un pezzo medium tempo molto lirico e ispirato – manca solo il clarinetto basso di Bennie Maupin del brano originale del 1974, impegnato in tutt’altre faccende. Poi l’immancabile citazione a Wayne Shorter con «Footprints», un musicista omaggiato da altri musicisti in questi giorni di concerti, ad esempio da Kurt Elling con gli Yellowjackets, la figura del grande sassofonista che riecheggia ciclicamente. In preda a un furore funk, viene eseguita anche «Rockit» da «Future Shock» che, ai tempi della sua uscita nel 1983, ma anche prima, ha scioccato moltissimi appassionati di Herbie Hancock che non hanno mai digerito questo versante. Anche adesso, bazzicando i critici e gli appassionati di jazz, a distanza di tanto tempo si discute animatamente sul profondo significato dell’estetica musicale. Pensate quanta passione nutrono per la musica jazz i vecchi appassionati che, come me, discutono di musica. È jazz o non è jazz? Questo è il dilemma, una domanda che ancora intriga.

In prossimità del finale, il Nostro imbraccia il keytar, la tastiera a tracolla, si alza dal seggiolino, si sgranchisce le gambe e comincia a suonare in piedi. È talmente energico che un pensiero mi attraversa: (Farà uso di sostanze?) No, Herbie non fa uso di sostanze, la sua droga si chiama «musica», e la musica è capace di scatenare la dopamina, la noradrenalina e la serotonina senza ricorrere alla cocaina; che meraviglia quando non c’è la cocaina come sostegno energetico, non so se sia vero ma mi piace pensarlo. Io, al pari di Hancock, faccio mia la frase «la mia droga si chiama musica». Per Truffaut, che nel film del 1969 affermava «La mia droga si chiama Julie», allora faccio nostro anche il motto di Truffaut e aggiungo, alla droga intesa come musica, anche eventuali, possibili e indispensabili Julies, così aggiungiamo droghe naturali, Julies e musica unite nella lotta.

Vista la mia propensione alle divagazioni, avrò assottigliato la pattuglia dei miei lettori che avranno cambiato pagina. Per i lettori eroici che vogliono vedere come andrà a finire questa storia, ritorno al keytar citato poc’anzi. Nonno Herbie, vorrei diventare nonno come lui, dopo aver abbracciato la tastiera portatile, dopo due ore di concerto, si è messo a saltare con il chitarrista; avrà fatto una ventina di salti a piedi uniti come se fosse a un concerto hip hop. Allora, per concludere, visto il mio peregrinare mentale, ma documentato, vi ho convinto della mia tesi iniziale che «L’età non è nient’altro che un numero?». Come dite? Io me la canto e me la sono? Si, può darsi, io me la canto e me la sono, perché nelle mie esperienze musicali ho seguito i cantautori che ogni tanto sento ancora con molto piacere. Sì, ho un approccio da cantautore, mi piace cantarmela e sonandomela; così è se mi pare.

P.S.

Incredibile ma vero, il bis non è stato Cantaloupe Island che non è stata nemmeno citata

Herbie Hancock – Roma

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