Ritorna il sarto del bebop, Walter Davis Jr. Ripubblicato «A Being Such As You», un classico del piano solo (Red Records, 2025)

Pianista, sarto, pittore, designer Walter Davis è stato un artista multidisciplinare, oggi si direbbe multimediale, ma la capacità di vedere il mondo della creatività da varie angolazioni, diventa un corroborante per la sua formula pianistica che sembra tagliare, cucire e imbastire traiettorie melodiche su modelli armonici esclusivi e fortemente personalizzati.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Con il suo pianismo istintivo e sanguigno, lontano dai ghirigori e dalle perifrasi accademiche ed eurodotte, Walter Davis Jr. è l’epitome dell bop declinato in scioltezza con quell’aura monkiana priva di sentimentalismo ed il tipico imprinting powelliano declinato su armonie veloci e non convenzionali. Una carriera discontinua, ma sempre di alto profilo in tutti settori in cui ha operato. Una discografia esigua come band-leader, solo una decina di album, ma centinaia come sideman con collaborazioni che spaziano, tagliando trasversalmente la storia del jazz moderno del secondo dopo guerra, a partire dagli anni Cinquanta fino al 2 giugno del 1990, giorno della sua prematura scomparsa. Davis ha suonato Max Roach, Charlie Parker e Dizzy Gillespie, già questo gli garantisce un passaporto per le stelle.
Nonostante le frequenti latitanze, il proteiforme Walter di ore in studio e sul palco ne ha trascorse abbastanza, tanto da lasciare il ricordo indelebile di uno stile unico e caratterizzato, capace di riverberare il pianismo dei padri fondatori del bebop, di cui diceva: «Non credo di poterlo lavare via da me». Il ricordo va ad uno dei classici della Blue Note, «Davis Cup» del 1959 che segnò il suo debutto come solista, quindi a dischi dischi epocali incisi in casa Alfred Lion con i Messengers di Art Blakey, Jackie McLean e molti altri, in cui il particolare tratteggio pianistico risulta assai evidente. Il modus operandi di Walter Davis come dimostra proprio «A Being Such As You», pubblicato per la prima volta nel 1979 dalla Red Record, sotto l’egida di Sergio Veschi e Alberto Alberti, in cui il pianista dipinge e cesella un quadro completo di umori musicali che si estendono dal bebop fino al modale spinto: c’è perfino un tocco di latin tinge che contrassegna l’apertura dall’album.
Pianista, sarto, pittore, designer Walter Davis è stato un artista multidisciplinare, oggi si direbbe multimediale, ma la capacità di vedere il mondo della creatività da varie angolazioni, diventa un corroborante per la sua formula pianistica che sembra tagliare, cucire e imbastire traiettorie melodiche su modelli armonici esclusivi e fortemente personalizzati. Abiti su misura che sembrano vestire alla perfezione la scelta degli standard o delle sue originali composizioni. Per contro, la sua pennellata crea un tela concentrica fregiata di cromatismi variabili che sembrano srotolasti passando attraverso improvvise escursioni tra il registro alto a quello più basso dello strumento. Dopo il distacco dal grande circo del jazz, negli anni Settanta, Walter Davis ritorno in auge attraverso una serie di collaborazioni importanti, tra cui quella con Sonny Rollins. L’approdo alla Red Records segnò un punto di svolta nella sua «seconda carriera».
Le cronache narrano che il 22 novembre del 1979, allo Studio Barigozzi di Milano, dopo la registrazione della sessione relativa a «Blues Walk» con Roy Burrowes alla tromba, il bassista sudafricano Johnny Dyanie e Clifford Jarvis alla batteria, Davis espresse il desiderio di realizzare un album in piano solo. Senza indugi, Sergio Veschi prenotò il Barigozzi per la mattina seguente. Walter si presentò in studio con una lunga lista di originali e di standard e insieme allo stesso Veschi scelsero nove titoli. Nell’opener, «Manteca», il pianista di Richmond trova una saltellante verve latina con un fraseggio monkiano picchiettante, rugoso e dissonante, imperniata sovente su una fluida escursione sulla gamma bassa dello strumento con la rapidità tipica di Bud Powell. Al netto delle suggestioni, è proprio lo stile tipico di un’epoca a sgorgare dalle dita di Davis. «Blackgammon», la prima delle tre composizioni originali, rappresenta un modello brevettato di hard bop, in cui il pianista serra i ranghi e, a tutta velocità, non lascia mai aria ferma. Il brillante controllo sulla partitura è assoluto e padronale, come solo gli eletti sanno fare, specie in condizioni di «solitudine» e senza l’appoggio di una retroguardia. «Glass Enclosure», a firma Bud Powell, poco praticato da altri jazzisti, a causa di alcune difficoltà strutturali, è un abecedario bebop per tutti quei pianisti che intendono misurarsi con una certa sintassi a loro rischio e pericolo: Walter percorre le accidentate e nodose armonie del suo mentore ideale, senza andare in debito d’ossigeno e con un apporto energetico in termini di ottani, atto a sospingere il costrutto sonoro oltre l’immaginabile.
La classica «My Funny Valentine, più che una ballata diventa un balletto fra i tasti del pianoforte, una danza propiziatoria che dapprima travolge, per poi avvincere nei momenti più melodici ed attinenti al tema. Davis Jr ne fa, però, una sua personale rilettura, dove l’impeto improvvisativo dilata, sicuramente, capovolge a dismisura la stasi canzonettistica che l’autore, in origine, aveva vergato sul pentagramma. «Milestone» di Miles Davis diventa un riscatto ed un momentaneo affrancamento dal bop tradizionale, consentendo al pianista di misurarsi sul terreno scosceso del modale, aprendo così la strada a «Scorpio Rising», la seconda perla della premiata ditta Walter Davis, perfettamente cucita nel suo tessuto creativo, in cui il pianista fa emergere tutti i demoni in fase esecutiva, ma anche un’infiammabile scintilla compositiva. La possibilità di misurarsi su un terreno «casalingo», gli permette di mostrare una migliore proprietà di linguaggio ed una maggiore asserzione nel fraseggio, suonando come se non ci fosse stato più un domani.
«La title-track, «A Being Such As You», forse il climax dell’album, è il compromesso tra lo yin e lo yang della personalità di Walter Davis che si estrinseca in un suo componimento agro-dolce, ricco di cromatismi a tratti bruniti ed intarsiati di gospel, altri più trasparenti e melodici con un abbondante dispendio di passaggi armonici e cambi tonali. La forza e la potenza espressiva di un jazzman di lungo corso e la sartoriale capacità di cucitura dei tempi, trascina l’ascoltatore lontano, all’epoca di Charlie Parker, in cui «Embraceable You» di Gershwin divenne un standard amato dai boppers. Per contro, la formula adotta da Davis Jr. travalica lo spazio, geo-delocalizzando il costrutto melodico-armonico in una dimensione altra, a cui si aggiunge qualche nota di diversità interpretativa: oggi diremmo di contemporaneità. In chiusura, «I’ll Keep Loving You» di Bud Powell ritrova nuovamente un posto nella storia, sulla scorta di una narrazione rispettosa, ma infedele in relazione al primigenio modulo esecutivo, tanto da salvaguardare il nostro pianista da qualunque tentativo di clonazione in vitro o di calligrafismo scolastico. Senza retorica, tutti gli appassionati di jazz, specie i più giovani, dovrebbero essere grati a Marco Pennisi, patron della Red Records, per aver pensato di ripubblicare «A Being Such As You», restituendo così al mondo degli uomini un lodato paradigma del piano solo, che rischiava altrimenti di disperdersi nelle nebbie dell’oblio.
