CoreaThe mask

Il Corea della Elektric Band era un musicista appagato e condivisivo, tanto che in alcuni momenti sembra cedere volentieri il comando a Patitucci e Weckl, coinvolti nella produzione e nella composizione degli album, nei quali, come da copione, i vari componenti dell’ensemble diventavano affluenti creativi del progetto.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Il periodo che legò Chick Corea alla GRP di Dave Crusin risulta alquanto blando sotto il profilo della ricerca musicale. A quel tempo, il pianista amministrava una notorietà planetaria che gli consentiva di stare al passo con le nuove tecnologie e di vivere di rendita, tanto che il progetto Chick Corea Elektric Band non fu mai amato dai tradizionali sostenitori, i quali ne avevano apprezzato l’evoluzione ed il passaggio dal post-bop alla fase latina e, non non ultima, all’esperienza in ambito fusion con i Return To Forever. La produzione di Corea è comunque sterminata ed il suo range creativo copre un periodo di quasi sessant’anni, al punto che ce n’è davvero per tutti i gusti, ma al contempo non è difficile scovare qualche zona d’ombra.

Quando si parla degli anni Ottanta e Novanta, bisogna considerare talune variabili ambientali, tecniche e di mercato. Parlando di «Beneath The Mask», pubblicato dall’etichetta di Crusin nel bel mezzo dell’esplosione del CD, Corea sfruttò appieno il maggiore tempo di contenimento del supporto, tanto che nell’edizione in vinile del 1991 (all’epoca in declino) alcun tracce vennero escluse ed altre tagliate per poter essere inserite nel classico microsolco. Il disco, che in quell’anno raggiunse la seconda posizione nella classifica Top Contemporary Jazz Albums di Billboard, per la gioia dei completisti, a distanza di trentatré anni, nel novembre del 2024 è uscito su un doppio vinile rimasterizzato, in cui tutti i brani sono stati ricomposti e riordinati secondo lo schema originario stabilito dal pianista. «Beneath The Mask» della Chick Corea Elektric Band segnò il ritorno al jazz-funk commerciale e ad una forma di fusion leggera ed accattivante, contrassegnata da melodie dal sapore ispanico-latino a presa rapida e canticchiabili sotto la doccia. Parliamo di un formato sonoro assai vicino allo smooth-jazz che, in quegli anni, imperversava in tante radio americane vicine alla GRP, collocandosi sulla medesima linea di demarcazione dei primi album. Il disco, nonostante un discreto successo di vendite e di gradimento, iniziò a minare le loro certezze, determinando il lento, forse naturale, tracollo del gruppo, che aveva debuttato cinque anni prima con un pretenzioso lavoro «autointitolato».

La sezione ritmica era costituita da Dave Weckl alla batteria e John Patitucci al basso elettrico, ai quali in studio vennero affiancate le chitarre di Scott Henderson e Carlos Rios. Pur muovendo dagli assunti basilari della fusion jazz-rock del decennio precedente, la Elektric Band subiva il fascino delle sonorità più acriliche e sintetiche degli anni Ottanta, le quali finirono per essere sempre più morbide e levigate nei lavori successivi. «Light Years», pubblicato nel 1987, migrò dichiaratamente verso il funk, optando per le sonorità e le combinazioni ritmiche del momento, più attrattive per l’airplay radiofonico, sicuramente più adatte a certe ambientazioni pre-disco da cocktail bar. Frank Gambale divenne ufficialmente il nuovo chitarrista sostituendo Scott Henderson e Carlos Rios. A questo punto mancava uno strumento a fiato, quindi per arricchire il sound della band venne assunto in pianta stabile il sassofonista Eric Marienthal. Con l’arrivo di «Eye Of The Beholder» il modus operandi della band diventò ancora piu ruffiano, quasi aggraziato, con il piano e le chitarra che riscoprirono le atmosfere acustiche e talune combinazioni vicine al flamenco. «Inside Out», pubblicato nel 1991 si sostanzia come un disco ondivago che tenta di recuperare soluzioni vicine ad una sorta di hard-bop liofilizzato con qualche rudimento di fusion ricreata in vitro ad usum delphini.

Il ciclo si concluse con «Elektric Band II: Paint The World», pubblicato» nel 1993. A Corea e Marienthal, superstiti della formazione originaria, si affiancano Mike Miller alla chitarra, Jimmy Earl al basso e Gary Novak alla batteria, mentre la band, con la medesima prassi, operò nei territori affini e contigui al jazz, elaborati con la formula del pronto-cuoci e del take away. Nel 2004, dalla reunion autocelebrativa della band, nacque «To The Stars», un album vagamente trionfalistico e disomogeneo, basato sull’intero formulario espressivo e compositivo praticato da Corea e soci nel corso degli anni. Nel ventaglio di possibilità offerto dalla sconfinata discografia del pianista italo-americano, quella relativa alla Elektric Band risulta essere la meno interessante sotto il profilo della ricerca, dell’innovazione e della sperimentazione sonora. Se si analizza complessivamente l’excursus musicale di Corea, ci si avvede, che ad ogni fase conclusa della sua carriera, ne è sempre seguita una più stimolante ed innovativa. Senza tralasciare il fatto che, dal 1991, il pianista bostoniano sarà attivo per altri trent’anni sulla scena, attraverso una messe di iniziative e di collaborazioni al vertice.

Va detto che il Corea della Elektric Band era un musicista appagato e condivisivo, tanto che in alcuni momenti sembra cedere volentieri il comando a Patitucci e Weckl, coinvolti nella produzione e nella composizione degli album, nei quali, come da copione, i vari componenti dell’ensemble diventavano affluenti creativi del progetto. È quanto accade in «Beneath The Mask», il più riuscito fra i dischi legati a questa esperienza, almeno dal punto di vista del mood, sebbene il fruitore possa avere l’impressione di trovarsi di fronte alla play-list di un DJ imperniata su una scala di scelte plurali: dall’heavy grooving funk al jive dai colori africani, dal mellow smooth jazz al prog-rock/fusion in stile anni ’70, di tutto e di più, senza mai calcare la mano con l’intento di mantenere il convoglio a velocità di crociera, al netto di qualche piccola onda anomala o eruzione virtuosistica. Si ha perfino la sensazione che siano Patitucci e Weckl a spingere Corea su un terreno a loro più congeniale, fertilizzato con elementi ritmici dichiaratamente funk, in cui la vecchia fusion-rock diventa solo uno sbiadito ricordo, mentre lo stile compositivo del «vecchio» Corea aveva lasciato il posto ad un suono più orientato al groove, a tratti perfino «discotecabile» sul modello Chic e similia. Patitucci schiaffeggia il basso con uno slap robusto e tagliente alla Ben Edwards, Gambale usa la chitarra come una grattugia, sul modello Nile Rodgers, mentre Weckl agisce sul kit percussivo in maniera tentacolare conficcando robusti cunei di ritmo nel substrato sonoro come un novello Tony Thompson.

Amiri Baraka (LeRoi Jones) scrisse di Patitucci e Weckl, definendoli come due musicisti debitori della cultura afro-americana, «autentici scippatori», abili nel dirottare il cauto Corea, amante della musica eurodotta ed ispanica, verso un modulo espressivo in prevalenza patrimonio della black-music. Negli anni ’80, ci fu una forte impennata della musica di matrice afro-americana ed una riscoperta delle radici dell’ R&B e del soul. Nel momento in cui la GRP distillava il suo funk pret-a-porter, in Inghilterra si assisteva alla nascita del cosiddetto New Cool (una mistura di soul-funk-R&B, venato di jazz), mentre Miles Davis aveva gia sposato da tempo le istanze della musica di Prince e Marcus Miller, interessandosi alle sonorita della street culture. La stampa italiana, da sempre alquanto flebile sul versante black-music, a proposito della Elektric band parlava ancora di jazz-rock-fusion, mentre il mensile Blues & Soul, alla fine degli Ottanta, titolava. «Jazz World In The Funk Universe». Forse non tutti lo sanno, ma John Patitucci è stato un estimatore di James Jamerson, iconico bassista elettrico, responsabile del suono della Motown e tenutario di quella linea di basso che fu il contrassegno saliente di decine di successi soul-funk-R&B negli anni Sessanta e Settanta. James Jamerson e i Funk Brothers fornirono il ritmo e la sostanza sonora ai maggiori successi internazionali di Stevie Wonder, Diana Ross, The Miracles, The Temptations, Martha & The Vandellas, Marvin Gaye, The Jackson 5, The Four Tops, The Supremes.

Il batterista Dave Weckl e dell’onnipresente John Patitucci al basso, sin dalle prime battute, spingono «Beneath The Mask» nelle acque territoriali di un power-funk confezionato su misura per la gioia dei programmatori delle radio, facendo dello stesso Corea una sorta di comprimario di lusso, almeno fino all’arrivo «One of Us is Over 40», composizione imbevuta di essenze ispanico-latine. Perfino la chitarra di Gambale con il suo ardente stile sweep picking, a tratti, è più in evidenza delle tastiere; soprattutto era dai tempi di Stanley Clark che un basso non dominasse cosi tanto la scena in un album di Chick Corea. Al netto di ogni valutazione sulla preponderanza dei singoli, tutto l’album è dominato da un’energia positiva e collettiva che distribuisce a piene mani un costrutto sonoro sofisticato, basato su melodie persistenti e non evaporabili, ma immediatamente spendibili. Va comunque sottolineato che a livello autorale, Patitucci e Weckl contribuirono alla scrittura di sette brani su dieci, di cui solo tre vennero esclusivamente firmati da Corea. La title-track, che dà la stura all’album, è un paradigma di heavy funk con bordate trionfalistiche e ridondanti alla Earth, Wind & Fire, in cui la chitarra, oltre ad accentuare i contrafforti fusion del progetto, compensa la mancanza di una vera sezione fiati: il sassofono di Eric Marienthal, che predilige il soprano al tenore, da solo, non fa primavera, ma funziona come uno tiepido raggio di sole che squarcia il tiro incrociato della ritmica e della squadra di sintetizzatori d’assalto. Per contro, la morbida «A Wave Goodbye», speziata e riflessiva da giorno di pioggia, con il sassofono che secerne una melodia brunita, fissa le regole del new soul strumentale declinato come un dondolante smooth-jazz alla Steely Dan, fino a giungere all’entusiastica e tripudiante prog-rock/funk-fusion in stile anni ’70 vicina ai Return To Forever, ma anche a gruppi ibridi come i Boston e gli Chicago prima maniera.

Uno dei climax dell’album è senza dubbio «One of Us Is Forty», una struttura ritmo-armonica funkified melodicamente elaborata dal Fender Rhodes di Corea, il quale favorisce la formula sempre più familiare di tour-de-force collettivo, dove tutti suonano all’unisono su linee veloci e pompate. «Illusions» inizia con accordi spaziosi ed un riff di basso ripetuto e ostinato, propedeutico ad un groove veloce, seguito dal «tutti per uno, uno per tutti», quindi un segmento spagnolo che ricorda i trascorsi del pianista. «Charged Particles» è una combine strumentale equilibrata, con influenze classiche e veloci melodie, macinate in parte dalla tastiera sotto un perforante assolo di chitarra. La band appare affiatata e compatta, mentre le variazioni armoniche e i cambi di tempo sono gestiti in modo sinergico, aprendo le porte allo showcase di Gambale, che combina l’alternate picking al classico sweep style per oltre cinque minuti di alta scuola fusion. Nel complesso la chitarra elettrica diventa un punto focale dell’intero disco, con Frank Gambale che sale in cattedra, contribuendo con memorabili assoli in «Little Things That Count», «Lifescape», «Free Step», apportando un contributo acustico su «A Wave Goodbye», nonché in parte degli interscambi di «Illusions».

Come già accennato, «Beneath The Mask» sarebbe stato l’ultimo album che la «classica» Elektric Band avrebbe registrato per i prossimi dodici anni, prima della reunion, e dopo le due uscite precedenti di Chick al pianoforte a coda. Per l’occasione Corea si procurò un piano elettrico midi-Rhodes e un SY-99, ultimo arrivato nella famiglia dei sintetizzatori Yamaha. Il risultato fu «Beneath The Mask», un album più incisivo e più aderente al verbo funky, soprattutto meno divagante rispetto ai precedenti «Eye Of The Beholder» e «Inside Out». (Chick Corea Elektric Band – «Beneath The Mask», 1991)

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