Attenti a noi due: Roscoe Mitchell With Anthony Braxton con «Duets» del 1978

Il microcosmo di Roscoe Mitchell prende subito corpo, con i due musicisti che suonano il sassofono e il flauto, muovendosi in maniera circolare, l’uno attorno all’altro, ed in tandem l’uno con l’altro o contro l’altro, sviluppando una lunga progressione sonora.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Nonostante folte schiere di cultori del jazz mainstream non abbiano mai compreso o voluto lasciare uno spiraglio aperto alla musica di Taylor, il suo estremismo anarcoide è ben più contenuto rispetto agli assunti basilari della scuola di Chicago. In questo caso il termine «free jazz» appare completamente privo di significato, soprattutto se si analizza attentamente la semantica sonora di «Duets» del 1978. È chiaro che la parola «free» – come spiegato più volte – ha un range contenitivo abbastanza ampio ed inclusivo, fagocitando tutta una serie di avanguardie e sperimentalismi a vario titolo, a partire dai primi anni Sessanta, sin dalle nuove forme disegnate da Ornette Coleman, del jazz che sarebbe venuto, ma forse mai immaginato in questa «deforma mentis». Qui si va oltre la barriera del suono, siamo ultra-suono percepito anche dall’orecchio umano.
Roscoe Mitchell e Anthony Braxton, maestri degli strumenti multi-reed (strumenti a canna), avevano avuto legami profondi con l’ambiente di Chicago e l’AACM, essendo stati tra i primi membri di quel rivoluzionario collettivo, che aveva portato lo sperimentalismo a livelli parossistici. I due s’incontrarono nel 1976 per registrare un album bidimensionale con composizioni di Mitchell sul primo lato e di Braxton sul secondo. I due musicisti erano abili veterani nello scomporre la materia sonora: Mitchell aveva trascorso molti anni con l’Art Ensemble Of Chicago, mentre Braxton aveva cercato presto la sua strada, caratterizzandosi come uno degli alchimisti sonori più eccentrici della sua generazione. «Duets» fu una sorta d’incontro a Teano, a metà strada per una collaborazione finalizzata non tanto ad una sovrapposizione, ma ad un’esplorazione estrema dei singoli costrutti sonori, con metodologie d’impiego e regole d’ingaggio diverse, rispetto a qualsiasi altra loro sessione precedente. Il microcosmo di Roscoe Mitchell prende subito corpo, con i due musicisti che suonano il sassofono e il flauto, muovendosi in maniera circolare, l’uno attorno all’altro, ed in tandem l’uno con l’altro o contro l’altro, sviluppando una lunga progressione sonora «Cards-Three and Open», a cui avevano fatto da preambolo tre componimenti brevi, «Five Twenty One Equals Eight», «Line Fine Lyon Seven» dall’abbrivio quasi cameristico con accentazioni cool e «Seven Behind Nine Ninety-Seven Sixteen Or Seven» propedeutica alla lunga suite che consente loro di muoversi come in una danza tribale, dove i due contendenti, amici-rivali, recitano a soggetto, assumendo a turno il ruolo di protagonista-solista, ma lasciando sempre un varco aperto alla musica dell’altro, mentre un’orgia di suoni comincia ad avvolgere il fruitore, soggiogandolo senza via di scampo, tra vibrazioni, pulsioni, urla, distorsioni e dissonanze emesse con cruda sicurezza e con una progressione non prevista da alcun pentagramma o tracciatura scolastica.
La B-Side è lo stand espositivo delle circonvoluzioni creative di Anthony Braxton, disegnate come diagrammi asimmetrici tracciati a mano libera, al fine di spingere la musica in direzioni molteplici. Il processo sonoro appare meno contratto e giocato su tonalità più espanse, specie con gli strumenti usati da Braxton, il quale cerca una parvenza di melodia intellegibile, attraverso i toni scuri e profondi del baritono e del registro più basso del tenore. La seconda facciata marca l’esigenza di alcune comuni finalità, ma soprattutto le differenze stilistiche fra i due sodali.Nel suo triplice costrutto, sia pure dematerializzato, definito in maniera progressiva «Composition 49Q, 74B, 74A», Braxton tenta di disegnare una gamma più ampia di trame al fine di ottenere un motivo basato su una sequenza di chiaro-scuri, anche se non sempre percepibili, a contrario di Mitchell che punta sempre all’essenza cruda del suono come vibrazione di un corpo elastico, atto all’induzione di stimoli, piuttosto che al completamento di suggestioni inscatolate e circoscritte.
Che i due fossero realmente coinvolti nel progetto, scevri da qualunque finalità commerciale, nonostante le loro rispettive carriere molto affermate, è dimostrato da una spontanea intimità, che a volte porta l’improvvisazione su un livello di equilibrio e di rispetto non comune. Come dire: adesso vai tu che io ho già fatto troppo. Nessuno dei due, ovviamente, cede terreno all’altro, le loro convinzioni di base non appaiono negoziabili; è proprio dall’instabilità creativa che nasce un album assai stimolante per i cultori del genere, imperniato su un jazz «virile» che supera ogni avanguardia, di certo non adatto al jazzofilo del fine settimana, dove l’uso del termine free, già obsoleto, diventa solo un pretesto catalogatorio o un’etichettatura indicativa. Il blob sonoro che fuoriesce dall’album oltrepassa la dimensione materica e trascrivibile come musica per lezioni accademiche.
