Intervista a Francesca Galante, Direttore Artistico di «Jazz In Maggiore 2025»

// di Francesco Cataldo Verrina //
D Jazz in Maggiore giunge quest’anno alla sua diciassettesima edizione. Quali sono le direttrici artistiche che ne hanno guidato l’evoluzione nel tempo e quali le sfide affrontate per garantirne continuità e qualità?
R «Fin dall’inizio abbiamo cercato di coniugare qualità artistica e apertura, con l’idea che il festival fosse un luogo d’incontro tra progetti originali, linguaggi differenti e pubblici diversi. Quando abbiamo iniziato, sul territorio non esisteva una rassegna jazz, ma non volevamo creare un appuntamento di nicchia: l’intento era proporre progetti di alto livello che al tempo stesso potessero avvicinare un pubblico più ampio. Volevamo far conoscere le caratteristiche più coinvolgenti del jazz, come il dialogo tra i vari musicisti di un gruppo, la capacità di attingere a linguaggi e culture musicali diverse e soprattutto l’improvvisazione, fulcro di questo genere, non intesa solo nei suoi aspetti più intellettuali, comprensibili a pochi intenditori, ma come un momento di energia, creatività e comunicazione che può coinvolgere chiunque ascolti. Una delle sfide maggiori è stata garantire continuità pur in un contesto economico e organizzativo non sempre semplice, soprattutto nei primi anni: mantenere l’ingresso gratuito, cercare sostegni e costruire collaborazioni con istituzioni e realtà locali è stato fondamentale. Un’altra sfida è stata crescere senza perdere lo spirito originario, quello di un festival nato dalla passione, che negli anni si è strutturato e ha acquisito prestigio, ma che vuole restare vicino al pubblico e al territorio.»
D L’edizione 2025 si è aperta con il Trio Luz, un progetto che incrocia latitudini musicali assai distanti. Come nasce la scelta di inaugurare la rassegna con un ensemble così «nomade» nei suoni e negli immaginari?
R «Abbiamo avuto modo di apprezzare ciascuno dei tre musicisti in concerti di precedenti edizioni, dove erano impegnati in progetti differenti. Quando li abbiamo ritrovati riuniti in questo progetto comune lo abbiamo trovato estremamente interessante e originale. L’idea di tre continenti che si incontrano – europeo, sudamericano e asiatico – è affascinante e si riflette con grande forza nella musica. Ognuno dei tre porta uno stile compositivo profondamente legato alle proprie radici, ma nell’incontro con gli altri questo linguaggio si arricchisce di caratteristiche nuove, grazie all’incredibile capacità d’improvvisazione e di interazione del trio. Il risultato è una musica che affascina per la sua ricchezza e profondità.»
D L’hot jazz degli Hot Gravel Eskimos rappresenta una parentesi marcatamente retro, quasi filologica. Che ruolo gioca, secondo lei, il recupero della «Swing era» in un festival contemporaneo?
R «Il recupero della Swing Era rappresenta un omaggio alle radici del jazz, a quella stagione in cui la musica ha saputo essere al tempo stesso innovativa e popolare, e non dimentichiamo che ogni ricerca contemporanea nasce dal dialogo con la tradizione Il jazz di quell’epoca è una musica dotata di grande vitalità e freschezza, nonostante il tempo trascorso, e gli Hot Gravel Eskimos sono in grado di proporlo in maniera impeccabile ma anche estremamente divertente.
Inoltre, negli ultimi anni abbiamo assistito a una nuova popolarità del ballo swing, con stili come il Lindy Hop ai quali sono dedicati corsi ed eventi sempre più diffusi: un segnale ulteriore di quanto questa musica abbia una grande presa sulle persone.»
D Dal secondo al terzo concerto si passa da una ricostruzione del passato a una sintesi identitaria tra Italia, Brasile e Argentina. Che tipo di messaggio culturale vuole veicolare Jazz in Maggiore attraverso la serata con Tres Mundos?
R «Anche in questo caso abbiamo voluto proporre un trio caratterizzato dalla forte personalità dei singoli interpreti, ciascuno dei quali si pone come leader al pari degli altri. Le loro idee, i ritmi e le sonorità provenienti dai rispettivi luoghi d’origine si mescolano in un dialogo suggestivo, in cui le vibrazioni della musica popolare vengono restituite con l’eleganza e la raffinatezza del linguaggio jazzistico. Se vogliamo parlare di messaggio culturale possiamo dire ancora una volta che la musica di alto livello quale è quello dei componenti di Tres Mundos non ha confini.
D Il concerto conclusivo con l’Egon Jazz Ensemble di Riccardo Bianco si colloca entro un progetto più ampio, Nuovi Orizzonti Sonori. In che modo questa chiusura riflette l’anima più sperimentale del festival?
R «Permettetemi una precisazione: non definirei «sperimentale» il progetto Nuovi Orizzonti Sonori. Piuttosto è un percorso in cui si confrontano diversi generi e linguaggi musicali. L’Egon Jazz Ensemble di Riccardo Bianco ha chiuso il festival in bellezza, con brani originali sofisticati eppure fruibili da tutti per la loro forza evocativa, e una rilettura interessante di alcuni brani di grandi jazzisti italiani. Molto interessante anche l’organico, con la presenza anche di strumenti più tipicamente da musica classica.
D La scelta dei luoghi – dalle piazze ai parchi, dalle case della cultura ai teatri – sembra riflettere una visione «diffusa» del festival, radicata nel territorio. Quanto conta per voi il dialogo con lo spazio e con le comunità locali?
R «Per noi la scelta dei luoghi è fondamentale, perché definisce l’anima del festival che è sempre stato «itinerante» e ha sempre cercato di rispondere alle esigenze delle comunità locali, creando occasioni di incontro e di condivisione che vanno oltre l’esperienza musicale. Trattandosi di appuntamenti estivi, cerchiamo dove possibile di privilegiare gli spazi aperti, senza però compromettere la qualità del suono, che per alcune formazioni è una questione particolarmente delicata. Negli anni ci è capitato di sperimentare luoghi diversi – piccole piazze o corti – che si sono rivelati ideali per i concerti, permettendo di coniugare la valorizzazione del territorio, anche in relazione ai molti turisti che partecipano, con una fruizione ottimale della musica.»
D In un’epoca in cui il jazz vive una pluralità di declinazioni e contaminazioni, come si costruisce oggi una programmazione che sia insieme accessibile e rigorosa, popolare e non banalmente «pop»?
R «È un obiettivo che ci poniamo ad ogni nuova edizione: da un lato vogliamo che il festival resti accessibile, capace di parlare a un pubblico ampio e non solo agli appassionati più esperti; dall’altro non intendiamo rinunciare alla qualità e alla coerenza artistica. L’eterogeneità del cartellone – che oggi caratterizza anche festival jazz un tempo più settoriali – per noi non è un espediente per attirare pubblico, ma un modo per accompagnarlo in un percorso. Intendo dire che se, da ascoltatore, ho assistito a un concerto che mi ha coinvolto e divertito, sarò portato ad avere la curiosità di ascoltare anche qualcosa di apparentemente più distante dai miei ascolti abituali.
D Molti dei protagonisti di questa edizione vantano collaborazioni illustri e carriere internazionali. Quanto pesa, nella vostra selezione, il curriculum artistico rispetto alla coerenza del progetto?
R «Il curriculum artistico dei musicisti è certamente un valore aggiunto, perché porta con sé esperienze, prestigio e una qualità riconosciuta a livello internazionale. Agli esordi del festival abbiamo invitato artisti che erano, per così dire, i nostri «idoli», perché grande era il desiderio di proporli sul territorio; via via che siamo diventati più strutturati ed esperti, abbiamo iniziato a inserire in cartellone personalità davvero prestigiose. Tuttavia, nella nostra selezione questo non è mai l’unico criterio né il più importante: ciò che pesa davvero è la forza del progetto che ci viene proposto e la capacità di un artista di instaurare una connessione con il pubblico. Anche artisti meno noti ma con un’idea forte e originale trovano spazio nel festival. Teniamo molto, ad esempio, a proporre anche artisti del territorio, e ce ne sono molti e con progetti molto interessanti, e anche questo contribuisce a dare identità a Jazz in Maggiore.»
D Il festival è a ingresso gratuito. Una scelta coraggiosa e controcorrente. Come si riesce a sostenere economicamente un’offerta culturale di tale livello senza rinunciare all’accessibilità?
R «La gratuità è un valore aggiunto al quale speriamo di non dover mai rinunciare nonostante il livello delle proposte. Naturalmente è una scelta impegnativa, che richiede ogni anno un grande lavoro di ricerca di contributi da parte di enti pubblici, delle istituzioni culturali e di sponsor privati che condividono i nostri valori. Talvolta si è costretti a ridurre il numero di appuntamenti in programma, ma sono convinta che il pubblico cerchi più la qualità che la quantità. Inoltre, la gratuità accresce l’attrattività turistica e stimola la partecipazione del pubblico locale, creando un circolo virtuoso che arricchisce sia la vita culturale sia l’economia del luogo.»
D Infine, guardando al futuro: qual è il sogno che ancora non si è realizzato in questi diciassette anni di Jazz in Maggiore? E dove vorrebbe portare la rassegna nei prossimi?
R «Banalmente ci sono artisti che desideriamo invitare da anni, ma che non abbiamo potuto avere con noi per diversi motivi, non ultimo quello economico. Inoltre, abbiamo organizzato per due edizioni un workshop con musicisti italiani che sono vere eccellenze del loro strumento e con un’esperienza pluriennale nell’insegnamento: era stata un’esperienza entusiasmante, molto partecipata dai giovani musicisti del territorio e non solo, a cui però non siamo riusciti a dare seguito. È un sogno che mi piacerebbe poter riprendere in futuro, perché credo molto nel valore della trasmissione diretta tra artisti e nuove generazioni.»
