Wayne Shorter, un visionario multitasking: «The All Seeing Eye», 1965
Ci troviamo di fronte ad un unicum, dove i punti di riferimento sembrano essere più la poetica e l’estetica coltraniana che non l’universo davisiano, soprattutto Shorter aderisce in pieno a quell’ondata di rinnovamento che alcuni artisti stavano portando all’interno della Blue Note.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Esiste un prima ed un dopo, quale rappresentazione di una ricca ed articolata carriera, ma la produzione di Wayne Shorter, compresa tra tra il 1964 e il 1966, costituisce un climax mai più raggiunto. Parliamo del triennio in cui il sassofonista ha espresso al meglio la sua creatività sia come esecutore che come compositore. Lo Shorter del periodo fusion potrebbe essere archiviato come un tentativo, dai forti connotati estetici, che cercava di inseguire alcun linee tracciate da Miles Davis dopo la svolta elettrica; così come buona parte della sua produzione acustica appare come un tentativo di creare il tipico suono del Miles Davis Quintet degli anni Sessanta, anche se il sassofonista aveva avuto una parte consistente nella creazione di quell’archetipo sonoro.«»
«The All Seeing Eye», sesto lavoro di Shorter come band-leader, spesso poco visibile sulle direttrici della storia del jazz moderno, è un album basato su un’introspezione pessimistica della vita, dell’universo e di Dio. Ci troviamo di fronte ad un unicum, dove i punti di riferimento sembrano essere più la poetica e l’estetica coltraniana che non l’universo davisiano, soprattutto Shorter aderisce in pieno a quell’ondata di rinnovamento che artisti come Grachan Moncur, Herbie Hancock, Andrew Hill, Bobby Hutcherson, Sam Rivers stavano portando all’interno della Blue Note, notoriamente legata ad uno stampo più tradizionale e straight-ahead. Registrato il 15 ottobre del 1965 il set vide la partecipazione di un ensemble allargato: oltre ai già citati Moncur al trombone e Hancock al piano, James Spaulding al sax alto, Freddie Hubbard ed Alan Shorter alla tromba supportati da una sezione ritmica stellare, ossia Ron Carter al basso e Joe Chambers alla batteria. Un line-up di sette elementi diede a Shorter la possibilità di esercitare le sue formidabili capacità di scrittura e di arrangiamento; per contro l’articolata e complessa struttura ritmico-armonica offrì a ciascuno dei sodali l’opportunità di evidenziare le proprie abilità.
I «Magnifici Sette», partendo da un modalismo di stampo davisiano. approdarono ad un costrutto che lambiva i territori del free senza mai varcarne il limite. Wayne Shorter aveva già prodotto sei album per l’etichetta di Lion in un periodo assai fertile di circa 18 mesi. «The All Seeing Eye» arrivò sulla scia di «The Soothsayer» ed «Etcetera», due album provenienti da precedenti sessioni del 1965 che però non videro, rispettivamente, la luce fino al 1979 ed al 1980. Melodicamente, armonicamente e concettualmente, «The All Seeing Eye» spiazzo pubblico e critica dimostrandosi notevolmente diverso dal predecessore «Speak No Evil», molto acclamato e considerato un dei classici per antonomasia della Blue Note. Il legame con certe sonorità davisiane appare ovvio, ma «The All Seeing Eye», rispetto alle produzioni del leggendario quintetto, trasmette uno stato d’animo cupo, persino minaccioso ed esoterico: la musica è complessa e vigorosa, riuscendo ad intrecciare gli aspetti più tipici dell’hard bop a quelle sonorità avant-garde, che si stavano facendo largo su più fronti; un sorta di inno supremo alla Coltrane ma meno sacrale.
Molta critica ha, infatti, paragonato più volte questo album ad «A Love Supreme», soprattutto per via del significato spirituale di titoli come «The All Seeing Eye», «Genesis», «Chaos» e «Mephistopheles». Le spiegazioni di Nat Hentoff nelle note di copertina tendono a paragonare i due album, ma non tengono conto degli approcci molto diversi di Shorter e Coltrane: quest’ultimo risulta aperto, diretto ed emotivo, mentre Shorter è, come sempre, un enigma: le sue linee musicali appaiono contorte e capovolte come punti interrogativi; più che un’ascesa verso il cielo sembrerebbe una rinascita dopo una discesa agli inferi con uno Shorter che si allontana progressivamente da questo buco nero, da questa voragine che si era spalancata nella sua mente, prima che nella sua musica. Il suo jazz d’avanguardia non sarà mai più così vicino alla rottura degli argini, nonostante molti dei suoi album successivi porteranno ancora le cicatrici di certi climi inquietanti.
«The All Seeing Eye» è un concept album mistico/religioso e sperimentale più orientato ad una soluzione free-form che alla classica matrice blues, fatta eccezione per «Face In The Deep», brano camuffato da ballad e apparentemente più aderente ai canoni del sassofonista. Nel complesso ci troviamo di fronte ad un costrutto sonoro ben architettato grazie all’amalgama dei fiati: due sassofoni, una tromba ed un trombone; di certo destabilizzante per i sostenitori del Wayne Shorter più classico, ma di gran lunga superiore a tutta la sua produzione fusion e post-fusion ed in grado di staccare di molte lunghezze alcune registrazioni dello stesso periodo.