«The Art Of The Quartet» di Destriere / Principato / Cantarano / Fioravanti, quando l’impresa eccezionale è essere normali

Un album che gioca a viso scoperto sul terreno di un mainstream raffinato, riuscendo a toccare idealmente molti punti nevralgici del bebop-hard-post, nell’accezione più larga del termine…
// di Francesco Cataldo Verrina //
Parlare di ortodossia del jazz, si finisce per passare per integralisti. Di certo, molti obietteranno che il jazz è di per sé un costrutto concettuale coerente, ma eterodosso, sovente eterodiretto e multidirezionale, oltremodo multi-confluente ed etero-divergente. Al netto di ogni elucubrazione pseudo-filosofica o filologica ed idiomatica, la musica di «The Art Of The Quartet» è un concentrato di potente post-bop, un peana innalzato sull’altare della musica sincopata afro-americana e del jazz nell’espressione più autentica, quello «che ti vibra nelle ossa e che ti entra nella pelle». Lo stesso Eugenio Finardi, sarebbe d’accordo nel concedermi i diritti sul termine «musica ribelle», una musica senza digressioni orpelli camuffanti, languori germanici e menate psudo-cameristiche.
Con Patrizio Destriere sax soprano, alto e tenore, Pierpaolo Principato pianoforte, Stefano Cantarano contrabbasso ed Ettore Fioravanti batteria si potrebbe pensare al tipico quartetto coltraniano. Attenzione, perché la musica di un’epoca ineguagliata per creatività ed innovazione, non solo «rivive», ma nel progetto di Destriere e compagni «vive» e brilla di luce propria: tutti componimenti sono originali e filtrati attraverso un mood ambientale che capta elementi e stimoli circostanti, ad eccezione di «On The Brink» di Jerry Bergonzi, un omaggio ad un maestro del sax, di cui Patrizio offre una sua personale lettura, non facendone rimpiangere potenza ed espressività. Destriere riceve il supporto ed il placet di Pierpaolo, Stefano ed Ettore, i quali non lasciano aria ferma e soprattutto sanciscono che il formato quartetto, storicamente il più diffuso, è quello che nel jazz riesce ad offrire la massima interazione fra i sodali, un interplay dinamico e una una ricca varietà cromatica. Nello specifico, arricchita nella gamma tonale da un gusto quasi orchestrale, grazie all’uso di tre sassofoni da parte di Destriere. Va da sé, che l’intento dei «quattro amici» sia stato proprio quello di sviluppare un concept legato alla compagine ideale e simbolica del bebop che ha consegnato pagine di gloria alla storia del jazz nato nel secondo dopoguerra, passando per Lester Young e Teddy Wilson, al Modern Jazz Quartet, dalle formazioni capitanate da Sonny Stitt, Charlie Parker, Warne Marsh fino ai gruppi di Wayne Shorter, Bob Berg, Michael Brecker fino a giungere ad Eric Alexander Chris Potter o Joel Frahm. Come dicono gli stessi musicisti coinvolti nel progetto: «sono tutti esempi del ventaglio delle possibilità che un quartetto jazz ha disposizione: un universo dalle potenzialità infinite».
Pubblicato da LaPOP, «The Art of the Quartet» è un album che gioca a viso scoperto sul terreno di un mainstream raffinato, riuscendo a toccare idealmente molti punti nevralgici del bebop-hard-post, nell’accezione più larga del termine, basta l’ascolto dell’opener «Mr. P.M» per capire l’aria che tira. Il brano scritto dal pianista Pierpaolo Principato, sembra uscito da un disco della Blu Note, a metà strada tra Andrew Hill e Wayne Shorter. Ma sono solo suggestioni, poiché il convoglio cammina sulle proprie gambe ed il quartetto secerne subito una discreta dose di poesia e pathos, con l’ottima composizione di Stefano Cantarano, «Little Night Walk» che regala a Destriere la possibilità di esercitare il suo fascino di ottimo balladeer, nel segno della migliore tradizione sassofonistica, mentre il pianoforte ne abbellisce i contorni e la retroguardia pennella la tela sonora con garbo e discrezione. In «Armonia Perfetta», sobbalza l’estro creativo di Destriere, compositore ed esecutore al soprano di una melodia dal gusto retrò che, nell’afflato con il piano di Principato, ricorda le coltraniane e mctyneriane ambientazioni di «My favorite Things». Per contro, «Lockdown», dopo un’introduzione al sax esplorativa ed inquieta – forse perché consapevole dei turbamenti che questo titolo possa far scaturire – si distende su un modulo in overclocking srotolato in velocità e su rapidi cambi di umore e di passo alla Charlie Parker, con un assolo di batteria da manuale nell’intermedio, seguito da un pianoforte zampillante di idee e percvicacemente evocativo che prepara il terreno al lancio finale del sassofono.
«Oi’ ma’», ancor a firma Destriere, è un componimento duale, con un prima parte che sembra scrutare in una dimensione sospesa ed una seconda più verticale e cumulativa, la quale offre spazio all’esposizione dei singoli musicisti ed al loro apporto improvvisativo. «Charlie’s Eden», pezzo composto da Cantarano, forse pensando a Charlie Haden, insomma da bassista a bassista con ammirazione stima. L’atmosfera di taluni dischi di Haden viene colta in pieno. «MT (Moments Of The Time)», farina del sacco di Destriere, ha un movimento gioioso ed un’aura latina che consente al pianoforte di brillare in tutta la sua magnificenza, divenendo il controcanto del sax soprano con il suo elaborato melodico che sa di piacevolmente antico, mentre basso e batteria fanno da spartiacque ad una narrazione che diventa progressivamente sempre più incantevole: gli effetti collaterali del sax soprano. In chiusura, un altro distillato dei neuroni di Patrizio Destriere, un costrutto sonoro rivoluzionario, soprattutto nella sua disponibilità a guardare nello specchietto retrovisore della storia del jazz moderno e nella sua capacità di riportare alla mente talune atmosfere shorteriane e non solo. «The Art Of The Quartet» è un omaggio, quasi in purezza, a quel mondo di suoni, ritmo, colore ed emozioni che possiamo chiamare «jazz» ad alta voce senza paura di essere smentiti, ossia l’autentica ribellione alle mode del contaminato-incrociato-screziato-contemporaneo. Come avrebbe detto Lucio Dalla: «L’impresa eccezionale è essere normali».
