Il 28 Novembre del 1932, nasceva Gato Barbieri. Lo ricordiamo così…
Prima dell’arrivo di Gato Barbieri, pochi avrebbero immaginato che una musica così potente, spirituale, straziante, contenente i semi piantati da John Coltrane, Pharoah Sanders et similia avrebbe raggiunto l’Argentina, il paese più a Sud delle Amerindie.
// di Francesco Cataldo Verrina //
La figura di Gato Barbieri costituisce un unicum. Pur non essendo né americano (inteso come statunitense), né afro-americano, fu accettato nell’Olimpo delle divinità del jazz moderno dando un contributo essenziale allo sviluppo del free blowing, dopo essere riuscito a trovare un punto di convergenza tra l’energia e l’asprezza del jazz libero e le proprie radici ritmiche. Le prime esperienze a fianco di Don Cherry ne favorirono l’ingesso nella nomenclatura del jazz moderno. Passando per la famosa quadrilogia realizzata con la Impulse! Records e dedicata all’emisfero Sud delle Americhe, fino al passaggio alla A&M Records per la quale avrebbe prodotto una musica lussuosa e orchestrata, fatta di ambientazioni romantiche quasi vicine allo smooth jazz cedendo alle lusinghe del mercato ed attirando le invettive di una certa critica integralista. Ciononostante, Gato Barbieri mantenne invariata la propria originalità espressiva ed esecutiva con quel sax da cui le note fuoriuscivano copiose e abrasive, incollate come uno sciame di insetti pungenti, pronti a conficcarsi nelle carni dei fruitori, fino a narcotizzarne l’anima. A conti fatti, pochi album contengono l’intensità di «Fenix», dove il raggiungimento del punto di fusione tra sonorità e ritmi del Nord e del Sud del mondo arriva al climax più alto.
Prima dell’arrivo di Gato Barbieri, pochi avrebbero immaginato che una musica così potente, spirituale, straziante, contenente i semi piantati da John Coltrane, Pharoah Sanders et similia avrebbe raggiunto l’Argentina, il paese più a Sud delle Amerindie. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 il movimento «hippie jazz» stava vivendo il momento di massima virulenza pandemica: Alice Coltrane, Liston Smith, Charlie Haden, Michael White, Pharoah Sanders, Don Cherry e altri erano diventati i fautori di un pacifismo politicizzato e terzomondista che si sostanziava in una forma di jazz a schema libero con marcate sfumature mistico-religiose, arricchito di sonorità, simbologie e tribalismi africani. Per contro l’Argentina, storicamente, era ancora impantanata in una grave crisi sociale post-peronista, a cui il terrore e la repressione di una dittatura militare avrebbero dato il colpo di grazia. Dall’Argentina e non solo, anche Cile e Brasile, artisti di ogni genere espatriavano verso l’Europa alla ricerca di un nuovo Eldorado espressivo. All’inizio degli anni Settanta, il suono di Barbieri era pressoché in linea con le teste più innovative e creative del jazz d’avanguardia. Quando l’Argentino registrò «Fenix» era nel pieno della sua vigoria creativa, ma soprattutto fu il momento in cui realizzò appieno la sua futura linea editoriale e narrativa, ponendosi – come già accennato – a metà strada tra free-jazz e sonorità latine. Gato aveva impiegato circa un decennio per trovare una sua forma mentis: partito da Dizzy Gillespie e Sonny Rollins era approdato ad una formula più estrema e sperimentale dopo aver conosciuto Don Cherry. Gia «The Third World», in cui l’influenza folk sudamericana non era così evidente, ma sicuramente sufficiente a renderlo diverso dal tipico disco free jazz dell’epoca. Barbieri aveva così iniziato un processo di affrancamento dallo stereotipo nordamericano sviluppando un suono altamente energico ed inedito su composizioni di Atahualpa Yupanqui, Ary Barroso, Geraldo Pereira e Carlos Gardel. In «Fenix» il sassofonista tenore urla con voce rabbiosa e ferina, talvolta con strilli e claxonate. Oltre ad una tipica sezione ritmica, formata dal bassista Ron Carter, dal batterista Lenny White e dal pianista Lonnie Liston Smith (quest’ultimo appena uscito dalla band di Pharoah Sanders) e Joe Beck alla chitarra solo nella prima traccia, Gato coinvolse due ottimi percussionisti, Gene Golden congas e bongos e Naná Vasconcelos berimbau e bongosha, anticipando l’idea di un nuovo tipo di world music jazz.
In «Fenix», il sassofonista Argentino corre da solo su una pampa sconfinata, senza l’appoggio o il limite di un secondo strumento solista in prima linea, tanto che il disco diventa una vetrina espositiva tutta per lui, più di quanto non lo fosse stato «The Third World». Gato agisce da solo dominando la sezione ritmica senza una spalla che lo bilanci: il suo free playing è coinvolgente, ma chi è più avvezzo ad un jazz imperniato maggiormente sull’interscambio e l’interplay potrebbe sentire la mancanza, ad esempio, di quel riuscito e piacevole contrasto tra lui e Roswell Rudd, che era stata una delle peculiarità dell’album precedente. Lo stesso Lonnie Liston Smith al pianoforte, che era stato determinante nei momenti più riusciti di «The Third World», in «Fenix» sembra essere relegato al comping collettivo e non gli viene concessa la medesima libertà di manovra che aveva avuto in precedenza; per contro, il modo di suonare di Barbieri risulta più sicuro, ed è impressionante come egli riesca a mantenere tutta la lunga progressione sonora su un elevato standard qualitativo e quanto sia bilanciato l’equilibrio ritmico-armonico tra jazz afro-americano e tradizione folklorica sudamericana. Prima di «Fenix» nelle produzioni di Barbieri non c’era stato nulla di simile a «El Dia Que Me Quieras», «El Arriero» o «Bahia» dalla spiccata natura bossa nova. Con una retroguardia ritmica di prim’ordine alle spalle (in particolare Smith), Barbieri fu in grado di esprimersi sulla distanza senza perdere il controllo, di essere libero e di fluttuare in un saliscendi, fra i ritmi e le melodie tropicali, all’interno di incandescenti meditazioni sonore alimentate dall’insegnamento coltraniano. Smith si era innestato perfettamente nell’humus dell’Argentino, sapendo come intervenire alla bisogna quando il sassofonista-leader aveva qualche momento di cedimento, grazie alla pratica fatta in casa Sanders. Gli spigoli, rispetto al passato recente, sembrerebbero più smussati e la combinazione fra «carnevale» e «rabbia» risulta palpabile, mentre l’aspetto politico appare ancora in primo piano ed il fuoco dell’impegno ancora vivo.
Le percussioni etniche aggiunsero un tocco di vivacità e di esotismo all’intero album, specie con Vasconcelos al berimbau, strumento usato per la prima volta in disco considerato jazz a tutti gli effetti. Il percussionista apportò un’atmosfera da giungla, più africana che amazzonica, in due o tre brani dell’album, tra cui l’intro dello standard conclusivo «Bahia», ma il trasferimento della sensazione riuscì perfettamente. L’opener è affidato ad un componimento in levare «Tupac Amaru», dove la chitarra glissata di Beck e il solletico del Rhodes di Smith s’insinuano fra le congas, permettendo a Gato di scivolare agevolmente sul costrutto ritmico. «Carnavalito» ha un’impronta piuttosto mefistofelica ma il sax, quasi costante e lineare di Barbieri, si allontana leggermente dal modello imperante di free jazz. In «Al Arriero» Gato raggiunge qualche momento più drammatico, attraverso un suono più sofferto e stridente al contempo. «Falsa Bahiana» è una bossa lenta e sciropposa, mentre in «El Dia Que Me Quieras» Lonnie Liston Smith suona quasi alla McCoy Tyner. In «Fenix», registrato il 27 e 28 aprile del 1971 presso gli Atlantic Studios di New York, Gato Barbieri trapianta in un terriccio latino-americano, concimato con dilatate e potenti melodie di sax che virano verso il free jazz, la spiritualità e l’energia implacabile di Pharoah e Trane al netto della loro inclinazione africana. A differenza dei suoi ispiratori, egli non raggiunge mai momenti atonali o caotici, pur facendo ricorso ad una sonorità pingue, sempre alimentata e ipermodale, ma quel tocco latino, specie sullo sviluppo tematico della melodia, lo rende unico e non omologabile a chicchessia.