Alessandro Melchiorre: ho sempre voluto fare musica, cosa che a casa non veniva capita

Alessandro Melchiorre
// di Guido Michelone //
“Uno che pensa che la musica sia ‘qualcosa che solo con i suoni si può dire’. La frase è presa da Schönberg (in una famosa presentazione delle Bagatelle per Quartetto d’archi op.9 di Anton Webern) e peraltro è diventata il sottotitolo di un mio libro del 2023, Testo e Suono”: a presentarsi Alessandro Melchiorre, nato a Imperia il 30 novembre 1951, tra i massimo compositori di classica contemporanea, del quale si paròla in questo libro attraverso una chiaccherata inedita risalente a fine marzo 2025.
D Il tuo primo ricordo della musica da bambino?
R Il rapimento quando ascoltavo Chopin suonato da Rubinstein da un 78 giri a casa di mio zio, l’estate (il resto della mia famiglia era totalmente a-musico).
D Ci racconti in dieci righe la tua vita da allora a oggi, magari evitando le tipiche situazioni da curriculum professionale?
R Ho sempre voluto fare musica, cosa che a casa non veniva capita (ragionamento classico: “va bene ti piace la musica, ma come lavoro cosa pensi di fare?”); per questo motivo i primi passi sono quelli classici di chi viene dalla strada… la chitarra e non il pianoforte, il rock (e il jazz) e non la musica da camera, poi lo studio della teoria musicale, della tradizione (naturalmente con la tranquillizzante per mio padre laurea in Architettura al Politecnico di Milano -sono abilitato alla professione esercitata molto poco- il parallelo titolo con Rognoni e Dalmonte al DAMS di Bologna, il Conservatorio di Milano (abbandonato per diplomarmi in Germania a Freiburg con Ferneyhough), L’IRCAM a Parigi e infine sempre più presente la scrittura: ho cominciato tardi a scrivere ma ho suonato tanto la chitarra elettrica dai 18 ai 25 anni (primo pezzo scritto a 30 anni); naturalmente al percorso creativo si affianca quello istituzionale… ho inventato la Sezione Musica Contemporanea alla Civica e poi, dopo molti anni da docente, sono stato Direttore del Conservatorio, sempre a Milano.
D Sei nato a Imperia come Luciano Berio: quale eredità geoculturale può aver lasciato in te?
R Nessuna, ma ricordo un viaggio da solo con Berio da Milano a Genova -su di un’auto inviata dal Carlo Felice che allora operava al Teatro Margherita, era il 1979- in cui gli feci una lunga intervista sia sulla sua musica che sul ruolo del compositore (eran quei tempi…!). Berio presentava al Teatro Margherita, agli studenti delle scuole superiori di Genova, uno spettacolo audiovisivo di taglio divulgativo sulla storia della musica elettronica “La voix des voies” realizzato nel 1977 all’Ircam -per l’inaugurazione se non ricordo male- e già allora individuava “tre cerchi –circles– musicali attorno all’uomo: la voce, la fonte più intima del suono, dall’interno del corpo; gli strumenti musicali, macchine esteriori, ma con un controllo corporeo diretto del suono; e il suono elettroacustico o informatico, che implica complesse mediazioni tecniche e logiche tra il corpo e il suono.” (Risset)
D Possibile dire che esistono tre Melchiorre, l’architetto, il musicista, lo studioso?
R L’architetto è un ricordo sempre più sbiadito, mentre studioso e compositore come attività che si nutrono a vicenda questo senz’altro… in Italia a volte che un compositore faccia ricerca teorica o il contrario che un ricercatore sia compositore viene visto con sospetto…; lo ritengo un limite della cultura italiana ancora convinta -sotto sotto- che il musicista debba essere -non soprattutto ma soltanto-artigiano.
D I tuoi studi di architettura ti avvicinano alle esperienze di Yannis Xenakis, altro (e forse unico con te) musicista laureato in architettura?
R Iannis che ho conosciuto e frequentato -e invitato tra i primi alla Civica di Milano – alla fine era molto materico, molto più scultore che disegnatore (o pittore), io forse procedo al contrario… e poi lui era prima ingegnere che architetto!
D Sul sito di Casa Ricordi si legge che il tuo ‘scopo dichiarato è quello di unire nella scrittura musicale la penna e il computer, intesi dal musicista come due paradigmi, due modi di pensare la musica, diversi ma che è necessario, seppure difficile, integrare’. Condividi ancora questa definizione in epoca di IA (Intelligenza Artificiale)?
R Sì, anche se andrebbe aggiornata; in tempi di AI paradossalmente si scopre ma -direbbe Gregory Bateson- “ogni scolaretto lo sa” che nella penna ci sono cose che l’algoritmo non è ancora in grado di tracciare men che meno di re-inventare, anzitutto il rapporto con il corpo che esiste sia per chi suona che per chi scrive… non dimentichiamo che i neumi nascono dal movimento della mano del maestro del coro, dalla chironomia; quel rapporto si è interrotto ancor prima del digitale, pensiamo alla macchina da scrivere, alla tastiera…Mi viene in mente un bellissimo verso di Petrarca dal Canzoniere: “solco onde, e n’ rena fondo, et scrivo in vento”, ecco bisognerebbe “scriver nel vento”;Scrivo in vento è diventato poi il titolo di un duo se non ricordo male di Elliott Carter. La notazione musicale, la scrittura della musica è al contempo trascrizione e invenzione, si situa a metà strada tra un copione e un diagramma; quando si rivolge all’esecutore tiene conto del corpo, dei suoi movimenti (la diteggiatura, la respirazione, i segni chironomici, ecc.) ma soprattutto, quando si rivolge all’ascoltatore (ma si dovrebbe dire agli ascoltatori, non dimenticando che la funzione di ascolto – principale nella musica da un certo momento in poi – si attua a ogni livello della catena che produce la musica: ascolta il compositore, ascolta l’interprete, ascolta l’ascoltatore, ecc.), tiene conto del risultato sonoro da ottenere. La scrittura della musica, il dominio dell’occhio sull’orecchio, attraversa varie fasi, deriva (in Occidente) dal gesto del maestro del coro (il movimento della mano, la chironomia), poi dalla lingua, dalla verbalità, per tramite dell’oralità… quella che poi si chiamerà “la musica del testo, la musica della poesia”, lotta per alcuni secoli per la sua autonomia, per essere musica senza testo, per diventare musica tout-court. Prima ancora di diventare neumi i suoni sono indicati tout court con le lettere dell’alfabeto, poi con il perfezionamento dell’applicazione della scrittura alla musica (i primi neumi derivano, sono, gli accenti – grave, acuto, circonflesso – della lingua) nasce ovviamente con la musica vocale, e la sua prima fase (dagli inizi della notazione musicale sino al Seicento) potrebbe essere riscritta come la storia (al contrario) del suo affrancamento dalle tracce, affioranti qua e là, di legami con il linguaggio verbale. Prima conquista le altezze fissandole in uno spazio senza tempo e senza misura se non quello del testo sottostante. Diventa mezzo di trascrizione (come tutta la scrittura, mezzo di aiuto alla memoria), ma anche, fondandosi sulla memoria, da quasi subito, mezzo di invenzione nata come tra-scrittura, come trascrizione è diventata anche una scrittura dell’invenzione, del com-ponere, del comporre. Da scrittura a posteriori diventa una scrittura a priori, che non trascrive semplicemente, ma inventa. La scrittura funziona sin da subito non solo come sistema di notazione del sonoro (per poterlo riprodurre…) ma anche come sistema di invenzione del sonoro. L’informatica musicale, il pensiero scaturito dalla nuova acustica (a differenza dell’elettronica) ha dato vita a una nuova rappresentazione del suono (tra le tante, le rappresentazioni al computer che riportano sotto l’egida dell’occhio l’orecchio e lo fanno appunto con lo spettro sonoro); riuscire a integrarla con la notazione tradizionale che disegnava e progettava le mappe sonore, quelle mappe sonore che chiamiamo partiture musicali, in una nuova notazione-scrittura che mi piace immaginare a colori, in movimento (come un film) e interattiva, potrebbe essere la svolta del terzo millennio cui lo la musica moderna – che ha liberato il timbro e ha costituito le premesse per la sua rappresentazione – ha dato un contributo fondamentale.
D Molti ormai gridano alla morte della musica sperimentale: ma esiste ancora la politica e/o l’avanguardia nella ricerca italiana, europea o mondiale?
R Certo ma le parole andrebbero meglio definite e collocate storicamente: sperimentale è una parola ancora oggi valida, avanguardia sembra un po’ troppo connotata politicamente o “militarmente“… Monteverdi era sperimentale e/o d’avanguardia? Forse la sua lezione è ancora oggi importante: era sperimentale quando rompere con i codici della tradizione serviva all’espressione, ad adeguare l’espressione ai nuovi tempi… come Bach, Mozart, Beethoven che rompevano gli schemi quando serviva a farsi capire/sentire meglio. Mi piace ricordare una frase semplicissima di Roman Jakobson che in una delle sue Sei lezioni sul suono e sul senso a un certo punto dice “si scrive per essere letti” che naturalmente si può trasformare in “si scrive musica”, o “si suona”, per essere ascoltati!” tutto qui, la tecnica viene dopo. In effetti anche Jakobson prosegue in maniera inequivocabile
… car on parle pour être entendu…
… et c’est pour être compris qu’on cherche à être entendu.
… perché parliamo per essere ascoltati…
… ed è per essere capiti che cerchiamo di essere ascoltati.
D Quali sono i musicisti del passato e del presente a te maggiormente affini o congeniali?
R Li ho indicati prima: quelli che cambiano le regole per uno scopo espressivo non per épater le bourgeois
D La solita annosa domanda che però voglio fare anche a te: come avvicinare il pubblico alla musica classica contemporanea? Ma prima rispondimi: c’è una definizione migliore per indicare la musica d’oggi?
Se si inserisse la musica d’oggi nelle stagioni non soltanto nei Festival, evitare il “ghetto” autoreferenziale, forse il dibattito sulla definizione svanirebbe… e poi suonare il Novecento, le società dei concerti sono pavide a questo proposito
D Come sostengono alcuni studiosi (più di mediologia che di musicologia) oggi in epoca di globalizzazione la musica è un tutt’uno? Serve ancora distinguere ciò che è pop da quanto è colto?
R Ti voglio rispondere con un ricordo: quando suonavo la chitarra elettrica (una Gibson Les Paul Deluxe Gold), ai tempi del Festival di Montalbano (primo festival pop italiano 1971! Ero tra gli organizzatori..) mi piaceva più Jimi Hendrix di Eric Clapton che trovavo troppo pulito, troppo educato…Quando ho iniziato a scrivere seriamente -soprattutto a Freiburg- ebbi modo di collaborare con una straordinaria violista, compagna di scuola -Barbara Maurer- e per lei scrissi A Wave, per viola sola… Ebbene quel pezzo risente sì degli studi classici (Bartok, Hindemith, etc…), di quelli contemporanei (Dusapin, Xenakis, etc…), ma non avrei potuto scriverlo senza Jimi Hendrix, è quella memoria anche fisica, corporea, che secondo me lo rende unico.

Intervista molto bella e istruttiva, soprattutto per i giovani che intendono aprirsi al moltepluce mondo della musica e della contemporaneità
Melchiorre, che frequento ,anche perché sarebbe nostra intenzione unire le nostre esperienze musicali ,è un musicista liberato dagli schemi.Compositore senza tempo proiettato verso pianeti sonori da abitare.Ho letto l’intervista.Interessante il suo
pensiero.Enrico Intra
Sono perfettamente d’accordo…