«Hinterland» del Claudio Fasoli Jazz Group: le architetture della libertà ed il suono come spazio critico

La scelta di articolare le composizioni secondo logiche non convenzionali – mediante modulazioni inattese, sovrapposizioni timbriche e contrappunti mobili – non è solo espressione di perizia tecnica, bensì testimonianza di una volontà di superamento, di una tensione verso l’ignoto. In questo senso, «Hinterland» non è semplicemente un album, ma un laboratorio sonoro, un luogo di sperimentazione dove la forma si costruisce nel tempo, nel gesto, e nel dialogo.
// di Francesco cataldo Verrina //
La fine degli anni Settanta, in Italia ed in Europa, è segnata da un clima antagonista, da una polarizzazione ideologica che investe anche le pratiche artistiche. La musica, in questo scenario, non si limita a riflettere il tempo, bensì lo interroga, lo sfida, lo decostruisce. Il jazz, in particolare, si sottrae alla funzione decorativa e si fa linguaggio di resistenza, di indagine e di dissenso. I musicisti coinvolti nel progetto di Fasoli non si rifugiano in una neutralità estetica, ma si collocano nel cuore di una ricerca che implica rischio, esposizione ed apertura, al punto che la rilettura critica dell’album «Hinterland» del Claudio Fasoli Jazz Group, inciso nel 1979 per l’etichetta Edipan, richiede un approccio che trascenda le consuete formule celebrative per restituire, con rigore analitico e sensibilità musicologica, la complessità strutturale e la fisionomia espressiva di un’opera che si colloca nel cuore pulsante della ricerca jazzistica italiana di fine decennio.
Nel tracciato sonoro di «Hinterland» si coglie una tensione costitutiva, una spinta centrifuga che colloca i musicisti in una zona liminale, dove la fusion jazz non si cristallizza in formula, bensì si apre a una dialettica con le avanguardie europee, con le scritture non idiomatiche, con le forme aperte e le strutture mobili. La libertà espressiva che permea l’intero album non si manifesta come semplice emancipazione stilistica, ma come gesto critico, come presa di posizione rispetto a un contesto storico e culturale attraversato da fratture, da conflitti e da urgenze. L’incisione, realizzata presso gli Studi Emmequattro di Roma, si colloca nel solco della maturazione artistica di Claudio Fasoli. Il sassofonista veneziano, che vantava già un solido credito critico con lavori come «Eskimo Fakiro» (1977) e dopo l’esperienza con il Perigeo, (ensemble che aveva già esplorato le possibilità di contaminazione tra jazz e rock), lascia spazio ad una scrittura più intimamente articolata e sorretta da una visione compositiva di ampio respiro.
L’organico convocato per «Hinterland» si distingue per la varietà delle provenienze e per la convergenza di intenti. Fasoli, al sax tenore e soprano, non si limita a delineare le strutture tematiche, bensì le plasma con una voce strumentale che si rivela interiormente stratificata e versata nel coniugare rigore formale e libertà espressiva. Schiaffini, al trombone, porta con sé l’eredità del free jazz europeo, ma la rielabora secondo una ratio di fusione timbrica e di tensione dialogica, evitando ogni compiacimento virtuosistico. Pieranunzi, al pianoforte, s’interseziona con un profilo acustico che oltrepassa la funzione armonica, espandendosi in una scrittura contrappuntistica tesa interagire con le linee del sax, generando una trama sonora di notevole finezza. La doppia presenza al contrabbasso – Bruno Tommaso e Riccardo Del Fra – consente una modulazione continua del registro grave, dove la profondità non è mai declamata, ma suggerita, mentre Roberto Gatto alla batteria garantisce un impianto ritmico che si rivela tanto reattivo quanto inventivo, ma soprattutto in grado di sostenere e rilanciare le dinamiche interne dell’ensemble.
La scelta di articolare le composizioni secondo logiche non convenzionali – mediante modulazioni inattese, sovrapposizioni timbriche e contrappunti mobili – non è solo espressione di perizia tecnica, bensì testimonianza di una volontà di superamento, di una tensione verso l’ignoto. In questo senso, «Hinterland» non è semplicemente un album, ma un laboratorio sonoro, un luogo di sperimentazione dove la forma si costruisce nel tempo, nel gesto, e nel dialogo. Il microsolco si apre con «The Missing Tom» ammantato da una velatura acustica che induce ad una sospensione tonale non tanto come artificio, bensì come condizione espressiva. L’incipit, privo di una centratura tonale definita, si muove nel fluire di cromatismi che sembrano appellarsi ad una logica armonica più affine alla tonalità allargata di Alban Berg che al jazz modale. Il pianoforte di Pieranunzi, pur nella sua operatività surrettizia, distilla contestualmente un impianto accordale che si sposta per sovrapposizioni e slittamenti, concimando un humus sonoro che rimanda alla frammentazione narrativa di Michail Bulgakov, dove il reale e l’onirico si annodano in una dimensione instabile. Fasoli, al sax tenore, plasma un fraseggio che si insinua tra le pieghe dell’armonia, generando tensioni che agevolano il fattore moltiplicativo. La retroguardia ritmica, con Tommaso e Gatto, agisce per sottrazione e rilancio, modulando il tempo interno secondo una ratio cinematica, quasi fosse una sequenza montata da Tarkovskij, dove ogni gesto sonoro si carica di attesa e di significato. «December, 22nd» si colloca in una dimensione più rarefatta, dove il costrutto armonico si delinea mediante accordi sospesi e intervalli aperti, evocando una scrittura che potrebbe ricordare le atmosfere di Morton Feldman. L’interscambio tra sax soprano e trombone si infittisce sulla logica di una prossimità timbrica, dove la distanza fisica viene sopraffatta da quella emotiva. Pieranunzi interviene con discrezione, ma la sua scelta accordale – spesso basata su quarte sovrapposte e cluster dilatati – contribuisce a definire un ambiente sonoro che si colloca nel riflesso di una malinconia non dichiarata. L’intreccio tematico sembra evocare l’attesa silenziosa e la sospensione temporale de «Il deserto dei Tartari», nel romanzo di Dino Buzzati, ma con una qualità cinematografica che potrebbe rimandare a «Stalker» di Andrej Tarkovskij, dove il paesaggio sonoro appare abitato da silenzi, risonanze e presenze invisibili.
«Yonge» introduce un cambio di assetto narrativo, con una pulsazione ritmica più esplicita e una progressione armonica che si sposta nel tracciato di una partitura più tonale, ma non per questo meno variegata. Le progressioni, spesso sorrette da dominanti secondarie e modulazioni repentine, dispensano una tensione che si traduce in energia performativa. Fasoli e Pieranunzi si confrontano in un gioco di rimandi e sovrapposizioni, dove il virtuosismo non è fine a sé stesso, ma piuttosto diventa strumento di cesellatura estetica. La sezione ritmica opera come motore narrativo, innescando un senso di urgenza che potrebbe evocare le atmosfere urbane e frenetiche di «Manhattan Transfer» di John Dos Passos, ma anche la frammentazione visiva di «Koyaanisqatsi», film sperimentale di Godfrey Reggio, dove il ritmo diventa struttura e significato, sotteso da una colonna sonora minimalista di Philip Glass. «Hinterland», composizione eponima, si presenta come una vera e propria costruzione modulare, dove le sezioni si susseguono secondo una logica di accumulo e trasformazione. L’apparato armonico si fa più audace, con l’impiego di accordi politonali e dissonanze che non cercano risoluzione, bensì espansione. La presenza simultanea di Tommaso e Del Fra al contrabbasso genera una stratificazione del registro grave che si traduce in una polifonia timbrica di grande impatto. Le improvvisazioni si sviluppano secondo una logica di crescendo interno, dove ogni intervento non è solo espressione individuale, bensì parte di un disegno armonico collettivo. Il flusso narrativo potrebbe evocare le vastità descritte da in «Suttree» da Cormac McCarthy, ma anche le architetture sonore di György Ligeti, dove il paesaggio viene costruito progressivamente nel tempo. «The Cat», a firma Pieranunzi, suggella l’album con una pagina musicale di estrema eleganza formale. L’apparente semplicità dell’impianto armonico – basato su progressioni diatoniche e modulazioni attenuate – nasconde una raffinatezza che si rivela nel dettaglio: l’uso di accordi con estensioni non convenzionali, la gestione del pedale armonico, la scelta di intervalli che suggeriscono una cantabilità sospesa. L’incastro dialogico con Fasoli al sax soprano si estrinseca secondo una prassi di equilibrio e misura, dove ogni frase appare calibrata e qualunque pausa diventa significativa. La sezione ritmica, swingante ma mai invadente, completa il quadro con una leggerezza che potrebbe riportare alla mente le atmosfere rarefatte di Calvino, ma anche la grazia visiva di «In the Mood For Love», dove il tempo si dilata e la bellezza si rivela nel dettaglio.
La presenza di figure come Schiaffini, Tommaso, Pieranunzi e Gatto – ciascuno portatore di una propria visione, di una propria grammatica – contribuisce a generare un ambiente sonoro che non cerca sintesi, bensì convivenza, coabitazione e pluralità. La libertà espressiva, non è concessione, ma conquista: si afferma nel confronto, nella divergenza, nella capacità di ascoltare l’altro senza rinunciare alla propria voce. In un’epoca segnata da tensioni politiche, da movimenti di contestazione, da una ridefinizione radicale dei rapporti tra arte e società, «Hinterland» si conferma quale atto musicale che interroga il suono e la società circostante. Un disco che respira nel tessuto di un tempo inquieto, e che ancora oggi conserva intatta la sua forza evocativa, la sua capacità di porre domande, di aprire spazi e di generare pensiero. La digitalizzazione del materiale analogico, curata dai tecnici del Saint Louis College of Music, restituisce con precisione la velatura acustica originaria, preservando la fisionomia del suono e rendendo nuovamente fruibile un episodio sonoro che merita una collocazione stabile nel repertorio storico del jazz italiano.
