Jazz il primo essenziale spartiacque. Intervista a John N. Martin autore de «I Muri del suono»

John N. Martin
// A cura di Guido Michelone //
Uno dei migliori libri di musica del 2024 è sicuramente I muri del suono che può anche essere tranquillamente letto e analizzato dai cultori del jazz, perché, oltre essere fitto di notizie che intrecciano le varie musiche del secondo Novecento, indica un metodo che lo stesso jazz potrebbe seguire: individuare i luoghi topici, cult, polifunzionali dove il jazz si manifesta e si evolve. Ne parliamo con l’autore John N. Martin nato a Milano nel 1963, ex musicista e disc-jokey, ma soprattutto storico dei movimenti antagonisti contemporanei, al quale, già dieci anni fa si deve un altro libro strepitoso: Gast(rock)nomia. Storie di cucina e rock’n’roll.
D In tre parole chi è John N. Martin?
R John. Nicolò. Martin.
D Il tuo primo ricordo della musica da bambino?
R Mia nonna Nessie che suonava un 45 giri color turchese di “Nel Blu dipinto di blu” sul suo meraviglioso Garrard RC-80, e più tardi, sempre in Inghilterra, la mia cameretta davanti al giardino dove convivevo con montagne di vinili, un coniglio bianco, e il mio fedele cambiadischi che sottoponevo a dei tour-de-force mostruosi. Sempre un Garrard, ma questa volta era il Synchro Lab 65B. Darei un rene per riaverlo.
D Ci parli in breve del tuo percorso lavorativo, artistico, professionale?
R Sino a 16 anni ho fatto l’ascoltatore seriale formando così i miei gusti musicali. In generale mi piaceva tutto ciò che era strano, diverso, non convenzionale. A scuola non c’era giorno che non arrivassi in classe con pigne di dischi che puntualmente scambiavo con i compagni, e il sabato pomeriggio, sempre in giro per Milano o per Londra a caccia di vinili. Ascoltavo di tutto e di più, non importava cosa. L’importante era assimilare più stili possibili e, magari, riuscire a collocarli storicamente. Poi, con la maggiore età ho iniziato a fare un po’ di radio, djing, smanettare su qualche strumento, e a scrivere canzoni per conto mio, finché non ho trovato chi voleva condividere con me un’esperienza live. E ho suonato per oltre dieci anni. Funky jazz, pop elettronico, musica d’autore e sono andato pure in tournée con un’orchestra spettacolo. Un’esperienza che mi ha confermato quanto potesse essere duro il mestiere di musicista. Poi, grazie all’incontro con Primo Moroni (famoso libraio ed intellettuale situazionista milanese) ho sviluppato quel gusto per la scrittura e per l’analisi che ho affinato sino ad oggi.
D Come definiresti ora la tua attività? Critico, studioso, organizzatore o tutto insieme o altro ancora?
R Tecnicamente io sarei un “analista di sistemi urbani”. Ovvero un architetto che, anziché progettare, studia i rapporti tra le persone e il loro ambiente, e cosa succede al mutare di questi due elementi. Come scrittore invece, mi definisco un saggista o, se vogliamo, uno “storico delle culture informali”.
D Possiamo parlare di te come di uno dei protagonisti italiani della storia delle culturealternative? Come mai hanno attirato la tua attenzione?
R “Protagonista” non saprei. Diciamo però che dopo quarant’anni, una certa competenza l’ho sviluppata. L’attenzione per le culture alternative, credo risieda sempre in quel gusto per le cose strane di cui parlavo prima. Inizialmente una semplice attrazione, che ho razionalizzato con la mia tesi di laurea (pubblicata nel 2007 da Shake Edizioni come “La Luna Sotto Casa”) e dopo infiniti approfondimenti, applicato anche ad altri ambiti.
D Tu sei celebre anche quale esperto di prog rock: perché l’interesse se questa musica era già in calo (se non ‘scomparsa’) negli anni della tua adolescenza?
R La rivelazione arrivò intorno ai quindici anni, quando ascoltai “Close To The Edge” degli Yes. Solo che, mentre a molti miei amici sembrava un “minestrone”, io ne rimasi letteralmente fulminato. Sino ad allora mi era successo solo con Hendrix. Era la musica fatta per me: complessa, ammaliante, tecnicamente straordinaria, un crogiolo di contaminazioni, testi onirici, atmosfere epiche, insomma, perfetta. E fu così che andai a stanare tutto ciò che di progressive ci fosse sulla terra. incluso quello italiano che, almeno sino ai primi anni Ottanta, non si filava nessuno.
D Per te ha ancora un senso oggi scrivere libri di musica nell’epoca dei social?
R Certo!Perché i social sono favolosi, ma il libro resta, è tuo, non conosce l’errore 404. Un libro puoi afferrarlo, sbirciarlo, rileggerlo e riconsultarlo mille volte, come e quando vuoi. Puoi fartelo dedicare, autografare, puoi dedicarlo tu e regalarlo alla persona che ami. Non ha bisogno di hardware o software. Un libro è sexy.
D Parliamo ora de I muri del suono: come e quando ti è venuta l’idea? E quali, per te, gli aspetti più originali del volume?
R “I muri” è stato concepito circa quattro anni fa, quando, dopo aver contaminato il rock in ogni maniera possibile (politica, società, movimenti e persino l’alta cucina), mi accorsi di non aver mai scritto nulla sulla mia materia preferita, e sulla quale – in fondo – mi sono pure laureato. Quindi sui luoghi, sugli ambienti, sull’empatia che si crea con le persone eccetera. Nacque così, “I muri del suono”, un viaggio nei luoghi che hanno rivoluzionato la musica rock, e allo stesso tempo un omaggio a coloro che li hanno gestiti, animati e consegnati alla leggenda. Quarant’anni esatti: dal rock’n’roll al peer-to-peer.
D Dei 23 luoghi da te descritti ce ne è uno che ami più degli altri? Se sì, quale e perché?
R Mi piace il capitolo su Radio Caroline perché la ascoltavo sempre da ragazzo, e quello sui Tangerine Dream perché è il più strampalato di tutti.
D Oltre il rock che ha spesso trasformato questi ‘muri’ in ‘luoghi di culto’ soprattutto per fans e turisti, ce ne sono altri meritevoli di un sequel?
R Diciamo che non sarebbe male un libro simile ai “muri”, ma in chiave jazz. Quindi, non un semplice spotting di luoghi, come ce ne sono tanti, ma un’analisi sul contesto in cui si produssero certi cambiamenti, sul come e il perché accaddero, e cosa successe dopo.
D Anche altre musiche (come la classica, il jazz, l’etnica o folk) hanno i loro templi (o spazi topici e tipici). Te ne sei interessato? Cosa li differenzia dal rock (e dal pop) che tu hai affrontato?
R In realtà, nei “muri” vengono citati anche il Village di Manhattan, lo Scene Club di Londra, il Capolinea, o addirittura il mitico Crystal di Milano che era un live-pub, dove si faceva solo musica classica. Ma sono solo citazioni funzionali al racconto. I locali jazz, folk ed etnici, proprio come le loro musiche, hanno altre radici, altri avventori, altre dinamiche. A volte focalizzate sul ballo, altre sull’ascolto. Io mi sono interessato solo a quelli che hanno centrifugato più energie differenti, se non proprio contrastanti. Che sono poi quelle che producono il “nuovo” propriamente detto.
D Una domanda per la mia rivista: ti piace il jazz? Lo hai mai tratto da dj, giornalista, studioso?
R Certo che mi piace. Il jazz è stato il primo essenziale spartiacque tra la nostra anima e la modernità. Non l’ho mai approfondito perché non è la mia materia, ma l’ho doverosamente studiato (almeno le basi tecniche e storiche) e ne ho ascoltato a tonnellate, anche perché la mia prima band era composta tutta da filo-jazzisti che poi sarebbero diventati professionisti. Per cui cui eravamo sempre alle Scimmie, al Tangram o al Capolinea, dove abbiamo conosciuto, tra gli altri, stelle di prima grandezza quali Gerry Mulligan e Billy Cobham (di cui conservo gelosamente gli autografi), per non parlare di Pat Metheny, Joe Zawinul, Chick Corea, e naturalmente, tutti i migliori musicisti di casa nostra: Intra, Tomelleri, Fresu, D’Andrea, Capiozzo, Tullio De Piscopo e il mio amico Gianluca Mosole di cui possiedo un live inedito alle Scimmie, e che oggi fa un raffinatissimo cross-jazz.
D Infine cosa pensi tu dell’attuale situazione – governo Meloni – in cui versa la cultura italiana (di cui la ‘nostra’ musica ovviamente fa parte da anni?
R Credo occorrerebbe una maggiore compresenza di conflittualità e di trasgressione, intese nel senso gramsciano del termine. Anche perché, quando la bilancia pende troppo da una parte, difficilmente si producono cultura, innovazione e men che meno arte.
