Mark Turner: sintassi e tensione, il pensiero musicale come processo

Mark Turner
Il costrutto turneriano si rapprende sulla scorta di un lento e masticato processo di costruzione, come un pensiero che prende forma attraverso il suono, alla medesima stregua di una riflessione che si sviluppa nel tempo, dove il sax tenore pensa, struttura e propone. Ogni progetto discografico, qualsiasi intervento solistico, qualunque collaborazione sancisce una visione che si concretizza nella scelta dei materiali, nella cura della produzione e nella qualità dell’ascolto.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Mark Turner sviluppa un pensiero musicale che si manifesta in virtù una sintassi strumentale rigorosa, una costruzione formale articolata ed una gestione timbrica che riflette una visione lucida ed interiormente strutturata. Nato nel 1965 a Fairborn, Ohio, e cresciuto in California, Turner ha intrapreso un percorso formativo che unisce studio accademico e ricerca personale, passando dal clarinetto al sax tenore con una naturalezza che rivela una predisposizione non soltanto tecnica, ma concettuale. La sua esperienza tra la California State University e il Berklee College Of Music ha sancito un laboratorio di sintesi, dove la tradizione jazzistica ha incontrato la musica colta europea e le avanguardie afro-americane.
L’approccio allo strumento diventa foriero di una mobilità intervallare che non indulge nella spettacolarizzazione, per una gestione del registro acuto che non cerca l’effetto e per una disposizione ritmica che si dirama secondo logiche interne, mai prevedibili. Il fraseggio si articola con precisione, la linea melodica si distende con misura, mentre l’impianto accordale si fonda su una assertività mai esibizionistica. Il sax tenore diventa strumento di elaborazione, capace di generare un linguaggio che si nutre di relazioni formali, di variazioni acustiche e di una sintassi che si dipana nel tempo, senza interruzioni né contrasti. I riferimenti dichiarati – Coltrane, Marsh, Henderson, Young – non vengono evocati per segnalare una genealogia, ma per indicare affinità di metodo e di visione: da Coltrane emerge una verticalità armonica che si traduce in linee estese e in una gestione del respiro che riflette una tensione spirituale; di Marsh si percepisce una lucidità contrappuntistica che si manifesta nella precisione del fraseggio e nella disposizione ritmica; Henderson e Young contribuiscono a definire una sensibilità timbrica che si traduce in una fisionomia sonora riconoscibile, mai ridotta a stilema. La scrittura di Turner si fonda su una ratio compositiva che privilegia la continuità, la stratificazione e la coerenza. Le metriche irregolari, le modulazioni accoradli e le variazioni timbriche non vengono utilizzate come ornamento, ma come supporti implementanti. Il suono viene trattato come materia da scolpire, in cui ogni elemento partecipa ad una sintassi che germina con fluidità, senza accumuli né sovraccarichi. Il costrutto turneriano si rapprende sulla scorta di un lento e masticato processo di costruzione, come un pensiero che prende forma attraverso il suono, alla medesima stregua di una riflessione che si sviluppa nel tempo, dove il sax tenore pensa, struttura e propone. Ogni progetto discografico, qualsiasi intervento solistico, qualunque collaborazione sancisce una visione che si concretizza nella scelta dei materiali, nella cura della produzione e nella qualità dell’ascolto. Interessanti i suoi ricordi giovanili riportati da Josef Woodard su DownBeat: «Durante il college, ho incontrato un pianista, Mike Cain, che studiava con Harvey Diamond ed era completamente immerso nella musica di Tristano. Come molti degli accoliti di Tristano, se vuoi chiamarli così, avevano tutte queste registrazioni pirata. Ho pensato: Oh, lasciami dare un ascolto a questo materiale. Ero attratto solo perché stavo cercando di capire come improvvisare, con persone che sapevano davvero improvvisare. L’improvvisazione è un argomento ampio. La maggior parte dei musicisti jazz suonava reperti tradizionali organizzati, cioè inseriva sui brani citazioni della musica degli anni ’40 e ’50. Gli accoliti di Tristano non suonavano quella roba. sembrava qualcosa di diverso. Ero solo curioso di scoprire di cosa si trattasse. Stavo cercando di capire come drammatizzare, sviluppare eccitazione senza anticipazione, senza urlare e senza massimizzare il volume».
Turner non si discosta per eccentricità né per rottura, ma per una coerenza interna che lo avvicina a figure come Chris Cheek, David Binney, Seamus Blake e, in una prospettiva più strutturale, a compositori-sassofonisti come Steve Lehman e Miguel Zenón. Chris Cheek, pur operando in ambiti più lirici e meno contrappuntistici, condivide con Turner una predilezione per la forma che si protrae nel tempo, per l’attitudine alla melodia che non si affida all’enfasi, e per una partitura che mira alla trasparenza. Le sue collaborazioni con Brad Mehldau e Kurt Rosenwinkel sanciscono un’aura fonica che si avvicina alla fisionomia sonora di Turner, pur mantenendo una diversa inclinazione armonica. David Binney, invece, si sposta in una direzione più espansiva, con una scrittura che tende alla saturazione e all’opulenza. Tuttavia, l’attenzione alla struttura, alla variazione tematica ed alla mobilità ritmica lo rende affine a Turner sul piano della costrutto formale. Entrambi concepiscono la composizione come processo, come emissione di un pensiero che non si esaurisce nella singola frase, ma che si implementa attraverso relazioni interne e tensioni controllate. Seamus Blake, pur dotato di una voce più estroversa ed incline alla cantabilità, ha in comune con Turner una visione armonica che si regge sulla modulazione e sulla gestione del colore sonoro. La sua scrittura, meno analitica ma non per questo meno consapevole, sottolinea una versatilità nell’assemblaggio e negli arrangiamenti che prende corpo nella disposizione delle sezioni, nella scelta dei materiali e nella qualità dell’interazione. Steve Lehman rappresenta un caso particolare. La sua musica, fondata su principi spettrali e su una matematica del suono, si distingue per una complessità che non cerca di stupire, ma di organizzare. Turner, pur non adottando le stesse tecniche, condivide con Lehman una visione compositiva che si attiene alla precisione, alla coerenza ed all’ottenimento di un linguaggio personale. Entrambi operano all’interno di una logica che privilegia la forma, la struttura e la relazione tra gli elementi. Miguel Zenón, dal canto suo, propone una sintesi fra tradizione ed analisi, tra radici culturali e impianto estetico. Il suo modus agenti profondamente legato alla memoria portoricana, emerge secondo una sintassi che tende alla variazione, la stratificazione e la continuità. Turner, pur agendo in un contesto diverso, condivide con Zenón una visione che non si affida alla citazione, ma all’elaborazione ed al raggiungimento di una propria identità, univoca e distinta. Questi artisti, pur diversi per provenienza, inclinazione e vocabolario, partecipano ad una stessa messa a dimora, ossia quella di definire un terreno di coltura ed impiantare un linguaggio che non si appoggi su formule, ma che si evolva attraverso il pensiero, l’ethos e la relazione. Turner, in tale contesto, si distingue per rigore, per misura, per una capacità di articolazione facilmente tracciabile.
Tra i maestri afro-americani e statunitensi che hanno influenzato la sua formazione, emergono con particolare rilievo John Coltrane, Warne Marsh, Joe Henderson e Lester Young. Come già anticipato, ognuno di essi ha contribuito a delineare una componente specifica del linguaggio turneriano, non come somma di stili, ma come sintesi di visioni. John Coltrane rappresenta per Turner una fonte di verticalità armonica, di profondità spirituale e di tensione formale. L’approccio di Coltrane alla melodia, alla gestione del respiro ed alla trasformazione del materiale tematico ha lasciato un’impronta evidente nella sintassi del sassofonista, che ne riprende la ricchezza senza mai replicarne la retorica. L’influenza coltraniana si esprime nella tendenza ad articolare linee estese, nella modulazione continua e nella ricerca di una voce interiore che non si concede all’enfasi. Warne Marsh, figura meno celebrata ma di notevole rilevanza teorica, ha trasmesso a Turner una visione contrappuntistica del fraseggio, una lucidità analitica ed una gestione del tempo che si fonda sulla precisione. L’approccio di Marsh al sistema accordale, alla disposizione intervallare e all’elaborazione tematica ha contribuito a definire una grammatica che Turner ha interiorizzato, trasformandola in una sintassi personale, priva di rigidità e sempre orientata alla variazione. Joe Henderson, con la flessibilità timbrica e l’attitudine muoversi tra idiomi differenti, ha offerto a Turner una prospettiva più mobile, più porosa, più incline alla mutazione. Tale influenza influenza si coglie nella gestione del colore sonoro, nella disposizione ritmica e nel desiderio di strutturare ambienti acustici politematici. Lester Young, infine, ha trasmesso una sensibilità melodica che si sobbalza dalla fluidità del fraseggio, mostrandosi nella leggerezza dell’articolazione e nella capacità attenuata di proporsi per angolazioni sussurrate, simile ad un suggerimento al compagno di banco. Da Lester, Turner riprende la trasparenza, la misura, la capacità di costruire una voce che si rivela progressivamente. Le affinità tra questi maestri e Turner non si esauriscono nella somiglianza stilistica, ma si fondano su una condivisione di principi: la centralità della forma, la qualità del suono e la costruzione del discorso. Le differenze, invece, emergono nella sintesi che Turner opera, nella sua abilità nel trasformare ogni riferimento in elemento utile, in parte di un linguaggio che non cerca di somigliare a nessuno, ma di autodefinirsi.
Esistono figure europee che condividono con Mark Turner una visione compositiva fondata sulla precisione formale, sulla variazione ritmica e su una sintassi melodica che rifugge ogni retorica. Non si tratta di somiglianze superficiali, ma di affinità sostanziali, di convergenze metodologiche, di posture musicali che privilegiano il costrutto melodico-armonico rispetto all’esibizione. Tra i nomi più significativi, compare Stéphane Payen, sassofonista francese che ha distillato un linguaggio imperniato su geometrie ritmiche complesse e su una partitura variabile e verticale. La sua attività con il gruppo Thôt e con il collettivo HASK ha prodotto lavori in cui la forma si organizza secondo una logica interna, dove il sax alto agisce come vettore di pensiero e non come semplice voce solistica. Altro esempio rilevante è quello di Julian Argüelles, musicista britannico che ha elaborato una sintassi che sostiene la continuità e la trasparenza. Il suo modus operandi, pur radicato nella tradizione jazzistica, si apre ad influenze orchestrali e ad una gestione timbrica che si avvicina alla fisionomia sonora di Turner. Le collaborazioni con l’European Jazz Ensemble e con la Frankfurt Radio Big Band sortiscono un’attitudine creativa che si estrinseca nella disposizione delle sezioni, nella qualità dell’interazione e nella definizione dell’ambiente acustico. Nel contesto tedesco, Hayden Chisholm incarna una figura di singolare interesse. La sua ricerca sul microtonalismo, sulla respirazione ciclica e sull’implementazione melodica continua lo colloca in una zona di confine tra jazz, musica contemporanea e tradizione modale. Il suo sax alto articola un discorso che si distente nel tempo e nello spazio, con una sintassi che favorisce la fluidità e la coerenza. Anche il norvegese Tore Brunborg, pur con un temperamento più lirico ed incline alla rarefazione, condivide con Turner una proiezione tesa verso la misura, la fisionomia qualitativa del sound e sulla rappresentazione estetica. Le collaborazioni con Tord Gustavsen e con Manu Katché si schiudono ad una sensibilità timbrica che si traduce in una modalità d’impiego che agogna la la circolarità relazionale.
L’approccio armonico di Mark Turner si distingue per una dimensione rigorosa, una gestione verticale delle progressioni ed una predilezione per la stratificazione timbrica. Il suo sistema operativo si dipana attraverso una logica che privilegia la coerenza interna, la mobilità intervallare e la continuità del discorso musicale. Turner non utilizza l’armonia come sfondo, ma come struttura portante. Le sue composizioni si sorreggono su una disposizione degli accordi finalizzata alla tensione controllata. Le progressioni oscillano secondo una sintassi che alterna abbondanza e rarefazione, con una gestione di cromatismi, quale riflesso della medesima sensibilità acustica. L’uso frequente di voicings aperti, di sovrapposizioni modali e di modulazioni non convenzionali contribuisce a definire un ambiente sonoro che si appoggia alla relazione. Nei lavori privi di strumento armonico – come nel quartetto pianoless di «Live at the Village Vanguard» -Turner costruisce l’impalcatura accordale in virtù di fluido interplay strumentale, affidando al contrabbasso e alla batteria il compito di suggerire direzioni, mentre il sax e la tromba delineano traiettorie che si avvitano, si sovrappongono e si dissolvono. In questo contesto, l’armonia non viene esplicitata, ma implicata, mentre l’involucro esteriore si definisce per accumulo di tensioni, per variazione timbrica e per dissezione ritmica.
Nel 1995, Mark Turner pubblica «Yam Yam», un album che non si caratterizza come esordio, ma come dichiarazione di metodo. La scrittura non cerca di impressionare, non si affida alla retorica del debutto e non costruisce un’identità per contrasto. Turner imposta il lavoro come un laboratorio compositivo, dove ogni passaggio si fa carico della variazione di un principio, della declinazione di una logica e della manifestazione di un elaborato che si evidenza, lavorando sul timbro sulla l’armonia. Il sax tenore non viene utilizzato solo per esporre, ma assume il ruolo di un demiurgo. Il flusso strumentale si staglia su una mobilità intervallare interessata prevalentemente alla definizione. Il fraseggio appare misurato, mentre la linea melodica si distende secondo una sintassi che attiene alla continuità, e l’implantologia accordale si regge su una tensione che si traduce in sedimentazione, in cui l’impianto armonico di «Yam Yam» si caratterizza per una verticalità da perfetto organizer, dove le progressioni si dispongono secondo una geometria interna. Ogni brano individua un ben preciso alveo sonoro, in forma e sostanza. La relazione tra Turner ed i musicisti coinvolti – tra cui Kurt Rosenwinkel alla chitarra, Brad Mehldau al pianoforte, Larry Grenadier al contrabbasso e Jorge Rossy alla batteria – non poggia sulla gerarchia, ma sulla distribuzione: Rosenwinkel non interviene per riempire, ma per articolare; Mehldau non impone la propria sintassi, ma la integra; Grenadier non sostiene, ma disegna; Rossy non marca, ma suggerisce. Il quintetto agisce come sistema, non come somma. La costruzione formale richiama la pittura astratta americana degli anni Sessanta, in particolare le geometrie modulari di Frank Stella e le campiture di Ellsworth Kelly, tanto che la scrittura musicale si sviluppa come una superficie visiva, dove ogni elemento partecipa alla definizione dell’insieme. La logica compositiva si avvicina alla narrazione grafica di Chris Ware, dove la sequenza non è cronologica, ma architettonica. La copertina dell’album, essenziale e priva di decorazioni, riflette questa impostazione. Il titolo stesso – «Yam Yam» – non suggerisce un contenuto, ma un ritmo, una sonorità onomatopeica ed una disposizione. Con il progetto «Fly», insieme a Larry Grenadier e Jeff Ballard, nel 2004, Mark Turner vara un trio che si presenta come sistema aperto. «Fly» primo album del line-up, non prova a compensare l’assenza di uno strumento armonico, ma la trasforma in principio compositivo, in cui la scrittura non si attarda sulla funzione, ma sulla relazione, dove il sax tenore non impone una direzione, ma articola un percorso; il contrabbasso non sostiene, ma definisce; la batteria non marca, ma orienta, tanto che il triunvirato si comporta come un monolite compatto e non come la somma algebrica di tre individualità distinte e separate. Turner costruisce le progressioni armoniche attraverso la disposizione delle linee. Il contrabbasso di Grenadier interviene per delineare traiettorie e per spacchettare lo spazio. La batteria di Ballard frammenta il groove, mettendolo al servizio dei sodali. La relazione fra i tre musicisti concretizza sulla condivisione del processo, in cui Turner non guida, ma propone. La partitura richiama la logica modulare della street art astratta, in particolare quella di artisti come Futura 2000, Eltono e Stak. Le composizioni si sviluppano come sequenze visive, dove il gesto appare calibrato, il ritmo rimane interno e la superficie è sempre attiva. Anche in questo caso, l’art cover, minimalista e privo di orpelli si conforma al concept sonoro.
Nel 2014, arriva «Lathe Of Heaven» del 2014, un concept che si presenta come come espansione. Il titolo, tratto dal romanzo di Ursula K. Le Guin, suggerisce un contenuto narrativo ed una disposizione mentale, in cui la musica accompagna e costruisce un ambiente percettivo in cui la forma si definisce attraverso la relazione tra le voci, la qualità del suono, la tensione interna. Il quartetto – con Avishai Cohen alla tromba, Joe Martin al contrabbasso e Marcus Gilmore alla batteria – agisce come sistema coabitativo. Ogni musicista partecipa alla definizione formale e sostanziale. La scrittura si fonda sia sulla centralità del sax che sulla distribuzione del pensiero musicale. L’impianto armonico dell’album si distingue per una costruzione che cerca la coerenza. Le progressioni si dispongono come sequenze che generano tensione, che modulano lo spazio, che definiscono la direzione. Turner non imposta l’armonia come vincolo, ma come linguaggio. Le strutture si sviluppano per stratificazione, per sovrapposizione e per trasformazione. Il sax tenore organizza, la tromba interagisce, il contrabbasso orienta e la batteria frammenta. Il risultato è una sintassi musicale che si fonda sulla qualità della relazione, sulla precisione del gesto, sulla densità del pensiero. La costruzione formale di «Lathe Of Heaven» richiama l’architettura dinamica di Julie Mehretu, dove le linee attraversano e le stratificazioni ma generano spazio. La musica di Turner si muove secondo una logica simile, dove la forma si sviluppa e la struttura si articola. Il cinema americano contemporaneo offre un parallelo con le narrazioni di Christopher Nolan e Denis Villeneuve, dove la gestione del tempo, la costruzione per piani, la tensione tra visibile e invisibile, partecipano alla stessa logica, mentre la musica pensa ed il suono struttura. Ogni brano oltrepassa l’episodicità delineandosi come un ambiente ben preciso La relazione tra Turner e Avishai Cohen rappresenta uno degli snodi più significativi dell’album. La tromba viene utilizzata come linea parallela, come controparte, come vettore di articolazione. Il dialogo tra sax e tromba non si fonda sulla risposta, ma sulla coabitazione. Le due voci si muovono secondo logiche indipendenti, ma convergenti. La conferma nelle parole del sassofonista rilasciate a DownBeat: «Con Miles, il sassofono era quasi mai in cima. Era sempre la tromba. Cambio ruolo tutto il tempo. Per diverse parti della canzone, la tromba è il re delle bestie. Devi lasciarla regnare. Non so cosa sia il tenore, in termini animali. Una delle ragioni per cui ho iniziato a farlo è che ho suonato con Tom Harrell per tre o quattro anni, e il sassofono era quasi sempre in cima (…) Di solito, lui suona la tromba super-bassa. Ho pensato: OK, devo provare a farlo anch’io. Inoltre, c’era la band di Ornette Coleman, che aveva la tromba, ma Ornette era spesso in cima. OK, il mio strumento è il tenore, ma solo con la sensazione del sassofono in cima e la tromba in basso o quasi in basso, c’è qualcosa di potente in questo». Il contrabbasso di Joe Martin interviene per definire la profondità, per sottolineare la tensione, per suggerire la direzione. La batteria di Marcus Gilmore frammenta il ritmo, lo dilata e lo trasforma, mentre il quartetto agisce come un unico organismo. «Lathe Of Heaven» si apre come un territorio di elaborazione, dove ogni frammento si dipana come la variazione di un principio, quale la declinazione di una logica, alla stregua di una manifestazione di un pensiero musicale che si fonda sulla relazione, sull’ethos, sull’aura fonica, mentre la scrittura si affida alla precisione. «Sky & Country» del 2009, secondo album del Fly Trio, insieme a Larry Grenadier e Jeff Ballard. si presenta come espansione di un linguaggio già delineato nel lavoro precedente. La scrittura tenta l’approfondimento, evitando di ripropone una formula, piuttosto esplora nuove disposizioni, nuove territori, inedite soluzioni. L’impianto armonico di «Sky & Country» si distingue per una rarefazione che non coincide con la sottrazione, dove le strutture si presentano come spazi da sondare. Turner non imposta le progressioni secondo una logica funzionale, ma le costruisce come sequenze che si trasformano nel tempo. La linea melodica si muove con misura, la sintassi si sviluppa con fluidità, la tensione si srotola attraverso la variazione. Il contrabbasso di Grenadier interviene per definire la profondità, la batteria di Ballard frammenta il tempo, mentre l’apporto relazionale a tre risulta sinergico ed affinato. Ogni tassello sonoro si presenta come una topografia, dove le linee s’intersecano secondo una geometria interna e dove le stratificazioni generano spazio. Il titolo stesso – «Sky & Country» – non suggerisce un contenuto, ma una tensione tra apertura e definizione, tra orizzonte e dettaglio, tra espansione e variabilità. La scrittura musicale si avvicina alla fotografia urbana di Gregory Crewdson, dove l’ambiente si costruisce attraverso la luce, la disposizione e l’attesa. Il cinema di Kelly Reichardt offre un altro parallelo: la narrazione non si fonda sull’evento, ma sulla durata, sulla qualità del tempo, sulla relazione tra spiriti affini, tanto che la relazione tra i tre compagni di viaggio si manifesta nella qualità dell’interazione, nella precisione del gesto, nella coerenza della costruzione.
«Return From The Stars» del 2022 è un album che si attesta come evoluzione di una prospettiva musicale che ha attraversato decenni di ricerca, di ascolto e di elaborazione. Il titolo, tratto dal romanzo di Stanisław Lem, non suggerisce una trama, ma una posturain cui la musica diviene un soggetto pensante. Il quartetto – con Jason Palmer alla tromba, Joe Martin al contrabbasso e Jonathan Pinson alla batteria – non agisce come supporto, ma come sistema operativo sinergico e legato al nucleo gravitazionale dell’idea, dove ogni attante partecipa alla definizione dell’ambiente sonoro, non alla decorazione, in cui l’esecutività non si fonda sulla centralità del sax, ma sulla distribuzione del pensiero tout court; l’impianto armonico procede verso la tensione; le progressioni accordali si scompattano come sequenze che generano spazio e che definiscono una sorta di carotaggio emotivo, soprattutto Turner non imposta l’armonia come vincolo, ma come linguaggio. «Return From The Stars» richiama l’architettura narrativa del romanzo da cui prende il titolo: la tensione tra memoria e futuro, tra esperienza e possibilità, tra struttura e apertura. La musica di Turner si muove secondo una logica simile in cui la forma si sviluppa e la struttura si articola. La relazione tra Turner e Jason Palmer rappresenta uno degli snodi più significativi dell’album. La tromba viene utilizzata come linea parallela, come controparte, come vettore di articolazione. Il dialogo tra sax e tromba si manifesta attraverso la coabitazione. L’album nel suo complesso non coglie mai un punto di arrivo definitivo, mentre ogni vettore si dirama come la variazione di un principio, quale declinazione di una ratio e sulla scorta di un pensiero che attiene alla reciprocità, all’estetica e alla fisiologia sonora. Le parole di Turner riportate da Josef Woodard su DownBeat risultano alquanto esaustive in proposito: «Alcune situazioni sono ovviamente intuitive. Siamo nel 2022, quindi le cose si collegano da sole. Ma alcune sono deliberate. La combinazione sassofono tenore/tromba è semplicemente molto potente da ascoltare nel jazz. Anche se le informazioni sullo strumento cordale sono diverse ed il linguaggio assai differente, non puoi fare a meno di sentire il riferimento a Miles e Wayne, per esempio (…) Ma è stato riconfigurato perché la maggior parte delle volte, suonavano ottave o all’unisono, o a volte in quarte e quinte. Questa è una cosa totalmente diversa. Non appena siamo su un disco in quarte o quinte e soprattutto all’unisono, non puoi fare a meno di pensare a Miles Davis! Non c’è niente di male in questo: mi piace molto».
«We Raise Them To Lift Their Heads», pubblicato da Loveland Music, il 28 febbraio 2025, è primo album solista di Mark Turner per sax tenore, registrato a Copenhagen e prodotto da Jakob Bro. Segnando una svolta nella produzione del sassofonista: non per rottura, ma per intensificazione. La scrittura si fa più rarefatta, più porosa, più incline alla sospensione. Il sax tenore dispone, mentre il flusso sonoro mira a costruire uno spazio percettivo di tipo olistico e totalizzante. La struttura armonica dell’album si regge su una metodologia che avvantaggia la continuità, la modularità e la tensione interna. Le progressioni si articolano come sequenze che fluttuano, che definiscono la scansione e che suggeriscono la sagomatura esterna. Turner imposta l’armonia come linguaggio pervasivo e moneta di scambio. Ogni passaggio motivico si anima come un organismo vivente. La costruzione non cerca il climax, ma la coerenza. La relazione tra Turner e Jakob Bro, produttore del disco, si sostanzia sulla condivisione. Bro non interviene per correggere, ma per amplificare e per espandere. Il suono del sax viene trattato come materia viva, come voce pensante e come vettore di articolazione. La registrazione, avvenuta a Copenhagen, restituisce una qualità fonica che tende all’immersione. Le suggestioni extramusicali che attraversano «We Raise Them To Lift Their Heads» si manifestano come affinità. La pittura di Tal R, autore del disegno di copertina, propone una superficie visiva intenta a costruire: le forme si espandono ed i colori intensificano. Il portato sonoro di Turner si muove secondo una logica simile: la forma si sviluppa, mentre la struttura si modula. Al netto di ogni relazione, «We Raise Them To Lift Their Heads» sancisce un territorio di elaborazione ed una una declinazione logica, dove il jazz nelle sue forme molteplici si comporta alla stregua di un fermento vivo, pronto ad autorigenerarsi.
